Un caffè con…Domenico Ceriello

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Domenico Ceriello

Biologo, imprenditore, tra i fondatori dell’azienda «Cantine Olivella» che da Sant’Anastasia esporta i vini del Monte Somma nel mondo.

Domenico Ceriello ha 51 anni, è laureato in Biologia ed ha lavorato per vent’anni in un’azienda lattiero casearia di Sant’Anastasia prima che una lunga e non facilissima strada lo portasse alla guida, con i soci Andrea Cozzolino e Ciro Giordano, di «Cantine Olivella». Sposato, ha due figli: Vincenzo ed Elisabetta. Appassionato d’arte, ha voluto portare anche nei “vestiti” delle bottiglie prodotte dalla sua azienda quest’amore, tant’è che ogni etichetta di Cantine Olivella è un «quadro», un’opera d’arte rivisitata con adeguato restyling grafico. Sempre la stessa passione l’ha portato ad impegnarsi, più di recente, nell’associazione «La Via della Bellezza» che ormai da due anni trasforma, con seguitissimi eventi, il centro storico di Sant’Anastasia in un palcoscenico dove si avvicendano performances artistiche: dalla musica alla danza, dalla pittura alla poesia. Nell’intervista che segue, Ceriello ha parlato di sé, della sua famiglia, del suo lavoro, dell’azienda i cui vini sono richiesti ormai in quasi tutti i continenti, dalla Francia all’Australia, dalla Svizzera al Giappone. Il protagonista è lui ma un passo – solo un passo – dopo ve n’è un altro, anzi un’altra: la catalanesca, importata sul Monte Somma da Alfonso I d’Aragona e impiantata sulla montagna. La catalanesca alla quale gli imprenditori di Cantine Olivella hanno ridato dignità, oltre che fama nazionale e internazionale. Una fama riverberata sullo stesso territorio e su Sant’Anastasia perché l’azienda prende il nome dalla sorgente Olivella dove negli anni ’70 fu scoperto un frammento di dolium, un orcio vinario, che recava all’imboccatura la scritta abbreviata «Sextus Catius Festus» con un sigillo raffigurante una foglia stilizzata che ricorda, nella forma, un cuoricino. Quello è poi diventato il logo stesso dell’azienda, disegnato in modo che ricordasse un calice pur sembrando ancora un cuore. Sigillo, appunto, di arte e passione, di tradizione e modernità.

 

Domenico, nato e cresciuto a Sant’Anastasia?

«Cresciuto sì, nato no. Sono l’ultimo di tre fratelli e papà, Vincenzo Ceriello, era ginecologo, uno di quei medici “veri”. Fu lui a far nascere gli altri due, Antonio ed Enza, in casa. Ma alla nascita di Enza ci furono dei problemi, molto sangue e scene di panico – raccontavano i miei – tant’è che papà ebbe il coraggio di mandare tutti via dalla stanza mentre mamma gli passava i ferri. Per me preferirono l’ospedale, dunque sui miei documenti il luogo di nascita è Napoli, non Sant’Anastasia».

Papà medico, dunque. Mamma?

«Mamma, Rina Manno, è oggi una giovane ottantenne. È laureata in Lettere ed aveva anche iniziato ad insegnare ma poi ha scelto la famiglia. Erano tempi diversi e credo che l’abbia fatto, all’epoca, senza alcun rimpianto. Si è dedicata a noi ma anche alla sua famiglia di origine, dunque parlo di nonna Olga, di zia Luisa e zio Antonio. Venivano da un episodio un po’ drammatico, riguardante uno dei loro fratelli, Emilio, morto di tifo quando era ancora un giovanissimo e promettente studente in Medicina. La mamma, i fratelli, trovarono la forza per andare avanti nel loro legame, saldissimo».

Oggi è ancora così?

«Sì, ha trasmesso a noi il senso dei legami familiari, importante, fondamentale. Mamma vive nella casa che papà fece costruire quando nacqui io, cinquantun anni fa. Lui diceva: «casa nuova, figlio nuovo». Mia sorella Enza, docente di lettere, vive al piano superiore. Antonio invece, informatore scientifico, abita a Seiano».

Tu invece sei laureato in Biologia. Nessuno di voi ha voluto seguire le orme paterne?

«Antonio, il primogenito, ha tentato e si è anche iscritto a Medicina con alle spalle una carriera scolastica brillante ma, dotato di grandissima sensibilità e sconfinato amore per le materie letterarie, si è poi scontrato con una facoltà che non gli garbava e non ha accettato il compromesso di laurearsi pur non amando la materia. Oggi è informatore medico – scientifico, grazie ad alchimie e combinazioni dovute al caso: era uno dei primi lavori che ho fatto appena laureato ma il mio carattere, timido e schivo, non era adatto. Mi piace relazionarmi con gli altri ma non se devo farlo per lavoro, se lo scopo è convincerli, perciò io lasciai e proposi lui al mio posto, fu una scelta felice perché quel lavoro – che ancora oggi svolge – gli ha consentito di vivere bene la sua vita, di sposarsi, di avere due figli bellissimi, di essere tranquillo».

Sei sposato, hai due figli. Il primo incontro con tua moglie?

«Antonietta è la sorella di Girolamo che, da bambino, era il mio migliore amico. L’ho rincontrata al Liceo Classico di Madonna dell’Arco e anche qui fu pura casualità. Frequentavo il liceo ad Ottaviano come era stato per i miei fratelli ma, alla fine del ginnasio, decisi altrimenti: i miei amici studiavano tutti al Padre Gregorio Rocco, ero sempre in loro compagnia quindi decisi di cambiare scuola e lì ritrovai Antonietta. Solo più tardi ho saputo che mi corteggiava fin da piccola: io frequentavo casa sua ma non ho assolutamente alcun ricordo di lei anche se c’è una foto in cui, bambina, mi abbraccia. Poi ce l’ha fatta, mi ha scelto e rincorso quando io, per la mia timidezza, non avrei mai osato fare il primo passo. Ecco, il liceo è stato bello anche per questo. Mia moglie è sempre stata una donna particolare e maturando ha tirato fuori doti non comuni».

Avvocato, giusto? Quali doti?

«Sì, avvocato civilista e giudice non togato. La sua caratteristica principale è la schiettezza, dote che non sempre incontra il favore del prossimo perché, nel suo essere così franca, fa ovviamente qualche vittima durante il percorso. Ma io la ritengo una dote preziosa».

I vostri ragazzi quanti anni hanno?

