GLI ASSISTITI, IL LOTTO: UNA STORIA VERA

I veneti, dopo l”alluvione, urlano il diritto di avere tanti soldi per la ricostruzione; “sono i nostri”, strepitano, e se la prendono con gli assistiti del Sud. L”assistito: una figura nata dalla passione per il Lotto. Di Carmine Cimmino

Spero che la tv mi ispiri, devo scrivere l’articolo. Smanetto sul telecomando, pesco una trasmissione dedicata all’alluvione nel Veneto. Nel salotto del conduttore siedono politici e giornalisti, e da Vicenza è collegato un gruppo di alluvionati. Protestano, ovviamente, fanno la voce grossa, giustamente, chiedono la sospensione del pagamento dell’ irpef, un giornalista ricorda che lì, nell’artigianato e nella piccola e media impresa del Triveneto, c’ è il cuore dell’economia italiana. Un sindaco collegato ricorda a gran voce che essi, i triveneti – uno spicchio d’Italia- producono ricchezza per tutti gli altri italiani, lavorano anche il sabato, e se è necessario anche la domenica, per tutti noi sfaticati scialacquatori, e se si fermano, se incrociano le braccia, per noi, soprattutto per noi dello stipendio fisso, per noi del 27 del mese, per noi assistiti dello Stato è la fine.

È la fame. E chiarisce, un tale, che i soldi che il Presidente del Consiglio ha portato da Roma, non sono soldi dello Stato: sono soldi loro, degli alluvionati, e sono solo una quisquilia, solo una pinzillacchera di quella massa enorme di moneta che essi, gli abitanti dello spicchio, mandano a Roma pagando le tasse. Il Governatore della Lombardia ricorda che la sua Lombardia da sola versa più del 50% della dote di cui dispone il Fondo di solidarietĂ  nazionale. Mi accascio tramortito sul divano. La parte piagnucolosa, chiagnarosa, della mia napoletanitĂ  è commossa, giĂ  inumidisce gli occhi, si morde le labbra, si sente una cimice succhiasangue. Siamo un popolo di assistiti.

La parte acida e ironica, invece, pur turbata dal dramma degli alluvionati di ogni parte d’Italia, dal Veneto alla piana del Sele, vorrebbe dire e domandare ai triveneti e ai lombardi tante cose sui fondi Fas, sugli appalti assegnati con procedura d’urgenza all’ Aquila e in Sardegna, sulla storia aggrovigliata dell’inceneritore di Acerra. Vorrei domandare a quel sindaco a chi i triveneti i lombardi i piemontesi e i liguri vendono i prodotti della loro fatica: latte, biscotti, pasta, salami e salumi, panettoni a Natale e a Pasqua colombe, e cioccolato, e cucine componibili, e frigoriferi, televisori, asciugacapelli e dopobarba. A chi li venderanno, se a sud del Garigliano la povertĂ  diventa ancora più nera.

Ma se i padani inzuppano il biscotto nel brodo della nostra inefficienza, è solo colpa nostra. Ai padani chiediamo soltanto di non farci anche la predica. Non è gente da sermone e nemmeno da spada, anche se ogni tanto l’ on. Bossi minaccia di marciare su Roma alla testa di un milione di baionette. Il Sele ha sommerso terre e aziende agricole, e ha demolito una struttura importante dell’acquedotto: i rubinetti si riapriranno tra qualche mese, se tutto va bene. Subito si è messa in moto la speculazione sulle bottiglie di acqua minerale e sulle taniche. Nel Veneto non è successo: speculatori così gaglioffi e così stupidi, i vicentini li avrebbero buttati nel Bacchiglione.

La passione napoletana per il gioco del lotto e per i riti, i drammi e i melodrammi che fanno da corteo a questo gioco nasce da un incoercibile amor philosophiae, poiché solo un popolo di filosofi può costruirsi un mondo in cui la forza della fortuna e del caso è sfidata a duello dai principi della ragione matematica e la sostanza dei sogni è costretta a incarnarsi nel rigore algido dei numeri. Solo un popolo di filosofi ha potuto creare la figura dell’assistito, erede delle sibille cumane, segnato dalla natura che lo condannava, e lo condanna – perché gli assistiti esistono ancora nel ventre e nel cuore di Napoli – al privilegio di parlare con le anime dei morti, e di conoscere in anteprima, prima dell’estrazione, i numeri estratti.

