Il piatto può modellare l’espressione del volto, la “cera”, in modo che esprima noncuranza sprezzante e un’ironia severa e cipigliosa: Salvini ha il diritto di parlare a Napoli, e i Napoletani hanno il diritto di contestarlo e di far capire a lui e ai salviniani del Sud che essi non dimenticano le ingiurie, e che da queste ingiurie hanno misurato l’uomo…e gli uomini.
Ingredienti (per 4 persone): gr.350 di spaghetti, 2 patate, kg.1,5 di cozze, 1 cipollotto sarnese, 2 spicchi d’aglio, brodo di pesce,lacrima Christi del Vesuvio bianco, prezzemolo, basilico, rucola, olio, sale. Fate rosolare, a fuoco mite, nell’olio di una padella, un aglio tagliato in 3 spicchi e il prezzemolo. Dopo qualche minuto versate le cozze opportunamente pulite e scrostate, fate cuocere a fuoco più forte, poi sgusciate le cozze, ma conservate qualcuna nelle sue valve, da usare come guarnizione. Mettete da parte il liquido di cottura. Nell’olio di un’altra padella verranno soffritte le fettine di cipollotto. Aggiungete le patate tagliate a fettine sottili, versate il brodo di pesce, e poi il liquido di cottura delle cozze, infine mettete il tutto in un frullatore, unite le cozze sgusciate, e frullate in modo che l’amalgama risulti grumoso. In una padella fate soffriggere, nell’olio, due spicchi d’aglio, poi toglieteli, versate gli spaghetti già cotti al dente e scolati, aggiungete prezzemolo e rucola tritati. Dopo aver mescolato, “impiattate” gli spaghetti, conditeli con il “frullato” e guarniteli con le cozze ancora in guscio, con un trito di rucola e con qualche foglia di basilico. A tavola gli spaghetti si accompagnano con il lacrima bianco.E’ giusto dire che una versione del piatto, che prevede, tra l’altro, anche l’uso della bottarga, è stata spiegata da Antonino Cannavacciuolo nel libro sulle ricette di “pasta secca”, pubblicato dal “Corriere della Sera”.
Biagio Ferrara
Quando Filippo Tommaso Marinetti decise di dichiarare guerra ai maccheroni proprio a Napoli e scelse come campo di battaglia l’osteria “Ai due leoni”, venne accompagnato nella mischia anche da alcuni futuristi napoletani. Perciò, non meravigliamoci se ci sono dei napoletani “salviniani”. Lo intuì Achille Campanile: ci sono napoletani che non possono fare a meno dei “luoghi comuni” in cui l’anima della città sta racchiusa come il “frutto” della cozza nel suo guscio: ma oggi certi furbacchioni se ne servono per contestarli, per sbandierare, attraverso la contestazione dei “luoghi comuni”, la propria diversità, segno di superiorità “Sono un napoletano, ma non ho niente in comune con la maggioranza dei napoletani”: e per convincerci e per convincersi battono le mani anche a Salvini. Nel pomeriggio ci sono stati scontri e tafferugli: gruppi di manifestanti di vario “colore” ideologico volevano impedire che il leghista parlasse alla Mostra d’Oltremare. Qualcuno ha accusato De Magistris di aver soffiato sul fuoco, populisticamente: ma mi pare che quando ha difeso la Napoli calcistica dalle prepotenze dei Cavour e dei Cialdini di oggi, il sindaco ha avuto solo “scoccat’e mane”.
Molti si auguravano che i napoletani accogliessero Salvini con uno sprezzante silenzio: era anche il mio augurio, soprattutto perché non sopporto la violenza, in qualsiasi forma. Ma pensavo che questo silenzio non dovesse essere segno di noncuranza, di fredda apatia, di quel nobile disinteresse che resta la migliore forma di disprezzo, ma non in questi tempi di grezzo populismo, di demagoghi all’ingrosso che si vendono a prezzi fissi e assai bassi. In questi tempi infelici, in cui la memoria della massa è corta e l’intelligenza è un immobile pantano aperto a tutte le bufale, può capitare che il signorile, silenzioso disprezzo venga contrabbandato come paura, come incertezza, e perfino come segno di approvazione. Dunque Salvini e i salviniani parlino, a Napoli, e in qualsiasi luogo del Sud, oggi e sempre, perché non si può negare a nessuno la libertà di parola: ma mentre parlano, guardiamoli, in silenzio, con una “cera” che sia capace di dire e di far capire al leghista e ai suoi seguaci meridionali che il nostro silenzio è una minestra di sprezzante sarcasmo e di ironia, di una ironia non fredda però, di un’ironia sulfurea, pronta a infiammarsi. Salvini non può illudersi che l’aver chiesto scusa abbia risolto il problema creato dai suoi canti e dalle sue invettive ripetute a raffica contro la città di Napoli: i salviniani nostrani dovrebbero spiegargli che non è facile prendere per i fondelli il popolo di Totò e di Eduardo.
Dunque ci serve una “cera” che esprima un sorriso a sfottò, e nello stesso tempo cipiglioso: servono i sapori e i profumi di un piatto che rappresenti, plasticamente, il mito di quell’energia creatrice di storia che i leghisti non hanno mai riconosciuto come virtù napoletana. Il piatto realizzato da Biagio mi pare che possa servire allo scopo. Il sapore e il profumo delle cozze evocano il respiro profondo del mare, pervadono i sensi, distraggono dai fastidi della realtà, accendono tutti gli umori, innervano lampi di intelligenza che sputtanano i chiacchiericci fangosi e brumosi forgiati nelle pianure del Nord. E questi lampi diventano corrusche folgori di contestazione grazie alla appassionata e rumorosa “anima” vesuviana del cipollotto, del lacrima christi e della rucola: la miracolosa “arucola di Spagna” che nei primi anni dell’Ottocento i nobili napoletani cercavano, come si cerca un tesoro, lungo gli alvei di Madonna dell’Arco: l’erba aiutava a scatarrare attraverso raffiche di colpi di tosse e di sputacchi che suonavano, nell’insieme, simili a melodiose pernacchie…