«Vincenzo ha 17 anni, Elisabetta 15. Sono arrivati tardi, dopo cinque anni di matrimonio e quando stavamo pensando all’adozione. Nel momento in cui avevamo preso quella decisione è arrivato Vincenzo. Il nome, lo stesso del mio papà, forse non andava molto a genio ad Antonietta la quale, infatti, per un po’ l’ha chiamato semplicemente “lui”. Per me però era importante, per ciò che papà ha significato per me e probabilmente per molti altri, in tanti ancora lo ricordano. Dopo due anni è nata Elisabetta, lei si chiama come la mamma di mia moglie, mancata poi qualche anno più tardi».

Elisabetta in ricordo di tua suocera, Lisetta Santoro.

«Sì, a lei è intitolata un’associazione Onlus che offre da anni borse di studio per ragazzi meritevoli, per volontà del marito, l’avvocato Francesco De Simone, e dei figli».

Mi regali un tuo ricordo da bambino, attinente a Sant’Anastasia magari?

«I giochi per le strade del paese che nel nostro mondo diventavano campi da calcio, da rincorsa, piste da bocce. Trascorrevamo lì le nostre giornate e, soprattutto, c’era il piacere di stare insieme indipendentemente dallo stato sociale perché capitava di giocare con il figlio del delinquente come con quello del professionista. La strada dove papà fece costruire la sua casa negli anni ’60 ora è deturpata, è divenuta il parcheggio di Sant’Anastasia e oggi i nostri figli si incontrano ma sui social network. A mio parere si perdono qualcosa, forse molto».

Dopo la laurea hai fatto per un po’ – come dicevi – l’informatore scientifico. Poi?

«Nel ’92, un anno prima che mi sposassi, fui chiamato nell’azienda lattiero – casearia di Augusto Amodio, gli serviva una persona che gestisse il laboratorio di analisi, ho lavorato lì per vent’anni cominciando dal momento in cui nasceva l’esigenza, dettata dall’Europa, di munire le aziende di un autocontrollo all’interno dell’unità produttiva».

Oggi invece, e da più di dieci anni, ti si può definire un imprenditore. Come nasce l’azienda «Cantine Olivella»?

«Una scintilla, una casualità. Dall’incontro in azienda con un altro professionista, Andrea Cozzolino, un perito agrario che Augusto Amodio ebbe la lungimiranza e l’intelligenza di impiegare soltanto dopo avergli fatto frequentare un’ottima scuola di Lodi in cui insegnano scienze della preparazione lattiero – casearia. Io mi occupavo del laboratorio, lui della produzione, siamo entrati subito in sintonia perciò Cantine Olivella nasce innanzitutto da un’amicizia».

L’idea di produrre vino come si innesta in questa amicizia?

«Negli incontri con Andrea fuori dal lavoro ho conosciuto il Monte Somma, quello che da ragazzi noi anastasiani “sfioravamo” magari soltanto nella consueta scampagnata del mercoledì dopo Carnevale, quando si andava all’Olivella seguendo il gregge. Con Andrea ho scoperto naturalmente altre cose, in primis che la montagna è una ricchezza straordinaria, studiarla e capirne le bellezze dovrebbe essere un dogma scritto nello statuto del nostro paese, a cominciare dalle scuole. Credo ci fosse già in me il seme di questo amore perché fin da piccolo, nei momenti di difficoltà e nervosismo, il contatto con il verde e la natura mi ha aiutato a rilassarmi, a gestire cose ed emozioni. Ecco, Cantine Olivella nasce dal progetto di due amici che hanno deciso di ripristinare un’antica vigna di uva catalanesca, l’azienda era lontanissima dai nostri pensieri».

Anche perché in quegli anni la Catalanesca non poteva essere prodotta per la vendita, giusto?

«Esatto. Per tradizione gli anastasiani hanno sempre vinificato per uso personale due tipi di uva: la bianca, per produrre vino bianco e Catalanesca per i propri usi ed esigenze; e la rossa, che compravano andando fino in Basilicata in una zona che si chiama Barile, per produrre un vino che chiamavano appunto “Barile” e che in realtà è un Aglianico dalla struttura abbastanza importante. A quell’epoca l’uva catalanesca era classificata come uva da tavola perciò, con nostra sorpresa, scoprimmo che si poteva produrre il vino unicamente per uso personale, non commerciale. Così iniziammo a informarci, a leggere, scoprendo gli studi che aveva condotto, anche per conto della Regione, il professore Luigi Moio, docente di Enologia alla Federico II e oggi presidente della commissione enologia dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (Oiv), uno dei maggiori esperti italiani. La Regione Campania stanziò dei fondi per studiare dei vitigni minori tra cui la Catalanesca e, dopo cinque anni di sperimentazione, Moio dimostrò che da un punto di vista scientifico l’uva catalanesca era adatta alla vinificazione, possedeva cioè tutte le caratteristiche chimico – fisiche e organolettiche per poter essere vinificata. Questo studio, come accade spesso soprattutto in Italia e in Campania, rimase nel cassetto, inutilizzato. Intanto noi andavamo avanti perché lo scopo era trovare la strada per produrre il vino con tecniche acclarate, bottiglie che potessero anche essere esportate.  Il vino del contadino è “ruspante”, prodotto secondo criteri empirici, noi volevamo avesse caratteristiche specifiche, seguendo metodiche e utilizzando strumentazioni adeguate, con scienza e cognizione di causa. Insomma, tentavamo con molta fatica di scoprire dove fossero finiti i risultati di quegli studi».

Alla fine però ci siete riusciti.

«Sì, per tentativi. Quegli anni ci sono in fondo serviti per capire se la strada intrapresa fosse quella giusta. Un giorno, quasi per scherzo, io scrissi una mail a Gino Veronelli, il patriarca di tutti i giornalisti enogastronomici, e gli chiesi se sapesse dove avrei potuto trovare il vino prodotto con l’uva Catalanesca. In quel periodo noi producevamo il vino e lo davamo ad un ristoratore anastasiano, perciò immagina la soddisfazione quando arrivò la risposta di Veronelli che suonava più o meno così: “Lei potrà trovare questo “civilissimo” vino in una delle rare osterie che ancora esistono nelle sue zone, a Sant’Anastasia”. Quello fu uno dei primi segnali che il nostro modo di produrre vino andava verso una giusta direzione. Il passo successivo è stato il tentativo di mettere un punto, quello di traghettare l’uva catalanesca dal registro delle uve da tavola a quello delle uve da vino».

Intanto lavoravi ancora nell’azienda casearia?

«Sì, il ripristino della vigna e i tentativi di dare dignità alla catalanesca erano un hobby, un passatempo ancora. Con numeri piccoli, cose minime, poche bottiglie e le trasformazioni che avvenivano in uno scantinato. Un’unica vigna, poco più di duemila bottiglie all’anno, una sciocchezza. Ma eravamo decisi, perciò in quel periodo ci rivolgemmo all’amministrazione locale, il sindaco era allora Enzo Iervolino».