Nel Paese di cuccagna la Serao descrive la figura mesmerica di un assistito: ha mani scarne e giallastre, "guance smunte, barbaccia nera, un colore malaticcio, a strie, di sangue guasto, consumato da una febbre" che non guarisce. La folla gli si stringe intorno con un cerchio di facce ansiose, e crede di avvertire il rumore della battaglia che gli spiriti assistenti, gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi, combattono senza sosta intorno a lui, intorno all’ uomo signalato. Non era facile costringere l’assistito a dare i numeri. Egli si rifiutava di aprirsi alla presenza e alla voce degli spiriti: come le sibille e le pizie, non voleva essere invasato dai démoni dei morti, perché in ogni invasamento egli perdeva una parte di sé, dell’ energia del corpo e della mente. Si dibatteva, cercava di sfuggire al suo destino scivolando via come un’anguilla tra le mani che lo afferravano. O si chiudeva in un allucinato silenzio.

E allora, per costringerlo ad aprir bocca e a svelare i messaggi dell’aldilĂ , i giocatori lo picchiavano a sangue. Lo dice la Serao. E lo dicono i verbali di polizia. Nel maggio del 1880 un famoso assistito napoletano, Antonio Trisciuzzi, scomparve nel nulla. La polizia interrogò molti giocatori del lotto, poiché gli informatori avevano riferito che Trisciuzzi era stato ucciso da un patito della giocata: patito è, nella lingua napoletana, uno in cui la passione per qualcosa è diventata una malattia, un morbo. L’ispettore di pubblica sicurezza Aniello Altieri interrogò a lungo uno dei sospettati, tale Sabato Nardi, che al lotto aveva giocato e perso somme cospicue. E nell’interrogarlo l’ispettore si confessò: anche lui giocava al lotto, e anche lui s’era mangiato, nel gioco, il patrimonio. Il Nardi da indagato divenne consigliere: promise al commissario di consegnargli un assistito potentissimo, Luigi Calligari, la cui antiveggenza era sovrumana.

E glielo consegnò. Per un mese il Calligari venne sequestrato in caserma, sollecitato a dare i numeri, pregato, supplicato, infine percosso, bastonato, seviziato. A turno, dall’ispettore e dal vice- brigadiere Teti, anche lui giocatore a perdere. Ma il Calligari sopportò e non parlò. Infine, stanco di sevizie, l’ispettore Altieri comunicò all’ assistito che l’avrebbe consegnato a un fiero giocatore di lotto, Gennaro Amabile, di Pollena, cantoniere, che la Questura aveva giĂ  ammonito, nel ’79, come pessimo soggetto, ozioso e ladro. Calligari riuscì a informare i suoi, che si rivolsero ai carabinieri. Liberato dall’Arma e immediatamente interrogato, l’assistito svelò che Trisciuzzi era stato ucciso proprio dall’Amabile, e che i suoi resti erano stati gettati in una grotta, nel territorio di Sant’ Anastasia.

L’Altieri venne sospeso e il brigadiere Francesco Marino dichiarò che il Calligari aveva dormito per un mese in caserma, e l’ispettore l’aveva nutrito sottraendo alle guardie una parte del loro vitto. "Mi sono lamentato per l’abuso", confessò il Marino, "ma l’ispettore mi ha inflitto 5 giorni di consegna assoluta". Aveva protestato, il brigadiere, non per l’abuso del sequestro, ma per quello della sottrazione dei pasti. I verbali di polizia non dicono se la vicenda suggerì ai giocatori terni e quaterne.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA STORIA MAGRA

“IO NACQUI:”. SPAZIO ALLA PAROLA SCRITTA E AL PIACERE DI SCRIVERE

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Il laboratorio di scrittura creativa in aula assolve ad una funzione comunicativa e partecipativa, oltrechè didattica. È così che gli adolescenti (ri)scoprono anche la penna per comunicare. Di Annamaria Franzoni

Un giorno di settembre in aula, mentre condividevo la programmazione delle attivitĂ  per l’anno in corso con i miei allievi della II classe del Liceo Mercalli, sezione G, è nata l’idea di dedicare, compatibilmente con gli altri impegni, qualche ora mensile ad un laboratorio di scrittura creativa che consentisse a ciascuno di raccontare la storia della propria vita in un percorso di emozioni ed idee.

Il singolare progetto di scrivere ciascuno “la propria autobiografia” è risultato particolarmente gradito agli studenti ed ha entusiasmato tutti, per cui si è deciso che tale attivitĂ  si sarebbe sviluppata nel corso dell’intero anno scolastico e sarebbe stata finalizzata alla realizzazione di un testo, corredato e arricchito di foto e documentazioni ufficiali e non, che racconti ventisette singole esistenze.

