È vera la massima secondo la quale “non si può capire il presente se non si conosce il passato”. E per capire alcune vicende politiche e sociali attuali bisogna partire dalle battaglie di Adrianopoli e di Carre. Di
Carmine CimminoHo scordato / gli uomini che fui; seguo il sentiero odiato /
di pareti monotone,/
che è il mio destino.
(J.L.Borges )
Marco Licinio Crasso, quando nel 60 a.C. costituisce il primo triumvirato con Cesare e con Pompeo, è uno degli uomini più potenti di Roma, e certamente è il più ricco. Si è arricchito comprando a poco prezzo i beni dei proscritti di Silla; poi è diventato banchiere, e cioè usuraio, e capo della consorteria dei ricchi. Ha finanziato la carriera di Cesare, ha corrotto giudici e uomini delle istituzioni, ha comprato voti. Insomma, le solite cose.
Nel 71 a.C. aveva sconfitto Spartaco, ma un cospicuo gruppo di schiavi ribelli era riuscito a sfuggirgli, per poi incappare nelle legioni di Pompeo che tornava dalla Spagna. E Pompeo si era preso anche il merito del trionfo sul gladiatore. A Crasso era rimasto solo l’ultimo sguardo di odio dei ribelli crocefissi lungo la via Appia. Il figlio di Crasso, Publio, ama la cultura ed è amico di Cicerone. Cesare lo porta con sé in Gallia, gli affida il comando di azioni importanti, non nasconde l’ammirazione e l’affetto che prova per lui. Intanto il triumviro Crasso incomincia a sentire il morso della gelosia: le ricchezze non danno la felicitĂ . Soprattutto quando i colleghi sono Pompeo, che ha conquistato l’ Asia, e Cesare, che sta conquistando la Gallia, e ha sconfitto i Germani, e ha portato le bandiere di Roma in Britannia.
Anche Crasso vuole la gloria delle armi. Secondo i maligni, è Cesare che gli consiglia di cercare questa gloria combattendo contro i Parti, i terribili discendenti dei nomadi Daai, il cui impero va dalla Mesopotamia ai confini della Cina, e che controllano i traffici tra il Mediterraneo e l’Oriente: il ferro, la seta, le pietre preziose, le spezie, i cavalli, e gli arboscelli di albicocco. Si dice a Roma che Crasso accetti con entusiasmo il consiglio, pensando ai tesori ammassati nelle cittĂ dell’ Asia. Ma è un sospetto ingeneroso. Egli vuole solo la gloria. Non lo fermano nemmeno i cattivi presagi.
A Brindisi, mentre le sue truppe si imbarcano, un fruttaiolo lancia la voce cauneas, vendo fichi di Cauno, cittĂ della Caria: sono i fichi migliori. Cauneas suona però come cave ne eas, non andare. Crasso non sente. Parte: ha con sé il figlio Publio, che è arrivato dalla Gallia con uno squadrone di cavalieri. Nessuno saprĂ mai cosa Cesare abbia detto al giovane, e se ha tentato di trattenerlo. La storiografia ignora le cose più interessanti; è una disciplina superficiale, smunta e emaciata. Altro che magra. Dopo molte vicende, che qui non ci interessano, l’esercito romano supera l’ Eufrate settentrionale e arriva a Carre (Harran), lĂ dove inizia la Mesopotamia.
I Romani scoprono che i Parti li stanno aspettando: lo scoprono grazie all’improvviso smisurato fulgore che si sprigiona dagli scudi tolti dai foderi; e lo scoprono dal fragore terribile, “misto di selvaggi ruggiti e di rombi di tuono”, che i nemici producono battendo senza sosta migliaia di tamburi cavi con martelli di bronzo. È il 9 giugno del 53 a. C. I novemila arcieri Parti usano l’arco dei nomadi d’Asia, il così detto arco turco, la cui gittata è quasi doppia rispetto all’arco usato dagli ausiliari di Roma. L’esperimento voluto da Napoleone Bonaparte dimostrò che una freccia scagliata da tale arco anche a 300 metri conserva intatta la forza di penetrazione.