Vi aiutò?

«Quell’amministrazione ci dette una mano, sì. Ci fornì soprattutto la possibilità di avere uno sportello informativo. La necessità era quella di dimostrare l’esistenza di una certa quantità di uva catalanesca perché la Regione potesse dare il placet ai passi successivi. Quindi bisognava classificare e catalogare i vigneti, gli appezzamenti, gli agricoltori, fare un vero e proprio censimento. Questo è stato molto difficile in verità perché ogni agricoltore doveva “autodenunciare” il proprio vigneto e pagare un contributo di 50 euro per ogni mille metri di terreno, il che alimentava la diffidenza. Abbiamo promosso convegni, formazione, fatto informazione, ci siamo dedicati a questa missione finché è venuta fuori una massa critica di uva che potesse giustificare l’ingresso dell’uva catalanesca nel panorama vitivinicolo delle uve vinificabili in provincia di Napoli. E così fu. Ma Cantine Olivella ancora non c’era nella nostra testa».

L’azienda nasce nel 2004.

«Cantine Olivella sì ma la tradizione è più antica giacché la famiglia di Andrea già negli anni ’60 coltivava e vinificava per amici e ristoratori locali. Nel 2005 abbiamo tenuto la prima vendemmia ufficiale dell’azienda ma il nostro vino non si poteva ancora chiamare Catalanesca perché una legge italiana prevede che ci debba prima essere un disciplinare di produzione e che, in caso contrario, il vino non possa che essere considerato “da tavola”. E il vino da tavola è generico, non ha né un nome né un cognome. Il disciplinare ancora non c’era e noi rischiavamo di diventare vecchi nell’attesa, per cui iniziammo con il Lacryma Christi, producendo i nostri Lacryma bianco e Lacryma nero».

Perché il nome «Cantine Olivella»?

«Qui ci è venuto in soccorso il professore Antonio De Simone, archeologo, zio di mia moglie. Perché parallelamente alla nascita e alla crescita di questa azienda è sorta una profonda consapevolezza del nostro territorio, di quella che è Sant’Anastasia, di quello che è stato il nostro paese anche da un punto di vista storico e culturale. Perciò chiesi a De Simone di aiutarmi, di fornirmi riferimenti scientifici che potessero legare il nome dell’azienda al territorio e lui lo fece, ricordando un articolo del professore Alfonso De Franciscis che negli anni ’70 scopriva a Cupa Olivella un’antica villa di epoca romana. Pochi resti, frammenti risparmiati dallo scempio che la camorra ha fatto di questi territori con le sue cave abusive: uno di questi resti è il mezzo busto che oggi è all’ingresso di Palazzo Siano, un altro è un pezzo di dolium sul quale c’era impresso il nome di un antico vinificatore che aveva avuto l’idea di marchiare il contenitore di terracotta contenente il suo vino. Era Sextius Catius Festus, si leggeva appena “Sex Cati Fest” che oggi è il nostro logo, il simbolo della nostra azienda, con una foglia di vite cuoriforme stilizzata. Un voler esprimere che in realtà non abbiamo che continuato l’opera che il nostro amico concittadino, vinificatore di duemila anni fa, aveva iniziato producendo vini accanto alla fonte Olivella. Ci è sembrato giusto chiamare l’azienda Cantine Olivella perché per noi anastasiani è quasi l’unico simbolo della montagna, quello che ci viene in mente quando ne parliamo».

Un simbolo di cui dovremmo essere orgogliosi.

«Orgogliosissimi. Cantine Olivella nasce quindi con il logo, il simbolo, con il vino Katà, diminutivo voluto per la necessità di far capire alle persone che è finalmente è tornata la Catalanesca. Quando si va in giro a raccontare del proprio territorio, in questo caso a raccontare di quest’uva, molte persone ci ringraziano, si commuovono addirittura, perché ritrovano odori, sapori e profumi del vino che avevano bevuto da ragazzi e che ha rischiato di scomparire per sempre».

Anche tu bevevi la Catalanesca da ragazzo?

«No».

Adesso?

«Ora sì, quando ho iniziato questo progetto ero solo innamorato dell’idea di ripristinare la vigna antica. Adesso ne apprezzo gusto, odori, profumi, sapori».

Il nome del vino Katà, con la K, com’è nato?

«Un diminutivo di Catalanesca, sicuramente. Ma la parola ha anche una doppia radice: in greco vuol dire “sotto”, dunque sotto il Monte Somma, modello di virtù sotto il Vesuvio; in giapponese vuol dire “modello”, “esempio”. Per dire che quest’uva dimenticata è stata recuperata “per i capelli” e riportata ad una dignità che era giusto avesse».

Nel 2006 è stata infatti ufficialmente aggiunta all’elenco delle uve da vino, per il disciplinare di produzione che ha portato alla IGP Catalanesca del Monte Somma avete dovuto attendere il 2011.

«Il 2011 segna anche l’ingresso in azienda di un altro socio, Ciro Giordano, da quel momento quindi la nostra squadra conta tre anime. C’è da dire che in quegli anni si discuteva di dove potesse essere prodotta l’uva, c’era l’opportunità da parte di tutti i vinificatori intorno al Vesuvio di appropriarsi del lavoro fatto da Cantine Olivella per poter riportare in bottiglia la Catalanesca, infatti qualcuno fiutò il business e si tentò di portare la zona di vinificazione anche laddove storicamente non c’era. Perciò è bene ricordare che non nacque la Catalanesca del Vesuvio, che pure avrebbe avuto – per il nome – una strada spianata in Italia e all’estero, bensì la Catalanesca del Monte Somma che può essere vinificata e prodotti in soli nove comuni».

E il Monte Somma è meno noto…

«Sconosciuto quasi, direi, anche a Napoli. Un posillipino, che si affacci da casa propria guardando le due gobbe, identifica tutto il complesso come Vesuvio. In pochissimi sanno che una di quelle è il Monte Somma e che da lì, dopo l’eruzione del ’79 dC che sotterrò Pompei ed Ercolano, nacque il vulcano vero e proprio che prima era un unico monte».

 

Intanto l’azienda ha festeggiato più di dieci anni di attività.

