Annullare il confine tra realtà a finzione è il segno palpabile di come sia alterato il rapporto con il mondo. E dimostra quanto sia oscena la nostra televisione. Di Carmine CimmioUn allievo, memore di divagazioni che intrecciammo, in giorni ormai lontani, intorno alla natura del genio artistico e sulle pagine meravigliose di Klibansky, di Saxl e di Panofsky, mi domanda, perplesso: perché stiamo sprofondando tutti nella palude della melanconia? E mi guarda: temo che scorga anche sul mio volto i segni dell’ umor nero. Gli rispondo che forse ha ragione, non c’ è gioia nella gente, anche i ricchi sono depressi: del resto, la melanconia è un eccesso che solo i ricchi e i potenti si possono permettere.
Per gli antichi lo stato melanconico nasceva dal sopravvento dell’umor nero sugli altri tre: il sangue, la bile gialla, il flegma. Se lo squilibrio degli umori durava fino a diventare morboso, la malattia, dopo aver minato il corpo e prodotto balbuzie, calvizie e pelosità eccessiva, attaccava l’intelletto e il cuore con passioni d’angoscia: la paura, la misantropia, la depressione, la pazzia. Una pazzia particolare, che consuma le energie psichiche e fisiche concentrandole su un solo stravagante obiettivo. Il protagonista di un dialogo di Luciano, Lessifane, ha la mania di usare parole strane e distorte, e di coniarne di nuove: egli si aggira lungo le strade impervie di questo suo lessico demenziale come in un labirinto, finché un medico non gli fa bere una pozione adatta a liberarlo dalla bile reale e da quella mentale.
Grazie alla medicina Lessifane espelle dalla bocca, e non solo dalla bocca, un copioso fiotto di parole alterate fratturate torturate. La follia del melanconico, che percorre tutti i gradi della lucidità e dell’offuscamento, lacera l’animo: e può produrre tragica grandezza, o spaventosa miseria morale. Gli eroi della tragedia, da Aiace ad Amleto, sono dei melanconici: ma il melanconico descritto dall’inglese Timothy Bright è freddo, secco, di tinta scura, di cute tendente al coriaceo, lentissimo nel decidere, e ostinatissimo nel difendere le decisioni adottate, “poco incline all’ira, eppure capace di irritazione furibonda, invidioso e geloso, avverso alla luce e alla presenza degli uomini, amante della solitudine e dell’oscurità”.
Non bisogna confondere il melanconico con il collerico: l’eccitazione del collerico dipende dalla precipitazione e dall’incapacità di riflettere, quella del melanconico ha le sue radici nella veemenza con cui egli difende le proprie idee. Il melanconico è soggiogato dalle immagini che continuamente e in grande numero vengono partorite dalla sua memoria e dalla sua fantasia: e questa condizione si intreccia con il desiderio eccessivo di cibo e con la libidine. Egli desidera le donne, ma non le ama. Anzi alla radice del desiderio eccessivo c’ è odio: lo notò nel Medioevo Ildegarda di Bingen, e lo hanno confermato, e lo confermano, i protagonisti del romanzo gotico e del noir, e gli assassini seriali.
La scuola medica salernitana ereditò dai greci e dagli arabi l’elenco delle erbe adatte a far sbollire la bile nera: la menta, il pulegio, il cerfoglio e la salvia. I medici consigliavano anche il miele, perché favoriva il sonno, i cui piaceri sono negati ai melanconici. I loro sonni, assai brevi, sono assopimenti agitati da visioni e da fantasmi: il che indusse gli aristotelici a supporre che in alcuni casi la melanconia portasse con sé la capacità di prevedere, confusamente, il futuro. Ma i rimedi più efficaci erano il pane e l’olio: l’olio purificava, il pane era, ed è, il simbolo della concretezza della verità.
I misteri eleusini e il culto di Demetra, la dea del grano, promettevano agli iniziati una viaggio che li avrebbe portati alla sostanza delle cose, oltre l’inganno delle apparenze. Il pane e il vino appartengono solo alla dimensione dell’uomo, la divinità è esclusa dalla loro cultura. Lo dice Omero, nel libro V dell’Iliade (vv.341- 2): gli dei non “mangiano pane, non bevono vino scintillante / e perciò non hanno sangue e sono detti immortali”.
Il melanconico protagonista delle Memorie di un pazzo di Flaubert dice: “la mia vita non è composta di fatti; la mia vita è un pensiero…..quante ore ho passate, lunghe e monotone, a pensare e a dubitare”. Il dubbio attacca il suo essere e il suo esistere, con una violenza che nessuno ha descritto meglio: “perché sei nato? Sei stato tu a volerlo? Sei nato perché tuo padre, un giorno, è tornato da un’orgia riscaldato dal vino e da discorsi dissoluti, e tua madre ne ha approfittato, mettendo le sue astuzie di donna al servizio dei suoi istinti di carne e di bestialità?”. Questo melanconico è ossessionato dalla visione di uomini dal volto senza pelle che mangiano fette di pane cosparse di gocce di sangue. La profanazione di tutti i valori è rappresentata da questa angosciosa profanazione del pane.
Discordi erano i pareri sulle virtù della cipolla: alcuni sostenevano che fossero dannose per i biliosi, e utili ai flemmatici. Altri, invece, considerando che “in alcuni casi di calvizie incipiente erano ricresciuti i capelli dopo che sul cranio era stata accuratamente strofinata una cipolla”, argomentavano che anche nelle cipolle vi fosse un principio avverso alla melanconia e alla sua micidiale azione contro le chiome folte.
Libidine, flussi ininterrotti di immagini e desiderio eccessivo di cibo, di qualsiasi tipo di cibo, sono in realtà i segni di una condizione psicofisica che impedisce al malinconico di stabilire con il mondo un rapporto corretto e equilibrato: egli vede le cose attraverso il velo dell’ accidia e dell’angoscia. Cedendo alla lussuria, divorando il cibo e contaminando senza sosta la verità delle cose, il melanconico tenta di adeguare il mondo al modello che la sua immaginazione ha creato: egli non è più in grado, nella fase acuta del turbamento, di distinguere la realtà dal sogno, la verità dalla menzogna.
Stretto nella rete delle sue mistificazioni, il melanconico alla fine parla solo con sé stesso, si guarda senza sosta allo specchio. E lo specchio può salvarlo, rivelandogli, senza inganno, il suo vero volto, o può perderlo definitivamente nel gioco del doppio che si riflette in un altro doppio, in una sequenza senza fine. È un meccanismo perverso che annulla per sempre ogni confine tra finzione e realtà, tra consapevolezza della finzione e coscienza della realtà. Questo congegno mostruoso, eppure ridicolo, sta sempre in agguato lungo il circuito che collega gli spettatori e gli attori di quelle incredibili trasmissioni televisive in cui, dicono enfaticamente promotori e presentatori, va in scena la vita quotidiana, e va in scena anche la morte quotidiana.
La profanazione della morte, messa frequentemente in onda dalla nostra televisione, è la prova prima e definitiva della oscena depressione in cui siamo naufragati.
(Foto: “Vanità”. Quadro di Bernardo Strozzi)