Le città invisibili, Benvenuti, signori pacifisti!

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In questo tempo di guerra spuntano fuori sempre più uomini e donne di pace. Che bello! Sembra una splendida novità, se non fosse per alcuni strani indizi, che sembrano propendere per il contrario. L’elenco è presto fatto.

 

C’è il leghista che al grido di “Pace, pace”  impiccherebbe tutti quelli che ritiene guerrafondai senza battere ciglio. Il movimentista agguerrito, che dentro la sua elegante giacca blu e la camicia inamidata, chiede un cessate il fuoco a tutti i costi, rimirandosi allo specchio mentre lo dice, prima di incedere nel talk show di moda.

E che dire del cicisbeo di turno, maestro dei salotti letterari, che ha letto la versione italiana dell’opera omnia di Gandhi, sperando che qualcuno se ne accorga, visto che è troppo umile per far da solo sfoggio di vanità?

In questo bel girotondo felliniano ci stiamo pure noi, ovviamente, mentre discutiamo delle foto ad impatto e dei video strappalacrime dei bombardamenti a Gaza e a Kiev o ci accapigliamo nella gozzoviglia dei dibattiti sulle armi più avanzate e delle bandierine da sistemare sugli opposti fronti.

Siamo tutti lì, in prima fila a smargiassare e a dimenarci, convinti di fare un servizio appassionato alla pace.

A causa del rumore del dolore lontano, tuttavia, non riusciamo a percepire la voce di coloro che si sforzano ancora di essere uomini e donne di pace, come insegnano tanti testimoni del passato e del presente.

Essi, intanto, ci ricordano che non è proprio la stessa cosa praticare la nonviolenza ed essere pacifista. La prima rappresenta un vero e proprio modello di vita, uno sguardo sul mondo, il secondo un obiettivo da raggiungere.

In secondo luogo suggeriscono che un progetto di pace scaturisce da alcune regole morali da condividere preliminarmente: rispettare le idee altrui; non acconsentire alla menzogna; non accusare; non offendere; non valutare; sposare uno stile dialogante e inclusivo, il principio dialogico; proporre senza imporre; aspettare che la propria testimonianza quotidiana possa da sola essere convincente e smuovere l’opinione pubblica; collaborare con creatività e senza pregiudizi ad azioni diplomatiche; praticare, dove sia necessario, la disobbedienza civile e infine, più bella e difficile di tutte, impegnare la propria esistenza nel rifiuto di armarsi, fino a interposizionarsi fra i belligeranti.

La storia della nonviolenza potrebbe raccontarci di uomini e di donne che non hanno esitato a morire per proporre un disarmo delle coscienze, che ha poco a che fare con i proclami violenti e oppositivi di un pacifismo da macchietta.

Studiare questi aspetti non sarebbe malvagio e già solo aprire un libro, per conoscere ciò che è stato, sarebbe il primo atto di pace e di cambiamento veramente virtuoso per costoro. Ma si sa, è impossibile rinunciare a un bel discorso muscolare e aggressivo. Soprattutto se chi ascolta è un potenziale elettore. In fondo non c’è niente di più utile che fare la guerra con la pace.

 

L’immagine è tratta dalla copertina del libro: AA.VV., L’offensiva di carta. La grande guerra illustrata dalla collezione Luxardo al fumetto contemporaneo, Silvana Editoriale