Il laboratorio di scrittura in aula assolve ad una funzione non solo didattica, ma altresì ad una funzione comunicativa e partecipativa del vissuto emotivo dei singoli allievi e di ricerca del sé: raccontare le proprie emozioni è uno dei bisogni primari dell’uomo e raccontarsi può rappresentare il punto di contatto tra sé e il mondo esterno per esprimersi aprendo il proprio mondo ai tanti altri possibili, comprendo aspetti reconditi del proprio essere.

La scrittura attinge le sue forme e i suoi linguaggi direttamente dal processo creativo, fondendo gli apprendimenti informali e formali e favorendo, così, il raggiungimento di obiettivi cognitivi e affettivo-relazionali.
L’attivitĂ  ha avuto il suo avvio nella scorsa settimana ed io mi sono sforzata di creare, in aula, un setting idoneo a stimolare lo spazio della parola abbattendo la barriera che separa la cattedra dal banco e dei banchi tra loro: abbiamo così creato un unico grande tavolo intorno al quale ci siamo concentrati e sulla base di un incipit da me scelto “Io nacqui….” si è dato l’avvio a tante narrazioni che, reinventando la realtĂ , sono partite dall’atto della nascita di ciascuno, dell’ attesa di tale evento e di ciò che si è detto e pensato mentre ognuno di loro emetteva il primo vagito.

L’obiettivo primario di tale attivitĂ  è quello di sviluppare il pensiero creativo divergente attraverso una “scrittura inedita” e che rende “narratori e romanzieri in erba” giovani adolescenti che usano sempre meno la penna per comunicare e che hanno ben presto scoperto come la propria penna, invece, sapesse scorrere veloce sul foglio e come storie lontane nel tempo o che sembrava impossibile conoscere, prendessero forma generando un gran senso di piacere.
(Fonte foto: Rete Internet)

OSSERVATORIO ADOLESCENTI

“TESTIMONIARE, FACENDO BENE IL PROPRIO LAVORO”

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In questo dialogo, i personaggi del prof. Giovanni Ariola lanciano precisi segnali, delle parole d”ordine, per reagire a disastri come i crolli negli scavi di Pompei.

Sono le otto del mattino. Il prof. Carlo siede al suo solito posto nella sala lettura della biblioteca dell’Istituto dove ogni mattina sfoglia i giornali prima di iniziare il suo lavoro. Oggi sarĂ  una giornata alquanto gravosa: ha da terminare il suo contributo mensile da spedire a “Lingua Nostra”, dovrĂ  presiedere una riunione con i coordinatori dei vari dipartimenti e per finire, nel tardo pomeriggio, dovrĂ  tenere una lectura Dantis agli studenti di uno dei due Licei Linguistici cittadini.

Avverte una strana stanchezza sulle spalle, di cui conosce bene sia la natura che l’origine che vanno, l’una e l’altra, ben oltre le “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero” di George Steiner (Garzanti, 2007) . Lo perseguita da qualche giorno e gli paralizza cervello e mano. Guarda fuori dalla finestra: ad ottobre che è stato per lo più caldo e luminoso è subentrato un novembre uggioso, con quel taglio brusco alle ore di luce per il ritorno all’ora solare, con lo struggimento del cadere delle foglie che mette nell’animo con la tristezza una voglia di fuggire e di sottrarsi alla luciditĂ  della propria coscienza; e stamane lo scirocco, ci voleva lo scirocco con il suo soffio caldo estenuante e quei cambi continui repentini nella volta celeste.

Non si accorge di Annella che è entrata, silenziosa come sempre, a fare il cambio dei giornali nell’apposita scaffalatura. Se la ritrova a lato che gli chiede se vuole prendere quelli, tra i quotidiani, che abitualmente legge.
– Perché tu? – le chiede sorpreso – E Antonio?
– Non si ricorda che Antonio era stato assunto per soli tre mesi, in sostituzione di Raffaele andato in pensione a giugno scorso e in attesa che bandissero un concorso?… non solo non è stato bandito nessun concorso, ma per giunta la nomina ad Antonio non è stata rinnovata e si rischia che il posto rimarrĂ  vacante per sempre…anzi corre voce che qualcun altro di noi con nomina a tempo determinato sarĂ  a breve mandato via…buona giornata …mi scusi professore…