«Noi festeggiamo ogni anno perché, fortunatamente, cresciamo sempre un po’, un granellino dopo l’altro, acquisendo pezzettini di vigna in più. Lo scopo è ripristinare antichi vigneti ormai abbandonati, affittiamo appezzamenti che nessuno cura più. Cantine Olivella, in via Zazzera 14 a Sant’Anastasia, sorge dove c’era la casa di Andrea poi tramutata in opificio di trasformazione. La prima vigna era seicento metri più in alto, man mano abbiamo acquisito altri terreni e oggi siamo quasi a dodici ettari, alcuni di proprietà e la gran parte in affitto. Prendiamo vigne già esistenti abbandonate da tempo o andiamo ad impiantarne di nuove laddove ci sono terreni abbandonati. Tutto ciò ha uno scopo non solo sociale e culturale ma – è parola grossa, lo so – “politico”».

Politico?

«Valorizzare la nostra montagna è un compito che spetterebbe al Parco Nazionale del Vesuvio. Un Parco che nasce con l’intento di sottrarre il Monte Somma e il Vesuvio, come tutta l’area intorno, al degrado e all’abusivismo. Ovviamente è un’idea buona, intelligente, ma chi ha istituito la zona protetta ha dimenticato poi che non si può vietare qualcosa senza proporre altro in alternativa. Il regolamento del Parco è stato scritto da geologi e architetti, nella pianta organica non c’è un agronomo. Come si fa a salvaguardare la terra impedendo di realizzare qualunque cosa?».

Perciò il Parco è un ostacolo per chi vuole fare impresa, sia pure agricola?

«Basta pensare ai molteplici vincoli, diretti e indiretti. Un esempio pratico: se affitto un pezzo di terreno abbandonato da 50 anni, il regolamento del Parco prevede il divieto di estirpare alberi, essenze, erbe selvatiche e officinali, tutto molto bello se non fosse che per impiantare un vigneto la prima cosa da fare è sostituire quel che esiste con le vigne. Per fare questo c’è bisogno di istruire una pratica e colloquiare con un esperto agronomo, ma un agronomo nell’organico nel Parco non c’è e non c’era nemmeno tra coloro che ne hanno scritto il regolamento. La verità è che non si sa con chi confrontarsi, occorre che si faccia un sopralluogo, che si valuti la produttività del terreno, la maniera in cui può essere gestito quel particolare fondo. Insomma, è difficile. Impieghiamo anni per ottenere un permesso, con tanto di relazioni dettagliate, fotografie, perizie di tecnici specializzati e bisogna tenere conto che, quando si impianta una vigna, occorrono poi almeno quattro anni perché vada in produzione. Penso invece che un imprenditore il quale spende denaro per affittare il terreno, per pulirlo e prepararlo, che deve comunque attendere quattro anni, dovrebbe essere invogliato se lo scopo è quello di impiantare nel Parco Nazionale una coltura specializzata e innegabilmente legata al territorio».

Avete vigne anche nei pressi dell’Olivella, visto il nome dell’azienda evocativo di quell’area della montagna?

«Tra le vigne ristrutturate ce n’è una proprio a fonte Olivella ma già adesso è quasi impossibile raggiungerla».

In che senso?

«Nel senso che qualche anno fa – c’era l’amministrazione del sindaco Carmine Esposito – si era ottenuto un finanziamento di circa 600mila euro per sistemare la strada che serve a raggiungere l’Olivella. Ma non è poi andato in porto perché l’Autorità di Bacino non ha concesso il nullaosta per la ristrutturazione, sostenendo che quella non è una strada ma una via di fuga per l’acqua piovana. Una circostanza che rende impossibile l’antropizzazione di quei luoghi. Dunque un’azienda come la nostra, che vende i prodotti del Monte Somma in Italia e in quasi tutti i continenti, avendo un vigneto lì e avendo fatto un investimento, non può raggiungere la sua proprietà. Al momento non possiamo andarci perché c’è una piccola frana».

L’amministrazione comunale non può far nulla?

«L’abbiamo chiesto. Ovviamente sarà difficile ottenere i permessi, l’ente d’ambito dirà sempre che i lavori non si possono fare, che sarebbe anzi meglio impedire alle persone di salirci».

Nel frattempo?

«Nel frattempo la nostra vigna sta lì, in attesa che la strada crolli del tutto. Oggi è interdetta, ci sono i divieti, cosa che mette a posto con la coscienza chi ci amministra, e non parlo unicamente del governo locale. Del resto anche la Sorgente Olivella non potrebbe essere meta di visitatori, già dalla frana di qualche anno fa. Quello è un anfiteatro bellissimo in pietra lavica ma, invece di mettere in sicurezza la struttura, si preferisce impedire l’accesso bollandolo come “sito pericoloso”. I funzionari stanno a posto, le persone non devono andarci».

Compito del Parco del Vesuvio però sarebbe anche sistemare i sentieri, incentivare il turismo, offrire alla vista di eventuali visitatori tutte le bellezze della montagna…

«Dovrebbe».

Cantine Olivella apre le sue porte ogni anno per la manifestazione «Vendemmiamo la Catalanesca». Avete promosso eventi come «Archeno» che coniuga la cultura del vino con l’archeologia…invitate anche esponenti del Parco?

«In passato sono stato rimproverato perché non avevo comunicato le date di eventi “così belli” – fu questa la frase che usarono – non cogliendo così la possibilità di inserirli nel ventaglio di appuntamenti promosso dal sito web dell’Ente Parco. Poi ho invitato Ugo Leone e altri esponenti ad Archeno e alla vendemmia, quest’anno ho anche deciso di chiedere il patrocinio. Avevo suggerito di allestire un piccolo stand del Parco, di intervenire. Ma non hanno accolto l’invito».

 Siete in tre a gestire l’azienda Cantine Olivella. I ruoli?

«Andrea Cozzolino è l’anima produttiva dell’azienda, nasce contadino e diventa perito agrario, perciò riesce a coniugare la maestria dell’arte appresa dai suoi genitori con le tecniche e le innovazioni imparate con gli studi. Ciro Giordano è un imprenditore nato, il tassello che mancava, lui si occupa soprattutto della gestione dei rapporti con la clientela e oggi è il nostro amministratore. Io sono, diciamo, il “collante” dell’alchimia che si è creata tra noi, mi occupo dell’azienda a tempo pieno ormai, con impegno quotidiano».

Il segreto, se c’è, del successo dell’azienda?

«L’aver identificato il nostro prodotto legandolo imprescindibilmente al territorio dove nasce. Essere coerenti con il messaggio che diamo, credo sia questa l’arma vincente».

Qual è il messaggio?

