I “Dimenticati” di Vittorio De Seta: un’esperienza etnografica attraverso gli strumenti della cinematografia.

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1869

Nel bisogno di rinnovamento che attraversa la società italiana, alla fine della secondo conflitto mondiale, il cinema svolge un ruolo fondamentale: si avverte il bisogno di raccontare la realtà, di scavare nel vivere quotidiano dove emerge un’Italia completamente massacrata da una guerra assurda.

 Questa cinematografia, definita neorealista, in un secondo momento sposta il baricentro dei suoi interessi soprattutto sul meridione mettendone in evidenza le difficoltà, l’abbandono istituzionale, la mancanza di servizi ma anche l’enorme patrimonio immateriale che le società a cultura agropastorale conservano, esprimono e perpetuano. Caposcuola di questo nuovo modo di pensare al cinema è il calabrese Vittorio De Seta. I documentari che gira, tra la metà e la fine degli anni cinquanta, segnano l’inizio di un percorso in cui il cinema mette i suoi strumenti al servizio dell’etnografia. Nasce così un’antropologia visuale che non si propone assolutamente di raccontare un “mondo perduto”, tutt’altro: i riti che De Seta trasforma in oggetto dei suoi documentari sono tutt’ora vivi; sono espressione di comunità che hanno scelto la strada della resilienza e dell’identità come motore e centro dell’esistenza, come modo bello di guardare alla vita.

 

Il neorealismo, come movimento letterario prima e cinematografico dopo, è caratterizzato da 2 fasi importanti: una prima fase determinata dallo sviluppo, alla fine degli anni 40, di un filone ancora imbevuto di ideali antifascisti che vuole raccontare un paese distrutto da vent’anni di dittatura e da una guerra brutale; una seconda fase, di cui i libri parlano molto poco, contraddistinta da un’attività documentaristica incentrata soprattutto sul mezzogiorno.

Tra il 1954 e il 1959, il regista Italiano Vittorio De Seta avvia un lavoro cinematografico su alcuni comuni della provincia meridionale, soffermandosi sulla quotidianità del lavoro di artigiani, pescatori, pastori, “surfarari, consegnando all’Italia immagini non solo di grande valore cinematografico e documentaristico ma soprattutto di grande spessore etnografico. “I corti” sono realizzati da una troupe che mette in piedi lo stesso De Seta autofinanziandosi: Pasqua in Sicilia (1954), Lu tempu de li pisci spata (1955), Isole di fuoco (1955), Surfarara (1955), Contadini del mare (1955), Parabola d’oro (1955), Pescherecci (1955), Pastori di Orgosolo (1958), Un giorno in Barbagia (1958), I dimenticati (1959).

Nato da una famiglia di aristocratici calabresi, De Seta vive gli orrori della guerra sulla propria pelle: tra il 1943 e il 1945 è prigioniero in un campo di concentramento tedesco; questa esperienza segna tutta la sua vita. In questa rinnovata veste del neorealismo, che si potrebbe definire antropologica, il regista calabrese mette l’accento su alcuni microcosmi geografici del sud Italia che al contempo sono macrocosmi culturali ed identitari.

