La critica gastroletteraria, inventata da Antonio Fiore, potrebbe trovare solidi nessi tra le storie del commissario Ricciardi, descritte da Maurizio De Giovanni, e il “piatto” di Biagio: qui i calamari e lì Napoli fanno da cornice a tutti gli altri “ingredienti”, consentono ad essi di esprimersi, dettano armonie dal ritmo lento, indispensabili per la riflessione.
Calamari al vino e alle olive. Ingredienti:1 kg di calamari; gr.300 di pomodori; gr. 30 di uva sultanina; gr. 30 di pinoli; 14 olive nere; 1 bicchiere di vino bianco; olio; aglio; una cipolla tritata; prezzemolo, pepe, sale; fette di pane abbrustolito. Soffriggete cipolla, aglio e olio; togliete al momento opportuno l’aglio e versate il vino. Aggiungete i pomodori pelati e tagliati a pezzi, e dopo alcuni minuti di cottura a fuoco vivo, anche i calamari tagliati in anelli, l’uvetta ammorbidita nell’acqua tiepida e strizzata con cura, e i pinoli. Salate, pepate, coprite il tegame, fate cuocere a fuoco lento per una mezz’ora, aggiungete le olive snocciolate e tagliate a pezzi e il prezzemolo tritato. Quando il sugo si restringe e gli anelli si fanno teneri, servite in tavola con le fette di pane abbrustolito.
Biagio Ferrara
Antonio Fiore fondò la critica gastroletteraria nel marzo del 2002, con un articolo sul “Corriere del Mezzogiorno”, in cui la Orsini Natale veniva paragonata a un “sontuoso timballo di pasta”, la Ferrante a un sugo di vongole scappate e Bruno Arpaia, profondo conoscitore della letteratura ispanoamericana, alla dolceamara salsa guacamole, “con l’aggiunta di una cipolla”, che fosse però di Tropea. E’ complicato essere scrittori di gialli a Napoli, perché Napoli è la città delle sorprese, ogni napoletano ha una logica tutta sua, e mille napoletani non costituiscono mai un’anonima folla, ma sono mille distinti attori impegnati, ciascuno, a recitare un suo canovaccio, all’interno di una visione del mondo costruita su due principi: “tutto po’ essere”, e “tutto se po’ fa’”.Napoli ha insegnato agli empiristi che la relazione tra causa e effetto non è mai una legge scientifica, ma solo una probabilità.
Ricciardi, il commissario creato da Maurizio De Giovanni e chiamato all’azione nella Napoli degli anni ’30 – una Napoli impegnata a difendere sé stessa dallo “straniamento” fascista – Ricciardi, dicevamo, è caratterizzato da un “fatto” eccezionale: sul luogo di un decesso, anche in assenza del cadavere, riesce a vedere e a sentire il fantasma del morto che volgendosi verso di lui dice le sue ultime parole. I puristi del giallo storcono la bocca, poiché la regola più importante del genere è questa: chi indaga non deve partire già in vantaggio sull’assassino. Ma la soluzione dell’enigma è solo uno dei temi dei romanzi di De Giovanni, non è il tema assoluto: l’indagine si colloca all’interno di un intreccio di storie, in cui le vicende dei personaggi coinvolti nel delitto si annodano con quelle della “squadra” di Ricciardi: il brigadiere Maione, il medico legale Modo, Bambinella, Enrica e Livia.
Le trame tessute dall’autore sono quadri a colori anche vivaci che diventano sistema all’interno della cornice: e la cornice è Napoli, e Napoli determina la coerenza del quadro. Nel sistema non ci sono né salti, né impennate, né variazioni improvvise: sul palcoscenico tutti hanno il loro spazio e il loro tempo, e pari dignità.
La prosa di De Giovanni si svolge per periodi lenti e ampi, che tutto dicono e tutto comprendono, e che perciò risultano lo specchio fedele del “mondo” descritto: la musica suggestiva di questa prosa più volte si sospende nell’ “attesa”: sono i momenti in cui il commissario vede i morti e li sente. Il romanzo “ La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi” si apre in via Salvator Rosa, nel locale di Ciro Esposito, barbiere: in questo locale un cliente si è ucciso. Qualche giorno dopo vi entra il commissario Ricciardi, e chiede una rapida sforbiciata di capelli: si siede sulla poltroncina, si gira, “vede” seduto sull’altra poltroncina il morto, che fissandolo incomincia a parlare. Il commissario si turba, impallidisce, cerca di non guardare, non ci riesce, “dal fondo della sala, il morto ripeteva il suo lamento. Fuori, oltre la porta spalancata, la strada taceva e la primavera aspettava. L’aria sembrava sospesa”. Questo periodo può essere considerato un modello della prosa e dello stile di De Giovanni.
La“lentezza” dalla struttura della frase si estende alle vicende narrate, ed è la lentezza della riflessione, è la condizione necessaria per far risaltare ogni personaggio, ogni gesto, ogni suono, ogni colore: la trovi anche nella descrizione di un panino con la salsiccia e i friarielli, nel romanzo “Il resto della settimana”: “Oddio, non il massimo in termini di leggerezza e digeribilità; ma volete mettere l’amalgama fornito dalla provola calda e filante alla morbidezza della salsiccia e al sapore piccante delle cime di rapa ripassate in padella con olio extravergine e peperoncini?”. Assonanze, rime interne, abili passaggi dalle sdrucciole alle piane: è una “lentezza” particolare, che non permette distrazioni..
E’ la lentezza del prolungato sapore degli anelli dei calamari nella ricetta di Biagio: è un sapore compatto, che fa da cornice e da sfondo, che è come l’imprimitura sul bianco della tela su cui il pittore si appresta a “stendere” figure e colori. L’imprimitura verrà totalmente coperta, ma il suo timbro cromatico sarà il timbro definitivo dell’opera.
Il calamaro con la delicatezza dei suoi primi toni consente all’uva sultanina, ai pinoli, alle olive nere di Gaeta di esprimersi liberamente: ma alla fine, quando, sazio, rifletti, ti accorgi che queste “espressioni”, intense nell’immediatezza, si sono già dissolte e che in fondo al palato sono rimaste soprattutto le note profonde e i sapori primi del calamaro e il sapore antico del pane abbrustolito.
Napoli, con i suoi sapori primi e con le sue note profonde, è la protagonista dei romanzi di De Giovanni.