«È molto semplice: noi produciamo, oltre alla Catalanesca, anche il Caprettone e il Piedirosso, due vitigni – uno a bacca bianca, l’altro a bacca rossa – che si trovano sul nostro territorio. Non sono altro che le nostre uve e le coltiviamo secondo le metodologie standardizzate, andando a produrre vini che sono espressione del territorio. Le aziende di produzione campane hanno avuto per anni un problema: quello di non dare una riconoscibilità ai prodotti. Il vino, sfuso, veniva venduto in contenitori senza un dato identificativo: bianco o rosso, tutto qui. Quando nell’83, grazie anche a Mastroberardino nasce la Doc Lacryma Christi, i produttori della provincia di Napoli e intorno al Vesuvio non erano ancora pronti a capire cosa stesse accadendo. Ma il vino è questo, bisogna identificarlo, raccontarlo attraverso la storia del territorio: produrre un vino anonimo significa non dargli un’anima ed è questo il concetto che non è stato subito afferrato dai produttori locali per cui ci sono state sì etichette ma solo perché bisognava adeguarsi ad una legge igienico sanitario che imponeva delle diciture. Così ci si è accomodati obtorto collo, senza credere nella qualità che è andata scemando. Nel frattempo l’enologo Luigi Moio è andato in Francia ed ha poi esportato il modello dello “Chateaux” che non è altro se non la casa del vinificatore, del vignaiolo. Il contadino produttore francese ha l’orgoglio di quel che fa, invita a casa propria, nella sua vigna, i clienti che dovranno utilizzare il vino. Mostra loro cosa fa e come lo fa, presentando la propria azienda con l’orgoglio di chi produce un vino espressione di quella terra. Questo concetto viene seguito da pochi, ad Avellino principalmente, ma pochissimo in provincia di Napoli dove difficilmente trovi chi è disposto ad aprire le porte della propria azienda. Noi napoletani, in provincia soprattutto, abbiamo la difficoltà di associazionismo, non sappiamo valorizzare il nostro territorio e spesso riteniamo, sbagliando, di fare meglio degli altri. È per questo che abbiamo perso molti treni».

Anche Sant’Anastasia ne ha persi tanti…

«Effettivamente: abbiamo perso il treno delle albicocche, della macellazione dei capretti, del rame, tra poco forse anche quello delle olive, pur avendo una tradizione di trasformazione invidiabile. Anche il polo lattiero caseario qui è in sofferenza perché non si riesce a identificare e valorizzare il prodotto. Non c’è una Dop, una riconoscibilità, un nome e un cognome del prodotto. Ecco, la mia funzione in azienda è stata in questi anni anche il tentativo di mettere l’accento su questi concetti, di portare fuori il nome di Sant’Anastasia e del Monte Somma che, come si è scoperto – anche grazie al lavoro degli archeologi De Simone – era già duemila anni fa pieno di uva e viti. La zona nord del Somma – Vesuvio era probabilmente la più importante dal punto di vista ecologico, economico, produttivo e anche culturale. La stessa Villa Augustea di Somma Vesuviana doveva essere la sede di produzione di vino più importante a quei tempi: quello è un sito del 400 dC e non ce n’è uno uguale in Italia».

La produzione attuale di Cantine Olivella?

«Ottantamila bottiglie l’anno, sempre un po’ di più. Il trenta per cento del fatturato va in esportazione e – lo dico con orgoglio – ci va perché il nostro vino è ricercato all’estero. Oggi, con la globalizzazione – che sembra una brutta parola ma rende bene l’assioma che oggi il mondo non ha praticamente confini – quello che magari scrive un giornalista americano che si trova a pranzare in costiera lo sa immediatamente tutto il mondo. Ed è quello che è accaduto in realtà: un pomeriggio assolato di cinque anni fa – era il 29 luglio – ero in azienda quando ricevetti una telefonata. All’altro capo del filo un signore si presentò come Livio Panebianco da New York e mi chiese se fossimo noi a produrre la Catalanesca. La prima reazione fu pensare ad uno scherzo, ipotizzare mentalmente quale dei nostri amici ci stesse prendendo in giro…invece era vero. Mi collegai al pc, constatai che la persona all’altro capo del filo era effettivamente chi diceva di essere e che ci stava chiamando perché aveva letto uno scritto di Charles Scicolone, un blogger americano il quale, dopo una visita in costiera dove aveva pranzato in un noto ristorante, aveva raccontato di aver bevuto questo vino Catalanesca che gli era piaciuto molto. Tre righe, non di più, ma erano bastate. Così abbiamo mandato una campionatura e iniziato a vendere il vino a New York. Dopo un anno, un collega californiano del nostro contatto gli chiese un’azienda di riferimento e siamo arrivati anche in California. Nel frattempo, grazie alla manifestazione Vinitaly che si tiene ogni anno a Verona, il nostro vino è approdato in Giappone; a Ginevra degli italiani hanno preteso dai loro importatori svizzeri che gli portassero l’etichetta Cantine Olivella. Esportiamo in Australia. Non abbiamo idea invece di come siano nate le richieste che abbiamo dalla Francia, sappiamo solo che a Natale scorso hanno iniziato a ordinare anche da lì la Catalanesca, il Caprettone, il Piedirosso. Portare il nostro vino da Sant’Anastasia in Francia, terra di vini, solo perché qualcuno lo ha assaggiato e gli è parso coerente con quello che è il territorio di riferimento e non perché l’abbiamo chiesto, perché abbiamo proposto sconti o perché siamo famosi, ecco questo si può chiamare – probabilmente – un successo».

Cosa intendi con «coerente»?

«Molte aziende producono vino per soddisfare l’esigenza dei clienti, anche se il territorio dove nasce non è idoneo per la coltivazione di un’uva. Ossia propongono quel tipo di uvaggio e quella bottiglia per avere un ventaglio di prodotto idoneo per tutte le richieste. Il concetto della nostra azienda è produrre le cose che il territorio esprime senza andare a ricercarne altre, una vinificazione fatta con cura. Ovviamente ci avvaliamo del supporto di un enologo importante, Fortunato Sebastiano, professionista dell’avellinese, che ci aiuta perché il nostro sia un prodotto sempre migliore. L’azienda è piccolina ma ha strumenti tecnologici all’avanguardia, per un prodotto buono occorre anche questo. Poi c’è la coerenza nel linguaggio aziendale, nel proporre il nostro vino».

Quanti dipendenti avete?

«Attualmente siamo in tre e poi c’è Angela, la moglie di Andrea. Noi lavoriamo lì tutti i giorni e quando occorre prendiamo dipendenti stagionali. Tra poco inizierà la potatura, poi ci sarà la vendemmia, arriviamo di solito anche a sette/otto dipendenti. Il prossimo passo sarà di prenderne fissi ma il nostro problema, al momento, è la struttura arrivata ormai a saturazione. Il fatto è che non solo non possiamo spostarci ma siamo vincolati a restare nella zona di produzione del Lacryma Christi, quindi siamo alla ricerca di un sito che sia abbastanza grande per aumentare le produzioni ma anche rappresentativo dell’espressione e che possa, infine, fungere da ambiente di rappresentanza per poter ricevere le persone che vorrebbero venire da noi, e sono tante. Ogni giorno dobbiamo dire un “no” e accettare solo piccoli gruppi quando si può. Intanto le richieste arrivano da tutto il mondo, l’ultimo visitatore è stato un giornalista canadese che sta scrivendo un libro sui vini vulcanici e ha scelto Cantine Olivella quale rappresentativa del Monte Somma».

