Dopo gli ultimi tragici avvenimenti è cresciuta, anche nelle istituzioni, l’attenzione sul fenomeno della violenza sulle donne. Ma la vera battaglia si deve combattere a scuola.
Se ne sta parlando molto in questi giorni, e finalmente direi, del femminicidio e della violenza sulle donne. Dopo i 125 feminicidi dell’anno scorso, i 25 di quest’anno, e la strage dell’ultima settimana, qualcuno ha cominciato ad allarmarsi.
Perché non si può più negare che il problema c’è. Perché abbiamo una presidente della Camera, Laura Boldrini, che ne parla, fin dal discorso di insediamento. Perché abbiamo la ministro Idem per le pari opportunità che non si sottrae e la ministro Kyenge che quanto a discriminazione deve saperne qualcosa. Perché dopo tanti lutti e tante polemiche si parla di una task force istituzionale, e di un Osservatorio Permanente che raccolga dati sul fenomeno della violenza, mettendo in rete in modo efficace i centri antiviolenza e le tante associazioni che da anni svolgono come volontari il prezioso lavoro che lo Stato con le sue sole forze non riesce ad assicurare. Ci sono petizioni da firmare e documenti da sottoscrivere che girano online e raccolgono firme.
Ma ovviamente non basta. Non può essere sufficiente quando la radice di questo tragico fenomeno è culturale e la cultura di cui si parla si forma e si stratifica negli anni, dall’infanzia all’età giovanile, attraverso il concorso di tanti diversi elementi, ambienti, circostanze. Il sistema di pensiero, o meglio non pensiero, che sta alla base di questi orrendi crimini, si forma nelle nostre menti fin dalla culla, si moltiplica e si rafforza come in un sistema di specchi attraverso gli anni in cui i modelli di identità di genere e di relazione tra i sessi vengono agiti all’interno delle famiglie, riflessi e amplificati nei messaggi dei media, in film e telefilm, fiction, messaggi pubblicitari, show televisivi, e si sedimentano nelle nostre coscienze indisturbati perché in quella che dovrebbe essere la più importante agenzia di formazione nel nostro paese, la scuola pubblica, della questione semplicemente non si parla.
Sì è vero che in molte scuole si fanno progetti di educazione sessuale, che a volte partono attività contro il bullismo e l’omofobia, ma si tratta di interventi sporadici, che non colgono nel segno, perché il punto è mettere in discussione gli stereotipi di genere, parlare della libertà di scelta e del rispetto dovuto a tutti, della gelosia come di un sentimento da controllare, sfatandone il mito di elemento distintivo del vero amore. Si tratta di mettere in evidenza i rischi delle relazioni sentimentali, che non sono solo le gravidanze indesiderate e le delusioni, ma sono le relazioni in cui si perde l’indipendenza, l’autonomia, l’autostima, l’ascolto dei propri bisogni e dei propri desideri, e non è certo il matrimonio che può mettere al riparo da problemi di questo genere.
Perché è questo il tabù: esistono matrimoni cattivi, matrimoni che fanno male, legami che anche se hanno portato alla nascita di figli e di una famiglia, non sono affatto da salvare a tutti i costi, perché ci sono dei costi che non è mai giusto pagare e ci sono dei mariti e dei padri che, siccome sono incapaci di rispetto profondo della compagna e della vita, privi di strumenti di fronte alla frustrazione dell’abbandono o del tradimento, possono diventare e a volte diventano assassini. Non sono pazzi e non sono colti da raptus. Ammazzano per ristabilire quello che è stato loro insegnato essere l’ordine immutabile delle cose, un ordine che non prevede che la donna che li accompagna possa godere di completa e totale libertà di scelta, compresa la libertà di lasciarli.
Questa libertà, in questo sistema culturale, è riservata ai maschi. Il mondo del tanto temuto integralismo islamico non è poi così lontano. Noi tutti abbiamo conosciuto, almeno nella nostra infanzia, la figura della Maddalena, la prostituta, la donna che Gesù di Nazareth salvò dalla lapidazione. Era evidentemente una legge comune alle religioni del Medioriente che le adultere e le donne di facili costumi dovessero essere lapidate. Gesù fermò la mano armata di pietra, compiendo un gesto rivoluzionario. Ma da lì non siamo andati molto avanti. Della “peccatrice”, soprattutto se pentita, dobbiamo avere pietà. E del peccatore? Nessuno che tiri mai in ballo i peccatori maschi che con la peccatrice hanno compiuto il peccato.
Quando la legge non è uguale per tutti non è il diritto a trionfare, ma il privilegio, ed è sul privilegio che si basa il potere. La relazione tra uomo e donna deve smettere di essere basata sul potere e per far questo bisogna mutare le condizioni culturali, operando in maniera capillare in tutte le scuole, a cominciare da quelle dell’infanzia per finire alle scuole superiori, con l’introduzione di una “educazione” alle relazioni tra i generi e al rispetto. Non è cosa di poco conto. Bisognerà formare i docenti, per prima cosa. Il paradosso è che nella scuola l’80% dei docenti sono donne, ma le donne sono le prime a ignorare a chi rivolgersi in caso di pericolo, o come riconoscere la relazione a rischio di violenza o come affrontare gli ostacoli che si presentano quando si denuncia un partner violento.
Delle donne quasi non c’è traccia nei libri di Storia, di Letteratura, di Scienze. Se davvero si vuole far qualcosa, bisogna cominciare dalla scuola, articolando progetti completi a livello nazionale, in modo che la lotta agli stereotipi, alla discriminazione e alla violenza di genere sia organicamente inserita nel sistema di istruzione nazionale, e non sia più solo una opzione di corto respiro a discrezione del docente.
(Fonte foto: Rete Internet)