L’ITALIA UNITA VISTA ATTRAVERSO I QUADRI

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La storia del primo mezzo secolo dell”unità d”Italia è possibile raccontarla anche attraverso 15 quadri, tra i quali non può mancare “Garibaldi a Digione”, di Sebastiano De Albertis. Di Carmine CimminoSe la travagliata storia dei primi 50 anni dell’Italia unita la dovessi raccontare attraverso 15 quadri – e non è escluso che l’esperimento si faccia -, non potrei fare a meno di inserire nell’elenco il quadro di Sebastiano De Albertis “Garibaldi a Digione“ (foto). I fatti sono noti. È il 1870. I generali di Bismarck scuotono dalla fondamenta la storia e la geografia politica dell’Europa travolgendo a Sedan le armate francesi: lo stesso Napoleone III viene fatto prigioniero. Il disastro viene descritto da Zola in un romanzo straordinario “ La débàcle “.

A definitivo oltraggio della Francia, Guglielmo I viene proclamato “imperatore tedesco“ nella Reggia di Versailles. Quando i Prussiani sono entrati in Francia, Garibaldi ha dimenticato il passato, ha dimenticato i fatti del ’49, ha dimenticato quelli del ’67, e sebbene sia malato, è accorso in aiuto dei Francesi con i figli e con le camicie rosse. E Garibaldi e i suoi ancora una volta non conoscono sconfitte: vincono a Chatillon, a Lanthenay, vincono a Digione, dove uno dei figli dell’eroe, Ricciotti, compie atti di valore degni del cognome che porta. Ma sette anni dopo Sebastiano De Albertis legge quella vittoria come l’ultima vittoria, come la sera, cupa e tempestosa, di un giorno luminoso la cui alba era stata lunga 13 anni: i moti di Milano del ’48, la II guerra d’indipendenza, la spedizione dei Mille, la proclamazione dell’Unità.

De Albertis aveva combattuto – aveva 20 anni, allora – durante le cinque Giornate, sulle barricate di Porta Tosa, e Giovanni Visconti Venosta ce lo descrive armato prima di un fucile, e poi quando il fucile si spacca, di uno “spadone antico“. A Digione finisce tutto: finisce l’epopea di Garibaldi, si spengono i valori e gli ideali dell’ Italia nata da quella epopea. Il pittore è riuscito a fare un quadro di perfetta malinconia: non c’è una nota fuori posto: soprattutto, egli non ha battuto mai il tasto del melodramma. Nel chiarore nebbioso che sale dalla neve e svapora verso il cielo di cenere – l’immagine riprodotta non rende la delicatezza e la varietà delle sfumature di grigi e di viola con cui il cielo viene trattato – si dissolvono a poco a poco uomini e cose. La neve copre le strade: resta la traccia del passaggio dei carri, restano le orme degli uomini, ma la prossima neve le coprirà.

Garibaldi e il suo cavallo bianco dovrebbero essere il centro formale e sostanziale del quadro: ma se si osserva bene, si nota che il pittore guida la nostra attenzione sul trombettiere, che aspetta ordini. Intorno a lui c’è la morte: il cavallo, la camicia rossa vista di scorcio, il soldato col cappotto grigioazzurro che non ha avuto nemmeno il tempo di stupirsi: è caduto a gambe aperte e con le braccia serrate al tronco, il petto schiacciato sulla neve. De Albertis ha dipinto l’immobilità assoluta: la neve diventa un elemento metafisico, è la morte della natura e della storia, e Garibaldi a cavallo è ormai solo il monumento di sé stesso. La disfatta della Francia è la fine dell’età gloriosa delle rivoluzioni, è, nell’interpretazione degli storici tedeschi, la vera finis Romae, il definitivo tramonto della supremazia della civiltà latina e dei valori dell’Illuminismo e del liberalismo democratico, che da quella civiltà sono stati ispirati.

Il trombettiere aspetta ordini che nessuno gli darà, e forse, in un altro quadro, getterà via la sua tromba, ormai inutile. I valori pittorici dell’opera sono notevoli: la fanghiglia solcata dalle ruote dei “traini“ di guerra è resa in modo magistrale, attraverso l’accostamento di densi tocchi di colore, che diventano un valore tattile. De Albertis si conferma uno straordinario pittore di cavalli, non inferiore a Giovanni Fattori.
Nelle elezioni del 1913 Ricciotti Garibaldi si schiera a favore del marchese Medici del Vascello, che contende uno dei collegi della capitale al principe Caetani. Medici del Vascello viene sostenuto dai clericali. Le camicie rosse non sopportano che il figlio del loro condottiero sia un alleato dei clericali.

“Il Fascio dei garibaldini reduci delle patrie battaglie“ tiene, il 16 ottobre, un comizio per denunciare come indegno il comportamento del figlio dell’Eroe. “Piazza d’Italia, che fa capo al ponte Garibaldi dove troneggia la statua di G.G. Belli“ si riempie di gente. All’improvviso arriva, su una carrozza scoperta, il generale Ricciotti Garibaldi; la gente incomincia a fischiare e a insultarlo; egli, appoggiandosi alle stampelle, si alza, pronuncia qualche frase, ma i fischi e le urla gli impediscono di proseguire. Gli urlano di tutto, anche, dice il cronista, corrotto e venduto. A quel punto, i suoi aiutanti ordinano al cocchiere di uscire dalla piazza. Il comizio si apre: parlano i rappresentanti del “Fascio garibaldini“ e non usano parole gentili nei confronti di Ricciotti.

Poco dopo, la carrozza ritorna in piazza: Ricciotti tenta ancora di prendere la parola. Ma l’avversione della folla è ancora più clamorosa. E allora egli si allontana definitivamente, lanciando, dice il cronista, una occhiata di disprezzo verso gli organizzatori del comizio. Egli è pur sempre Ricciotti Garibaldi, che a Digione ha strappato la bandiera a un reggimento scelto dell’esercito prussiano.
(Foto: Quadro "Garibaldi a Digione" di Sebastiano De Albertis (1877), Museo del Risorgimento, Milano)

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