L’ultimo corto quello del 1959, “I Dimenticati”, è interamente girato ad Alessandria del Carretto, un paese della provincia di Cosenza inserito in un’area di Calabria a cultura lucana. Ancora nel 1959, la strada che dalla costa ionica porta ad Alessandria, paese sito nel cuore del pollino meridionale, è inesistente: il documentario si apre proprio con le immagini di alcuni uomini che, caricati i muli, devono raggiungere il piccolo borgo per portare rifornimenti necessari. La prima scena si pone già in una dimensione di rottura con quanto sta accadendo in Italia da qualche tempo: nella casa degli italiani entrano elettrodomestici come il frigo, la tv e alcuni cambiamenti infrastrutturali contribuiscono ad uno sviluppo dei trasporti: in questo periodo la DC vara un piano decennale di costruzione autostradale che porta alla realizzazione dell’A1 e questo segna anche il definitivo decollo del mercato automobilistico. Insomma, l’Italia è dentro un processo che la storiografia etichetta con il termine di boom economico. Le immagini dei documentaristi etnografi della fine degli anni cinquanta rompono questo idillio, ponendo in maniera dirompente la questione meridionale in una chiave diversa: I corti di De Seta parlano di un sud abbandonato dallo stato centrale; un sud che cerca disperatamente una vita dignitosa attraverso servizi che rendano vivibili alcuni comuni, il cui isolamento geografico è accentuato dall’isolamento e l’abbandono istituzionale. De Seta definisce gli abitanti di Alessandria del Carretto “i dimenticati”, una dimenticanza che non è solo abbandono istituzionale ma è anche dimenticanza rispetto all’enorme patrimonio immateriale che mondi come Alessandria del Carretto possiedono ed esprimono. La parte centrale del documentario è incentrata su un rituale di Alessandria a matrice lucana: La pita. Che cos’è la pita? Questo rituale è indicato dagli studiosi con il termine di “culto arboreo”. Alla fine dell’inverno, in molti paesi del pollino lucano e delle zone interne della Basilicata, viene tagliato un grosso abete e viene trascinato in paese in una processione di suoni, botti, vino, cibo, canti. Parallelamente, sempre in paese, viene trascinato un arbusto, una pianta giovane, chiamata “Cimale” o “cima femmina”, che viene addobbata e fissata sul grandissimo albero. Avvenuto l’innesto, al suono di zampogne, organetti e canti, l’abete viene issato e scalato da qualche temerario.  I riti arborei in area lucana, aldilà del loro significato magico ed apotropaico, sono sempre connessi alla venerazione di un santo. Nel caso del rito di Alessandria ripreso da De Seta, lo svolgimento della festa dell’albero è legata al culto di sant’Alessandro patrono del paese.

Ad oggi Alessandria del Carretto è un paese che conta meno di cinquecento anime. La quasi totalità della comunità si è trasferita nella cittadina sulla costa, Trebisacce. Spesso lo spopolamento di questi piccoli centri può determinare la dissoluzione anche di un patrimonio immateriale unico.  Per fortuna, negli ultimi vent’anni, grazie soprattutto all’interesse delle giovani generazioni, ad Alessandria c’è una rivitalizzazione di alcune feste tradizionali ma soprattutto dell’uso di alcuni strumenti legati ai rituali domestici e collettivi della comunità come l’organetto, il tamburello e la zampogna a chiave.

I corti di De Seta sono stati da qualche anno pubblicati da Feltrinelli con un titolo, a mio parere, inesatto: “Il mondo Perduto”. In un articolo del 29 novembre del 2011, uscito sul sole 24 ore, lo scrittore Goffredo Fofi afferma: “……Chi poteva pensare cosa sarebbe successo dopo in Italia, con gli anni Sessanta? Chi poteva pensare, nel ’54, che pochi anni dopo, di colpo, tutto sarebbe finito?  Finita La pesca del tonno?  Finiti I riti della Pasqua? Grazie a De Seta, di questo mondo che sembrava eterno ci restano immagini di assoluta poesia….”. Un giudizio errato da due punti di vista: De Seta filma non con l’intento di “musealizzare” un mondo che sta finendo ma di raccontare l’ Italia dei ceti subalterni; raccontare l’enorme conflitto, ancora oggi insanato, tra le difficoltà, i ritardi e l’ enorme patrimonio culturale che tali ceti esprimono. Un altro errore  Fofi lo compie pensando che la ritualità, documentata e raccontata dal regista calabrese,  sia tramontata. Niente di più falso. Invito Fofi a recarsi ad Alessandria del Carretto l’ultimo fine settimana di aprile o in Sicilia durante la settimana santa, capirà che quello che descrive De Seta nei suoi documentari non è né un “mondo perduto” né un “mondo ritrovato” ma solamente un mondo mai finito. Forse un mondo sicuramente cambiato, ma questo è scritto nella fisiologia della cultura immateriale: è proprio il cambiamento che rende vivo e attualizza il concetto di tradizione.  Nel mondo descritto e documentato da De Seta un cambiamento c’è: I riti che filma sono oggi più vivi che mai; sono espressione di generazioni giovanissime che hanno riallacciato con tenacia e con non poche difficoltà  il filo della memoria che molto probabilmente ha rischiato di spezzarsi più nell’Italia del dopoguerra che oggi.

Poiché, in questo momento, siete necessariamente connessi prendetevi qualche altro minuto per aprire youtube e guardare  uno di questi brevi documentari, magari tra un poco di tempo vi verrà la voglia di andare oltre le immagini del web ed immergervi nell’enorme patrimonio orale che il sud Italia possiede; capirete che il nostro sud è vicenda di bellezza senza fine che ancora deve essere raccontata.

Foto di copertina : Vittorio De Seta, regista  (1923-2011)