Del Monte Somma, non del Vesuvio…

«No, perché l’altro messaggio che tentiamo di far venire fuori in maniera forte e chiara è che la nostra azienda, seppure nell’area del Vesuvio, è sul Monte Somma che, essendo la parte più antica della montagna, ha una qualità differente di terreno rispetto al Vesuvio. Un terreno vulcanico molto più antico del Vesuvio stesso e che dunque conferisce all’uva una spiccata sapidità e mineralità. L’uva che cresce qui trae dal terreno una quantità di sali minerali differenti da quella del Vesuvio, sono più “pronti” e si sente, nell’uva e nel vino. I nostri vini hanno due caratteristiche fondamentali: una è la sapidità, la salinità, dote di quei vini che una volta bevuti inducono ad essere ribevuti, sono per dirla con semplicità “vini saporiti”. L’altra caratteristica è che, essendo prodotti solo in acciaio, senza affinamento in botte, sono dei vini “non ruffiani” cioè non omologati, sono così come il territorio li crea. È per questo che riescono a soddisfare una nicchia di mercato, i nostri clienti sono persone attente, che hanno curiosità di raccontare un vino e una storia, quella dei nostri luoghi».

I prezzi?

«Non molto alti. Siamo un’azienda giovane, con vitigni sconosciuti ai più. I prezzi sono abbordabili».

La tua passione per il vino – che si avverte da come ne parli – è nata in corso d’opera?

«Sì, perché ci si rende conto che il vino va al di là di tutti gli altri alimenti. Ho lavorato per vent’anni nel settore lattiero caseario e posso dire che c’era una completa scissione tra il prodotto e l’ambiente in cui veniva fatto. Non che non ci fosse amore nel produrre mozzarelle ma, se quelle stesse cose le avessimo fatte in Spagna, per esempio, avrebbero avuto lo stesso sapore e il medesimo significato. Erano mozzarelle, avevano una pezzatura, un sapore e un determinato prezzo. Quando invece si parla di vino capisci che deve avere innanzitutto un vestito importante – perché il consumatore guarda in primis la bottiglia – poi deve avere una storia da raccontare e quest’ultima deve essere intrigante e vera».

I «vestiti» per i vostri vini come nascono?

«Ci aiuta un professionista che chiamare grafico è riduttivo, io lo definisco il quarto moschettiere: Ferdinando Polverino De Laureto. È un comunicatore, tramuta in idee grafiche la storia di ogni bottiglia, quella che è per esempio la mia passione per l’arte. Sulle nostre bottiglie ci sono delle immagini, sono studiate, volute, raccontano storie e sono intimamente connesse con il vino nella bottiglia e con la storia che quello stesso vino porta con sé».

La passione per l’arte è palese, giacché molte etichette sono in pratica quadri di artisti anche noti. Me ne parli?

«Alcuni non sono più viventi, come Olimpia Fontanelli, Salvatore Emblema o Antonio Auriemma il quale, con la sua semplicità d’animo e sensibilità, rappresentava quel che è effettivamente il nostro vino. Lui disegnava due cose: una visione onirica dei suoi pensieri e dei fili, quelli della memoria, che legavano i ricordi del suo passato, e poi i colori. Per l’etichetta di un passito di Catalanesca scelsi insieme a lui un quadro giallo, come il tufo napoletano. Disegnava la materia, come un vero artista sa fare. “La luna e la melagrana” su una notte dorata. Ho conosciuto anche Carla Viparelli che ha dato la sua opera per il nostro Piedirosso che si chiama “Vipt”: dal participio passato napoletano del verbo bere, ossia “bevuto” ma anche un omaggio all’artista che si firma Vip. Abbiamo aggiunto una T, dando a chi legge l’opportunità di capire che si tratta di un vino napoletano».

Tutti gli artisti ai quali hai chiesto l’utilizzo di un’opera per le bottiglie hanno accettato?

«L’approccio non è sempre facile, ma sono nati rapporti personali bellissimi e, sì, hanno accettato tutti. Per l’etichetta firmata da Salvatore Emblema ci siamo confrontati con i figli e abbiamo un vino che si chiama come lui, l’artista. Per il Vesuvio bianco avevo l’idea di mettere sulla bottiglia qualcosa che raffigurasse l’espressione della vesuvianità e abbiamo scelto “Il Fiore del Vesuvio”, una foglia verde che sembra quasi penetrare il quadro».

Arte, ma anche archeologia e musica a corollario dei vostri vini…Dagli eventi “Archeno”, cioè la fusione di archeologia ed enologia, fino alla musica che in più di un’occasione vi ha accompagnato grazie a Girolamo De Simone, musicista e compositore apprezzato nonché fratello di tua moglie.

«La fusione di tutti questi elementi è armonica, a cominciare dalla teoria che gli archeologi portano avanti, ossia che il Monte Somma sia la patria dell’enologia e che queste nostre zone abbiano, da un punto di vista archeologico, una dignità pari, se non superiore, a quella di Pompei ed Ercolano. Questo è un dato di fatto. E poi la musica, la ricerca della musica. Girolamo De Simone è un compositore di estrema cultura e sensibilità, la sua è una musica di frontiera e credo abbia spesso desiderato di andare via da questi luoghi. Mi fa piacere pensare che, vedendo come io stesso ho tratto dalla mia terra un frutto che mi dato la possibilità di mettere su un’azienda espressione del territorio, si sia forse un tantino riconciliato con lo stessa terra che sentiva un po’ “matrigna” più che madre. Nel 2010, per il primo Archeno, c’è stato un suo bellissimo concerto per Donizetti fatto in vigna, alle spalle dell’olivo sotto il quale il compositore aveva probabilmente pensato la Lucia di Lammermour. “Ai piedi del monte” di De Simone è frutto di ricerche storiche su musiche e musicisti vesuviani, un percorso che passa per i canti di devozione alla Madonna dell’Arco arrivando fino a Gaetano Donizetti e Vincenzo Romaniello che fu maestro di Renato Carosone. A Vitigno Italia, kermesse dove arrivano aziende vitivinicole da tutta la nazione e da tutto il mondo e che si tiene da anni a Castel dell’Ovo, siamo stati in grado di portare un pianoforte in una sala da degustazione. Io dissi all’organizzatore: «Non scambiarmi per un pazzo, ma dobbiamo fare un concerto». Così nacque “I cinque sensi del Monte Somma” dove per ogni vino – noi ne produciamo cinque – c’era un video ed una musica. Tre video erano immagini fornite dall’archeologo Antonio De Simone, uno rimandava le immagini di una sagra dell’uva Catalanesca che si teneva a Sant’Anastasia nel 1978, un altro mostrava il Monte Somma e il Vesuvio. C’è stato un concerto in contemporanea con la visione delle immagini e la degustazione, dando quindi la possibilità di utilizzare tutti i sensi, per far comprendere a tutti la ricchezza estrema del nostro territorio».

