A Mormanno, nel cuore del Pollino, siamo stati nel “teatro” dove si è combattuta la guerra tra potenti e umili, e dove Eugenio Bennato ha fatto della “Tammurriata nera” un canto di rabbia e di protesta. Di Carmine CimminoC’è un punto, nei pressi di Petina, in cui la luce napoletana e cilentana, vermiglia, abbagliante, incomincia a lasciare lo spazio a una luce ugualmente intensa, ma più rigorosa e nitida, che porta in sé i riflessi delle rocce, dell’acqua di sorgente montana, delle selve, e perfino l’eco di mari remoti di una lontananza concettuale più che spaziale. In questa luce si manifesta l’incanto del Pollino, e in questo incanto si aggruma lo splendore di Mormanno (nella foto, uno scorcio).
Mormanno sarebbe piaciuta a Italo Calvino. La città visibile è una fantasia geometrica di scorci, un gioco di prospettive, in cui si alternano lembi di boschi e spigoli di muri: è un ricamo di pietre solide e leggere, in cui il tempo si svolge con passo da meditazione, si adatta paziente alle pieghe dei vicoli, si riposa nel registro di preziosi dettagli: il disegno di un balcone, l’eleganza di una cornice di marmo, un portone, la trama delle ombre intorno ai netti lampi di luce, le figure che il bulino dei falegnami ha inciso, molto tempo fa, sui mobili nelle case dei signori.
Tutti questi segni indicano la strada che porta alla città invisibile: le case che si addossano l’una all’altra a formare un pugno serrato, e le selve nere formano “il teatro“ in cui per centinaia di anni si è combattuta la guerra tra potenti e umili, tra la violenza “legale“ dei dominatori, spagnoli, francesi, piemontesi, e la violenza dei “briganti“, innescata dal furore degli oppressi: i terribili briganti, Ciccio Perri, Benincasa, Parafante, che misero paura ai francesi di Murat, e gli emuli calabresi di Crocco e di quel Ninco Nanco che atterrì i piemontesi con il suo genio tattico di guerrigliero. La città invisibile, con la vitalità dei suoi valori, fa sì che la città visibile resti antica, senza diventare, all’improvviso, vecchia cedendo a quella nostalgia vanitosa e passiva che scava rughe sulla faccia di molte città antiche della Campania.
La settimana scorsa ho avuto la fortuna di assistere al prodigio evocato nella piazza principale di Mormanno dal concorso di alcune “forze“: la musica di Eugenio Bennato e della sua band, la suggestione dei luoghi, l’ “enthusiasmòs“ della folla che cantava e danzava, l’energia dei giovani che nella frenesia della festa hanno messo a dormire la notte, la bellezza delle donne, luminosa di un’eleganza che si manifesta naturale in tutti i gesti e in ogni movimento, e nobile per quell’orgoglio calabro che mette un che di severo anche nel ridere più festoso. Non era la prima volta che ascoltavo, dalla voce e dalla chitarra battente di Eugenio Bennato, “Ninco Nanco“, “Balla la nuova Italia“ e “Tammurriata nera“.
Ma quella sera, nella piazza di Mormanno, mi sono persuaso che la taranta è veramente la voce archetipa del Sud, è il ritmo dei Dori e dei Focesi che risalirono la Calabria e il fiume Lao verso le pianure “filosofiche“ di Elea e di Paestum: e se ha ragione Pitagora quando dice che l’anima degli uomini è musica, la taranta è la base dell’anima delle donne e degli uomini del Sud. Forse è stata una bestemmia pensare a Pitagora e ai pitagorici, che non mangiavano lenticchie, nella piazza di Mormanno, che è famosa anche per le sue lenticchie. Ma non è blasfemo dire che “Tammurriata Nera“, interpretata da Bennato, è tutt’altra canzone che quella di Peppe Barra. Il quale accentua i toni amari dell’ironia e del sarcasmo, mentre Bennato trasforma la disperazione in dolore e in rabbia, e fa, di “Tammurriata“, un canto di protesta.
Tutte queste emozioni sono state riscaldate anche dall’ energia del vino. Le uve mormannesi, la cascarola, l’olivella, la castiglione, coltivate nell’alta collina, maturano tardive: nella seconda metà dell’ Ottocento i Giacobini di Altomonte ne cavarono un vino delicato che, presentato all’Esposizione di Amsterdam e di Rotterdam del 1887 insieme con il Greco di Gerace e con il Moscato di Calabria, meritò una menzione d’onore. A Mormanno, dunque, il vino nuovo si assaggia non a San Martino, ma all’Immacolata: il rito si rinnova oggi in una manifestazione, “Perciavutti“, che mette insieme la musica, il ballo, il tiro alla fune, il palio delle botti, e il trionfo della cucina dell’alta Calabria, celebrato nell’ambiente suggestivo di quattro cantine: Torretta, Capuluserro, Costa e Casalicchio dove “non rimanisi ni diunu e ni sticchiu“.
File interminabili di curiosi golosi hanno pazientemente atteso di sperimentare i quattro menu, in cui campeggiavano zuppe di fagioli poverelli e di cotiche, zuppe di lenticchie di Mormanno, raschiatelli con il sugo di cinghiale, cavatelli con sugo di maiale e funghi, crespelle di baccalà , baccalà alla vignaiola, cotiche di maiale con peperoni o con fagioli, salsicce, strepitose frittate imbottite di carni e di ortaggi, salumi e salami. E pane: un impasto di memorie antiche. E mostaccioli, crostate, cannolette. E i bocconotti, che sono piccoli dolci di pasta frolla, ripieni di confetture o di creme aromatizzate.
Ne ho mangiati di squisiti a casa di Donna Maria, dopo una lasagna imperiale e un polpettone di cui ella è riuscita a non svelare la ricetta, resistendo, con amabili manovre diversive, alle insidiose domande delle signore presenti, incantate dalla raffinata scala dei sapori. Ma Donna Maria ci ha svelato l’ingrediente più importante dell’ identità calabrese: l’ospitalità . L’ospitalità calabrese non è fatta di banali convenevoli e di stucchevoli chiacchiere, ma è una disposizione dell’animo autentica e naturale; è la sostanza stessa del carattere, e non un semplice attributo; è un valore su cui possiamo ricostruire, noi meridionali, il diritto all’orgoglio di essere meridionali.