Teresa, Paola e Luciana, sorelle di Valentina Stella, interpretano i piatti della tradizione napoletana nel segno dell’armonia che rispetta il carattere e le “virtù” degli ingredienti.
E’ più che una pizzeria, è più che un ristorante. "Dalle figlie di Iorio" rinnova l’incanto dei “ritrovi“ illustrati e cantati da Ferdinando Russo e da Gino Doria, in cui, il giovedì e il sabato, e dopo il teatro, conveniva la borghesia napoletana, ancora orgogliosa delle sue origini popolari e della sua nobiltà di spirito e di umori: l’incanto, insomma, dello “ Scoglio di Frisio “ o delle trattorie di Toledo.
La cordialità di Donna Teresa e la garbatezza di Donna Luciana non sono un esercizio imposto dal ruolo: sono un istinto, è cultura diventata natura. Lo vedi, più che nelle loro parole, nei gesti, nei modi, nel sorriso vigile e schietto dell’una, nel sorriso saggio dell’altra. Non avrei voluto rivelare che Donna Teresa, Donna Luciana e Donna Paola, la signora della cucina, sono le sorelle di Valentina Stella. Ma mi costringe a dirlo un pensiero che prorompe con la forza di un’immagine chiara: vedo, all’improvviso, che l’arte di Valentina e l’arte delle sorelle hanno una sola radice, quella napoletanità irrequieta e creativa che sa rinnovare in forme originali anche i luoghi comuni.
Pensavo alla geniale intuizione di Domenico Rea, che paragonò Valentina a Gilda Mignonette, e disse che la sua voce era bruna, “ cupa, malinconica, capace di violenza e di redenzione “ ed era abbrucata, e cioè melodiosamente roca, dolente e sensuale. Nel canto di Valentina Napoli è femmina ardente, è madre, è sorella. La voce dell’artista trascorre agile da una dimensione all’altra e adegua a ognuna di esse la trasparenza particolare del timbro: che mi suggerisce due aggettivi, lunare e notturna, e mi ricorda, nella sua tessitura più fitta – quella che esprime la sofferenza e la protesta – la voce di Edith Piaf. Il canto di Valentina è sempre azione scenica: e non ci può essere contrasto, in lei, tra la cantante e l’attrice.
E’ un genio di famiglia che consente a Donna Paola di creare il suo risotto alla pescatora. Il risotto alla pescatora è un piatto difficile, che fa incontrare ingredienti di carattere forte, ostinati, poco disposti alla mediazione. I cuochi mediocri li costringono a stare insieme, li confondono in un miscuglio in cui riso, pesce e crostacei smarriscono la loro identità, coperti e umiliati dall’olio, dal burro, dal parmigiano, e perfino dalla terribile cipolla, che è peggio di un anestetico. Il risotto alla pescatora delle figlie di Iorio è risotto alla pescatora, è un’orchestra, in cui gli ingredienti conservano fino in fondo le loro virtù, si misurano, si confrontano, trovano, infine, sotto la direzione sapiente di Donna Paola, l’accordo, costruiscono l’armonia.
Il segreto sta nel grado di cottura del riso e nella limpida magrezza del brodetto, che tira dal pesce e dai crostacei solo note marine di rotonda pienezza, mentre i cuochi mezze calzette fanno scappare nel piatto anche la punta di viscidezza acquattata nelle “ ranfe “ del calamaro e nella coda dei gamberi. Da quando lo portano in tavola fino all’ultima cucchiaiata, il risotto alla pescatora delle figlie di Iorio respira solo un profumo intenso e delicato di mare. Lo assaporai in un lento silenzio di meditazione, come imponeva la nobiltà di questa sinfonia bruna e rossa.
In seguito ho affrontato anche la pasta e patate con la provola. Dico ho affrontato, perché è un piatto che non mi ispira: ho sempre pensato che l’ insipidezza del tubero sia tale da fiaccare e snervare anche il nobile rigore della pasta. Ma alla fine del confronto, ho dovuto riconoscerlo: la mano di Donna Paola era riuscita a realizzare quel connubio che Vincenzo Corrado, descrivendo la sua “ parmegiana “ di patate, indicò col verbo rappigliare: che vuol dire far rapprendere e coagulare, ma nel modo tutto particolare del pittore che, volendo dipingere un incarnato di donna luminoso e compatto, prima stende una base di solida ocra gialla e aspetta paziente che si asciughi, e poi la vela e la intride con un soffio di vermiglione.
Così si erano permeate a vicenda, nel piatto di Donna Paola, la provola e la patata, a formare un nesso che, avendo la fresca morbidezza dell’una e la solidità porosa dell’altra, esaltava il primato archetipo della pasta. Quel piatto riusciva a far coesistere l’immediatezza delle sue origini popolari e una nota lunga di riflessiva eleganza. Tornerò a via Conte Olivares, 73, per affrontare la pizza “ fatti miei “, creazione della Casa: mi dicono che sia una squisitezza fatta di ingredienti segreti, che conquista i sensi e sfida l’intelletto. Come la musica.
(Foto: Giacinto Gigante, Mercato al Porto, ca.1852)