I progetti futuri per Cantine Olivella?

«Trovare la solidità aziendale. Oggi c’è questa azienda con la A maiuscola che ha un fatturato, una produzione importante, una serietà riconosciuta, deve trovare una collocazione degna. Il nostro vino è molto ben visto, saporito, apprezzato, ha una bella immagine e costa il giusto. Senza falsa modestia, in più, sono apprezzate anche le persone che sono “dietro” quel vino. Quel che ci manca è la struttura. Oggi il consumatore ha l’esigenza di vedere dove si coltiva l’uva, dove si produce, di calpestare il terreno dove lo si fa. Come in Francia. Siamo dunque alla spasmodica ricerca di un rudere da poter ristrutturare».

Impresa non facile in queste zone dove i vincoli sembrano insormontabili. E qui si inserisce la politica, non solo locale: la tua azienda è nata nel 2004, quando al governo di Sant’Anastasia c’era il sindaco Iervolino il quale, hai già detto, vi supportò. Cos’è accaduto con gli amministratori successivi, il sindaco Pone, per esempio?

«Io sono andato a presentarmi ad ogni sindaco eletto, di qualsiasi colore politico fosse, pur magari conoscendolo già. Con Pone non c’è stato poi modo di interloquire, per mancanza di occasioni».

Con il sindaco Esposito?

«A lui chiesi come prima cosa di aiutarmi perché sulla strada che porta in azienda c’erano dei fossi molto profondi, delle buche, e io aspettavo di lì a poco dei clienti. Non lo conoscevo bene Esposito, dunque non è che mi aspettassi risposte di lì a breve. Invece pochi giorni dopo, mentre percorrevo via Pomigliano a bordo della mia Jeep verde dell’87, lo vidi fermo ad un cavalcavia, credo a controllare dei lavori in corso. Mi fece segno di fermarmi e mi disse che l’indomani le buche sarebbero sistemate. Fu questo il primo approccio e lo ringraziai, apprezzando la tempestività giacché, essendo appena stato eletto, non aveva certo bisogno di voti. In seguito ha sempre partecipato ad eventi che abbiamo organizzato, avendo l’intelligenza di capire che la piccola parte pedemontana che va dal borgo Sant’Antonio fino a Palazzo Nicola Amore è una ricchezza per il paese, gli abbiamo più volte detto che quella poteva essere la vera porta del Parco, essere il fulcro di un risveglio economico».

Come?

«Valorizzando quei luoghi meglio di quanto abbiano fatto altri paesi con scenari simili. Somma Vesuviana ha la sua strada che porta a Castello, Ottaviano ha la sua strada fino alla Valle della Delizia, San Sebastiano al Vesuvio ha la panoramica, a Pollena Trocchia hanno addirittura costruito palazzine fino in montagna. Sant’Anastasia è l’unico paese che si ferma al Borgo di Sant’Antonio. Ma qualche centinaio di metri più in là c’è Palazzo Nicola Amore, da una parte c’è la Fonte Olivella, più in basso l’Ualsi, realtà da non sottovalutare, più a destra c’è Cantine Olivella che è una realtà. Il professore Antonio De Simone e suo figlio Girolamo Ferdinando ci hanno dimostrato, con i siti di Pollena Trocchia e Somma Vesuviana, che le persone sono interessate all’archeologia: noi non abbiamo un sito simile ma c’è il Santuario di Madonna dell’Arco con l’unico Museo degli ex Voto esistente al mondo. Non in Italia – sottolineo – ma al mondo. Pensare a tour con visite al Santuario, ai vigneti del Monte Somma, con Palazzo Nicola Amore che poteva essere recuperato ugualmente da un punto di vista culturale – grazie anche ad anastasiani che sono vicini a Gino Nicolais e all’aiuto che il Cnr poteva darci – era una missione possibile».

In quegli anni però si riuscì ad avere Palazzo Nicola Amore in comodato d’uso…

«Sì, il sindaco ci aveva creduto, ci aveva ascoltato. Il progetto però si è poi interrotto».

L’attuale primo cittadino, Lello Abete?

«Gli abbiamo sottoposto il problema, lo sta studiando».

E tu, quando non sei impegnato in famiglia o in azienda, che fai?

«Sono consulente per alcune piccole o medie imprese, mi occupo di gestione e controllo del sistema igienico – sanitario. E poi, recentemente, ho avuto la fortuna di partecipare alla nascita di un’associazione culturale, “La Via della Bellezza”, con l’ambizione di credere che la bellezza possa essere quel seme da cui spuntino poi cose utili per il paese, per la nostra generazione e per quelle future. Secondo me, iniziando dal bello, si può. Ne è presidente Emilio Donnarumma il quale, con la sua spiccatissima sensibilità personale, ha negli anni addietro organizzato moltissime serate dedicate alla bellezza. Scrittori, poeti, pittori, modestamente anche noi di Cantine Olivella, invitati a raccontare della bellezza del progetto. Nel 2015 si è tenuta la seconda edizione della serie di eventi che porta il nome dell’associazione, con performances pittoriche, musicali, teatrali, nelle strade del centro storico di Sant’Anastasia. Lo scorso 26 dicembre c’è stato invece un concerto nella Chiesa di Santa Maria La Nova, musica dal vivo e brani recitati. Tra i progetti dell’associazione c’è quello di prendere in gestione – e risistemare – la congrega che è in piazza II Ottobre, alle spalle della chiesa: potrebbe diventare punto di ritrovo di micro – eventi, di cultura, semi dai quali può nascere altro.

Dunque impegno professionale, culturale, sociale, passione per l’arte. Altro?

«Mi piace andare al cinema, anche a teatro. Ho una moglie che mi stimola ad essere meno pigro di quel che normalmente per carattere sarei e devo dire che, dopo vent’anni di matrimonio e dieci di fidanzamento, siamo ancora in grado di bastarci reciprocamente, oltre che di divertirci in compagnia. Amiamo il teatro non impegnatissimo, solitamente le programmazioni del Bellini. Credo che Antonietta sia peraltro, nemmeno tanto segretamente, innamorata di Tony Servillo: dice che le basterebbe un anno con lui ma che poi, bontà sua, tornerebbe da me. Scherzi a parte, stiamo bene da soli e con gli amici e cerchiamo di stare spesso anche con i nostri figli che, essendo adolescenti, hanno ancora – per fortuna – necessità delle nostre attenzioni».

