I registri della dispensa dei Camaldolesi svelano i segreti di una cucina di confine, aperta ai prodotti della pianura nolana e di quelli delle valli e dei monti di Avellino. Che sarà mai quel >liquore tonico annotato tra i medicinali? Di …
Il sabato mattina mio zio Pippone attaccava alla carrozzella il cavallo Ercolino e si partiva per Nola a far provviste: a Piazzolla, ‘a palata ‘ e pane del forno di una contadina che, più che vecchia, era antica – ricordo la macchia violenta del rosso suo maccaturo stretto intorno ai capelli- , le carrube, ‘e sciuscelle, da un massaro di Casamarciano che forniva anche saporose costatelle di maiale, e, infine, superata la chiesa della Schiava – spero che la stanca memoria non contamini i ricordi e i nomi dei luoghi -, la pasta fatta a mano.
Poi Ercolino andò in pensione, e venne il tempo di una rumorosa fiat millecento, che come prima il cavallo, pareva che conoscesse l’itinerario, e venisse guidata non dalla mano dell’autista, ma dall’istinto. Spero che qualcuno abbia scritto la storia meravigliosa di quella infinita sequenza di ceste ricolme di gnocchi e di fusilli, esposte davanti alle porte, ad accompagnare la strada che sale verso Avella, verso Baiano, verso Monteforte: la strada antica che portava il grano delle Puglie alle macine di Cimitile e al mercato di Nola, e da qui, deviando verso il Vesuvio, e costeggiandone le prime pendici, ai mulini di Torre Annunziata.
Nessun segno degli gnocchi è rimasto nei ricordi, ma nella suggestione pare che riviva la ruvidezza delicata di quei fusilli, che la mia generazione continuò a gustare, fino agli anni ’70, in alcuni ristoranti ancorati al territorio, dalle parti di Monteforte, a Baiano e alle porte di Avellino.
E, mentre scrivo queste note, penso all’acida osservazione di un belga innamorato di Napoli, Chalon, il quale nel 1886 sospettò che la pasta messa ad asciugarsi a seccarsi all’aperto, a Gragnano, a Torre, a Castellammare, prendesse il suo sapore dalla polvere e dagli odori della strada.
Le pastaie casalinghe vendevano anche salami di Mugnano e olio e castagne di Visciano. Non mi pare che le patate e i broccoli di Cimitile godessero di buona stampa a casa mia: mia madre li trovava acquosi, e sosteneva che le patate, pur saporite, non fossero adatte per gli strangolaprievete. Anche fra Emanuele da Mirabella, che fu cellerario dell’Eremo di Santa Maria Coronata dei Camaldolesi negli ultimi trenta anni del sec.XVIII, nel registrare l’acquisto dei broccoli specificava che erano di Somma: e io credo che intendesse dire del Somma. Non starò qui a parlare di questo ortaggio, che è prezioso e nobile nonostante l’informe acidezza dell’odore che a contatto con l’acqua esso sprigiona. Dico solo che già prima dell’unità d’Italia i gastronomi lo sottrassero al patrimonio delle squisitezze napoletane e lo assegnarono a Roma.
A Napoli ha continuato a indicare lo stupido, si’ ‘no vruoccolo, forse in omaggio, diciamo così, a quell’odore d’acqua solforata, o per commistione con brocco: cavallo e uomo: entrambi buoni a nulla, come certi centravanti che non la mettono dentro nemmeno se i difensori e il portiere vanno a prendere il caffé. Dal vruòccolo, immagine dello stupido vanitoso, nacque vrucculiarsi, muoversi in modo lezioso, o come dice G.B. Basile, ciancioso.