I legionari vengono bersagliati da nugoli interminabili di frecce che con le punte a uncino squarciano scudi e corazze e passano le membra da parte a parte: molti di essi non possono muoversi, letteralmente, perché hanno i piedi inchiodati a terra. I Romani non sanno cosa fare: se contrattaccano, i Parti con la tattica propria dei nomadi si allontanano pur continuando a rovesciare sugli inseguitori piogge di dardi. La scorta di frecce, portata da centinaia di dromedari, è inesauribile. Lo star fermi e ammassati fa dei legionari un bersaglio ancora più facile. Il dramma di Carre è proprio in questa impotenza tragica: essere uccisi tutti, uno ad uno, e non poter fuggire, e non poter saltare addosso al nemico. Morire come agnelli, e non da guerrieri.
Il giovane Publio tenta una carica con i suoi cavalieri, ma viene trafitto a morte. Gli tagliano la testa, la infilano su una picca, vanno a mostrarla al padre, e lo scherniscono gridandogli: chi sono i genitori di questo infelice? è possibile che un giovane così valoroso abbia un padre così vile? Il tramonto del sole ferma la strage. Due giorni dopo Crasso, costretto dai soldati superstiti, accetta di incontrare il condottiero dei nemici sulla riva dell’ Eufrate, per firmare un trattato. È una trappola e il triumviro lo sa. Viene ucciso. I Parti mandano la sua testa in Armenia, ad Artaxata, dove si trova il loro re, Orode II, ospite del re d’ Armenia. I due re stanno a banchetto: nella sala attori greci rappresentano una tragedia di Euripide, le Baccanti.
La testa di Crasso viene mostrata a Orode proprio mentre l’attore Giasone di Fere sta recitando la scena in cui Agave, resa folle da Dioniso, crede di stringere tra le mani la testa di un leone e invece stringe il capo reciso di suo figlio Penteo, re di Tebe, ostile ai riti dionisiaci, e perciò punito dal dio. Giasone afferra la testa mozza di Crasso e completa il monologo: mio figlio Penteo, dov’è?…Inchiodi ai cornicioni della casa questa testa di leone che ho cacciato. Non è film. È storia. Forse è storia, forse è leggenda, la notizia che 6000 legionari prigionieri vennero deportati dai Parti nelle terre estreme del loro impero, ai confini con la Cina; che combatterono contro i Cinesi; che un gruppo di essi venne catturato, e relegato nella cittĂ cinese di Lijian, dove i discendenti per secoli conservarono memorie e costumi dei loro avi. Vale la pena di ricordare che il nerbo delle legioni di Crasso era costituito da soldati reclutati in Campania, in Puglia e in Calabria.
Il 9 agosto 378 d.C. circa 60000 legionari, guidati dall’imperatore Valente, vennero travolti a Adrianopoli da fitte schiere di Goti e di Alani, guidati da Fritigerno. Il disastro fu di tali proporzioni che i Romani superstiti non riuscirono a recuperare il corpo dell’imperatore ucciso. A quei Goti era stato permesso dai funzionari imperiali di attraversare il Danubio, e di stanziarsi nelle terre dell’Impero, ed erano stati promessi campi da coltivare e rifornimenti di cibo. Il cibo che i generali Lupicino e Massimo avevano fornito a quelle orde di affamati era la carne di cane, dice Ammiano Marcellino. I due, “raccolti quanti cani poté la loro insaziabilitĂ , li diedero in cambio di altrettanti schiavi, tra i quali c’erano anche i figli dei capi”. La battaglia di Adrianopoli fu una lunghissima furibonda mischia.
Per l’ironia tragica che spesso il destino si diverte ad esercitare, i Romani furono sopraffatti dalla fame: da quella del nemico, e anche dalla propria: non avevano avuto il tempo di rifocillarsi, prima della battaglia. Su quei campi, dove a lungo restarono mucchi biancheggianti di ossa spolpate dagli uccelli, incominciò l’ultimo atto della storia dell’Impero Romano d’Occidente.
(Foto: Quadro di J.L. Geròme, “Pollice verso”)
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