L’eternità dell’attimo bello nel quadro di Fabritius e nelle linguine di Biagio al profumo di mare e di petali di “pérzeca”

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C. Fabritius, Il cardellino

Un sapore e un’immagine pittorica possono evocare la suggestione dell’attimo che si stacca dal flusso del tempo e si estende in una dimensione assoluta. Forse la nostra vita sarebbe più intensa, se ci abituassimo a percepire il tempo non come continuità e durata, ma come sequenza scandita di singoli momenti. Fabritius ispirò Vermeer.

L’attimo fuggiva…che altro può fare un attimo ? (C.E. Gadda)
..…dire all’attimo: “Fermati, sei bello” (J.W. Goethe)
Di questo, è fatta la vita: di momenti ( J.L. Borges)

Ingredienti (per 6 persone): gr.400 di linguine, 10 gamberoni, gr.250 di vongole, 6 gherigli di noci, gr.30 di funghi porcini, gr. 50 di burro, gr..50 di panna liquida fresca, 20 fiori di “perzeca” terzarola a polpa bianca, mezzo cucchiaio di succo di limone, una spruzzatina di vino rosato del Vesuvio, prezzemolo, sale e pepe. Pulite e sgusciate, nel solito modo, gamberoni e vongole, e lavate i funghi. In una padella fate sciogliere il burro, versate i gamberoni e le vongole, lasciare che il tutto si dori, prima di bagnarlo con la spruzzatina di vino rosso. Evaporato il vino, aggiungete la panna, il succo di limone, i funghi e le noci. Quando si sta completando la cottura del sugo, salate e pepate. Calate nel sugo le linguine cotte al dente e i petali del fiore di “perzeca”, amalgamate a fuoco lento, servite in tavola il “piatto” coperto da prezzemolo tritato al momento. In tavola, il piatto si accompagna al vino rosato del Vesuvio usato nella preparazione.

Biagio Ferrara

Il caso si diverte a manipolare coincidenze. Passo a Biagio una ricetta che ho preso da un libro della “Newton e Compton” sulla cucina napoletana: lo chef, che ha il complesso del “tocco originale”, usa linguine e vino rosato del Vesuvio al posto dei tagliolini e del brandy, suggeriti dalla fonte, e riduce al minimo la quantità di panna e di succo di limone. Vedo che gli ospiti, i soliti noti, non si meravigliano dell’ingrediente floreale: c’è chi filosofeggia che i fiori di pesco hanno, in definitiva, la stessa funzione aromatica del basilico e del timo e che la “perzeca” terzarola a polpa bianca, i cui fiori sono stati usati dallo chef, essendo per sapore prossima al “percuoco”, è destinata dalla sua natura a dar sapore a pietanze e a vini. Se non lo fermassimo, il “filosofo” terrebbe un comizio sulle idee e sulle immagini che il profumato frutto e i suoi fiori hanno ispirato a poeti napoletani, italiani, arabi e giapponesi. Biagio stesso ricorda che una sua zia usava profumare i piatti di riso con i fiori della “perzeca”.
Il più giovane dei commensali, che è intelletto letterario e si avvia ad esplorare i sentieri dell’arte della cucina – credo che sia una inclinazione del ghenos – osserva, all’improvviso, che il sapore del fiore gentile si fa strada, con elegante energia, tra i sapori forti del “piatto”, -le vongole, i gamberoni, le noci-, e per un attimo occupa e domina il palato, per un attimo lunghissimo. Sollecitato dalla riflessione, confermo, dopo due bocconi a lungo meditati, che il giovane ha ragione: anche il sapore rientra nella fragile delicatezza che connota quel fiore, la sua azione dura un attimo, ma è un attimo assoluto, come l’improvviso lampo di sole che ci abbaglia lo sguardo e per l’eternità di un istante ci costringe a percepire solo il barbaglio di luce.
La sera, mentre metto ordine tra gli articoli da conservare in cartella, mi capita di leggere ciò che Tomaso Montanari ha scritto, per il “Venerdì di Repubblica”, sul “Cardellino” di Carel Fabritius. E’ un quadro che da sempre mi ispira una ammirazione doppia: perché è oggettivamente un capolavoro, e perché è una delle poche opere note di Carel Fabritius, il grande e sfortunato pittore ucciso nel 1654, quando aveva 32 anni, dalla terribile esplosione di un deposito di polvere da sparo che devastò un intero quartiere di Delft.
In questa piccola tavola l’autore, che fu allievo di Rembrandt, registra tutti i particolari, perfino “ogni minima discontinuità” dell’intonaco del muro: però “manca una cosa: il tempo. Non c’è un prima o un dopo: non c’è un movimento, non c’è narrazione”: il cardellino esiste, scrive Montanari, solo per gli occhi e per la mente dello spettatore che, vinto dal prodigio dell’arte di Fabritius, “crede” di avere di fronte un cardellino vero, e vede come vera questa piccola scena, “per una irripetibile frazione di secondo che è ormai uscita per sempre dal flusso del tempo”. Ricordo Borges, ed è un impulso: “Se non lo sapete, di questo è fatta la vita: di momenti”. E questa percezione dell’assolutezza dell’attimo, di ogni attimo, è il punto su cui massima fu, fin dalle origini, la distanza tra la cultura cristiana e quella pagana.
Dice Montanari che triste è il cardellino, perché la catena gli impedisce di volare: forse Fabritius “sentiva” che sarebbe morto di lì a poco: ma mi pare – è una impressione che non si è modificata nel tempo- che l’uccellino drizzi la testa come se fosse incuriosito da qualcosa che accade oltre il quadro. Forse Fabritus “sentiva” anche che alla sua arte si sarebbe ispirato un giovane pittore che abitava poco lontano dalla sua casa devastata dall’esplosione. Questo pittore si chiamava Vermeer.