Entrambi al Liceo?

«Sì, tutti e due al Liceo Classico di Ottaviano, con grande profitto. Hanno accettato con piacere l’unica imposizione che ho dato loro, ossia quella di frequentare privatamente una scuola di inglese. Oggi i figli di noi anastasiani sono impegnativi perché mentre noi, da adolescenti, pascolavamo in questi luoghi, loro vanno fuori, a Somma Vesuviana o a Pomigliano d’Arco. Intanto per adesso non posso lamentarmi e sono contento che abbiano entrambi una visibile vena artistica».

Ossia?

«Vincenzo è un musicista, ha iniziato a studiare il pianoforte con lo zio Girolamo e poi si è distaccato dalla musica classica, ha un piccolo complesso musicale, «The Noiserz»: hanno vinto l’ultima edizione del Festival Giovani Talenti Premio Città di Sant’Anastasia, con Mara Maionchi presidente di giuria. Mio figlio suona, cosa per me difficile da comprendere, sia la batteria che le tastiere in contemporanea, come faccia non so. Intanto lui e gli altri componenti del gruppo sono bravi e si divertono, sono originali in quel che fanno e ora si stanno facendo seguire da una casa discografica per migliorarsi. Ovviamente seguiti ed accompagnati. Fin quando riescono a farlo conciliando questa passione con lo studio, per me va bene».

Tua figlia, invece?

«Elisabetta dipinge, le piace molto la pittura e anche lei ha una evidente vena artistica ed una sensibilità che le fa amare l’arte».

A proposito qual è l’opera d’arte – tra quelle che hai avuto modo di ammirare – che ti ha più colpito?

«Sono un appassionato ma anche di bocca buona, se mi chiedessi per esempio quale genere di musica preferisco potrei risponderti quella di Chopin come quella dei Genesis, perché passo dalla classica all’italiana, dal pop al rock. Sono fatto così, spazio tantissimo. E così è anche per l’arte, quindi probabilmente ora ti citerei le ultime opere che ho visto».

E quali sono le ultime che hai visto?

«Siamo stati recentemente ad Amsterdam con i ragazzi e alcuni amici e abbiamo visitato tutti insieme i due musei più importanti, perciò forse ti direi che in questo momento ho davanti agli occhi i dipinti di Van Gogh».

C’è una domanda che faccio spesso e mi piace: se potessi scegliere di avere in casa, sulle tue pareti, per guardarlo tutti i giorni, un dipinto famoso qual è che vorresti?

«Difficile, più di uno. Ma appunto, se ora chiudo gli occhi, ripenso a quelle ore passate insieme nei musei di Amsterdam, con la gioia di partecipare come famiglia, tutti e quattro insieme ad ammirare la bellezza. Ecco, magari “I Girasoli” di Van Gogh».

Il libro più bello che hai letto?

«Molti, soprattutto in estate. Recentemente mi è piaciuto parecchio “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano».

Se ti chiedessi di scegliere un angolo del tuo paese, Sant’Anastasia? Quello che ami di più, che ti emoziona…

«Il Boschetto è stupendo, mi emoziona e mi trasmette un senso di tristezza per quello che è stato, per quello che potrebbe essere e non è.  Di recente, grazie a “La Via della Bellezza”, ho scoperto piazza II Ottobre, apprendendo anche che in realtà, un tempo, l’ingresso della chiesa era proprio da quel lato. È una “bomboniera” che mi spiace vedere oggetto di parcheggio selvaggio».

La politica ti interessa, ti piace?

«Fino a qualche anno fa no. Poi mi sono reso conto che chi fa il dipendente, statale o privato, non ha forse nemmeno la necessità di interessarsene perché le cose gli piovono dal cielo. Diventando imprenditore ho capito che la politica siamo noi, è il nostro rapporto con l’azienda, con i prodotti che creiamo, con le persone che ci circondano.  Una vita senza politica è impensabile. Ecco perché ho una mia analisi molto severa rispetto a persone che, pur avendo capacità intellettuali e professionali – che io non riconosco a me stesso per carattere – non si impegnano, non comprendendo che la politica è anche loro interesse».

Carattere a parte, ad impegnarti in prima persona non hai pensato?

«Mi spaventa, la nostra famiglia ha sofferto molto a causa della politica. C’è stata l’esperienza da sindaco di mio zio, Antonio Manno. Quando ti tocca da così vicino capisci che la politica è “sporca” anche se tu sei pulito. Che gli avversari non usano sempre il tuo stesso linguaggio. Ho sempre avuto il timore dell’attacco personale al di là della gestione della cosa pubblica, sono una persona permalosa e molto sensibile, non credo di essere in grado di non dare peso ai giudizi altrui o agli attacchi. Ovviamente però ritengo sia necessario occuparsi di politica, per ora mi limito all’impegno sociale con l’associazione».

Che non diventerà associazione politica?

«Assolutamente no, è un impegno per il paese. Sincero e alla luce del sole».

Se ti chiedessi chi è stato il miglior sindaco di Sant’Anastasia?

«Ti risponderei che è stato Carmine Esposito».

Un aggettivo che ti rappresenti?

«Riflessivo».

I vini che produce Cantine Olivella sono cinque, per ora. Resteranno cinque a lungo?

«No, stiamo tentando di convincere il nostro enologo, il quale ci dà il placet per nuove strade soltanto se è sicuro, per produrre le cosiddette “bollicine”. Uno spumante di Catalanesca o di Piedirosso».

Chi vorresti assaggiasse un tuo vino, potendo scegliere?

«Di recente lo ha assaggiato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla cena dopo la prima del San Carlo. Direi che per adesso può bastarmi».

Finiamo, in questo inizio di nuovo anno, con un augurio per Sant’Anastasia oltre che per la tua azienda?

«L’augurio che è che gli amministratori, chiunque siano ora e in futuro, abbiano l’intelligenza di colloquiare con gli altri primi cittadini dei paesi vesuviani e di capire che solo la coalizione tra territori può far emergere le necessità e dunque risolvere le annose questioni di carattere innanzitutto strutturale. Se non si inizia a individuare quali siano i luoghi dove poter realizzare alcune cose, a capire cosa ci sia di malato sul territorio per cominciare a guarirlo con una adeguata progettualità, non ci sarà mai alcuno sviluppo né economico e né, di conseguenza, culturale».

 

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