Pomigliano d’Arco – L’inchiesta che ha scosso Pomigliano d’Arco ha rivelato uno scenario inquietante grazie a intercettazioni e videochiamate tra membri dei clan. Uno degli episodi più scioccanti è emerso da una chiamata tra una madre e lo zio detenuto, durante la quale un bambino di appena tre anni ha affermato con disarmante naturalezza: “Sparo ai poliziotti… vicino alla chiesa”. Il detenuto, dall’altro lato del telefono, ha riso e risposto: “Bravo, così si fa!”.
Le intercettazioni hanno documentato come i bambini crescano immersi in un ambiente criminale, dove il linguaggio della violenza è normale e l’affiliazione ai clan è trasmessa di generazione in generazione. In un’altra registrazione, un bambino di sei anni chiede al padre: “Papà, dove vai con la pistola?”, segno di un contesto in cui le armi fanno parte della quotidianità. “Non ti preoccupare, è per lavoro”, risponde l’uomo con tono rassicurante.
Questi elementi hanno rafforzato le accuse nei confronti dei presunti membri della mala pomiglianese, vicini alle famiglie Cipolletta e Ferretti, che non solo gestiscono affari illeciti, ma plasmano anche le nuove generazioni secondo i codici della camorra. La diffusione di una cultura mafiosa tra i minori è un fenomeno che preoccupa fortemente le autorità, in quanto compromette qualsiasi tentativo di riscatto sociale.
Le intercettazioni hanno inoltre confermato il ruolo attivo dei minorenni all’interno delle organizzazioni criminali. Uno di loro, per dimostrare la propria fedeltà al clan, si era tatuato il cognome del boss sul polso. “Così tutti sanno chi rispetto”, avrebbe detto in una conversazione intercettata. Questa mentalità dimostra quanto la criminalità organizzata sia radicata nel tessuto sociale del territorio.
Le autorità sperano che queste prove schiaccianti portino a misure più severe e a un piano di intervento per salvare i giovani dalla spirale della criminalità organizzata.