Dunque i Camaldolesi di Nola – ma l’eremo sta su un ciglione della collina di Visciano, e ha il Somma-Vesuvio proprio di fronte, e le terre che lo circondano sono fatte anche di cenere e di lapilli del vulcano – i Camaldolesi permettevano solo ai broccoli di Somma, o del Somma, di entrare nella loro dispensa, i cui registri sono un compendio di una cucina di confine, aperta ai contributi della pianura nolana ricca d’acqua e delle valli e dei monti, asciutti e assolati, di Avellino.
Nel bilancio annuale l’introito più cospicuo, in media 600 ducati, proveniva dalla vendita delle castagne di Visciano – le castagne della selva di Chiaio e della selva di dentro: quantità notevoli di queste castagne venivano acquistate, anno dopo anno, dai tavernieri del Nolano: Luca Spinello che aveva locanda al Bosco di Cimitile, Tommaso Sciarrillo di Marigliano, e ad Antonio Pulicinella – si chiamava proprio così – della Terra di Cicciano. I registri ci dicono che l’arrivo del nuovo priore, Placido da Fragnito, venne festeggiato con dolci di castagne preparati nell’eremo. Agli allevatori di maiali i frati vendevano cumuli enormi di scarti delle mele annurche e delle sorbe a panella, prodotte nei frutteti di Sant’Angelo e della Pietra, che credo siano luoghi di Visciano.
Pare, però, che preferissero le mele di Altavilla e di Savignano, dal momento che ne compravano per 120 ducati ogni anno. Nella cantina dell’eremo riposavano botti di razzese, di greco e di fiano: e questo fiano veniva da due vigneti di Castello di Palma. Nel 1765 i monaci ne vendettero 250 caraffe, circa 200 litri, ai “tagliatori della legna della Montagna per uso dell’Eremo”. Nel maggio del ’67 fornirono vino greco, fronde e il pascolo della Corleta ai pastori che riportavano le greggi da Sant’Anastasia e da Pollena agli stazzi estivi dell’ Avellinese. Ne ebbero in cambio lana, agnelli, pecore vecchie e pelli, che donarono, in parte, all’ospizio di Sant’Angelo. Gli affittuari delle selve di noccioli e dei vasti castagneti che l’Eremo possedeva nel territorio di Altavilla ogni anno riempivano la dispensa dei monaci con caci salati e dolci e con ricottelle: i formaggi, a quanto pare, erano raramente assenti dal menù.
Infatti il dispensiere comprava ogni mese anche 10 chili di quel cacio di Polvica che ho trovato citato anche in altri documenti: poco dopo l’unità d’Italia, i carabinieri tengono d’occhio un certo Sabato Ciardiello, forse di Palma, che nel mercato di Nola gestisce il suo banco di cacio di Polvica e di ricotte di Montella come un personale ufficio di imposta, perché riscuote sistematicamente il pizzo dagli altri venditori. I buoni Camaldolesi non si fanno mancare nulla: baccalà, stocco, alici salate, tarantiello, e, ogni mese, non meno di 60 chili di anguille, che il loro fornitore, Pietro Liguoro, fa venire da Benevento e dal Garigliano. Non si fanno mancare nemmeno il torrone, il cedro e i sosamielli, e mangiano, ovviamente, solo maccaroni di Torre. Ogni anno consumano circa 350 chili di riso, che comprano al mercato di Salerno.
Da una cucina che usa in abbondanza zafferano e altre spezie li proteggono certamente i digiuni, ma anche, e soprattutto, i salutari interventi di Francesco da Montevergine, che di mestiere fa l’insagnatore, il salassatore, e che i monaci prudenti tengono a stipendio fisso. Li proteggono le minestre di cipolle e cocozzelle di Cemmetile, e soprattutto il tabacco. Ce n’è di ogni tipo, nella dispensa dell’Eremo: tabacco trafilato, lavorato a Nola, tabacco a corda, tabacco Brasile, tabacco Avana, tabacco Avanetta, tabacco Rapé. Che sarà mai quel liquore tonico che il segretario annota tra i medicinali?
(Foto: Quadro di Francesco Trombadori, Natura morta)