Va via Annella con passo svelto per nascondere le lagrime che non riesce a trattenere.
Il prof. Carlo non ha la forza e neppure la voglia di aprire i giornali e immobile continua a guardare fuori, ma senza vedere niente.
A scuoterlo è il prof. Eligio che, senza neppure dire buon giorno:

– Hai visto che disastro? – dice mettendogli sotto gli occhi il giornale con la foto a colori della Schola Armaturarum (dove la gioventù pompeiana si addestrava alle armi) di Pompei, ossia delle macerie che ne restano dopo il crollo avvenuto il giorno prima – Che vergogna! Quanto disonore per l’Italia in tutto il mondo! E in contemporanea l’alluvione nel Veneto …e nel Salernitano…e in Calabria. Da una parte la furia degli elementi naturali e dall’altra l’incuria, l’incultura, l’insipienza e l’irresponsabilitĂ  degli uomini stanno distruggendo un patrimonio artistico e ambientale che costituisce la nostra maggiore ricchezza, il nostro ineguagliabile tesoro, che, non ci stancheremo mai di ripetere, tutto il mondo ci ha sempre invidiato e ci invidia…

– Continuate, continuate pure a indignarvi a disastro avvenuto – interviene il prof. Piermario che, entrato subito dopo il collega, ha fatto in tempo ad udire la sua tirata polemica – continuate a riempirvi la bocca con i soliti luoghi comuni, le vostre frasi roboanti, quante volte le abbiamo udite e lette… fino alla nausea… ne abbiamo la pancia piena da scoppiare…ma, per favore, facciamo silenzio e, se proprio ci sta a cuore questo patrimonio artistico e ambientale, cerchiamo e troviamo il modo per dare un nostro contributo di idee, di azioni, di lotta e di lavoro per salvare il salvabile… ma prima che sia troppo tardi

– Che possiamo fare noi – ribatte il prof. Eligio – quale potere abbiamo per intervenire e cambiare anche minimamente certe situazioni che si sono incancrenite e alla fine continuano ad essere gestite da chi ha il mano il potere e non lo molla?
Testimoniare, ecco che cosa bisogna fare e soprattutto partecipare – quasi grida l’altro ed ha gli occhi di fuori – aggregarsi, anche a costo di “sporcarsi nella politica”, partecipare alle battaglie che le forze più consapevoli, più responsabili, più oneste stanno combattendo…Ci sono mille modi per poter dare il proprio contributo. Ho visto giovani e anche anziani prestare la loro opera volontariamente e gratuitamente nelle chiese, nei musei, nei siti archeologici, nei mille e mille palazzi considerati per se stessi opere d’arte e in più luoghi di conservazione di oggetti d’arte, per vigilare, custodire, accogliere i visitatori italiani e stranieri e fare loro da guida…

– Io dico – continua il prof. Eligio – che ognuno deve testimoniare facendo bene il suo lavoro… È questione di competenza…come si può pretendere, anzi, chiediamoci, è opportuno che io che mi intendo e mi occupo di letteratura, metta bocca sul sistema di difesa ambientale, ad esempio su come rafforzare gli argini di un fiume o su come salvaguardare i monumenti, le varie abitazioni nella Pompei antica o le torri di Bologna o la Domus Aurea a Roma? Insomma, voglio dire, non è meglio che i letterati facciano i letterati e i politici facciano i politici e i tecnici ciò che è di loro competenza?

– Questo è un altro luogo comune che ha fatto il suo tempo…Ognuno deve fare prima di tutto il cittadino e poi esercitare la sua professione o il suo mestiere…
– Ha ragione Vargas Llosa – dice convinto il prof. Eligio – quando scrive: “Una letteratura non può dipendere dall’inevitabile carattere pratico della politica; al contrario, in molti casi, serve a tirarci fuori dalla prassi che ci imprigiona…” (Mario Vargas Llosa, “Letteratura e politica”, Passigli Editore, 2005, p.12).

– Ma dice anche – puntualizza il giovane e focoso collega – “Credere che la letteratura non abbia niente a che vedere con la politica…equivale a considerare la letteratura come gioco, distrazione, semplice intrattenimento…se la letteratura si limita solo a questo e non si pone altri obiettivi, è condannata a impoverirsi e addirittura a scomparire.” (ivi, pp. 22-23).
– Noto – osserva il prof. Eligio – che il collega Carlo è stranamente silenzioso…non vuoi dirci come la pensi in proposito?

– Troppe sono giĂ  le opinioni e le parole in giro perché debba aggiungervi anche le mie – risponde con voce stanca l’interpellato – Vorrei solo, a proposito del grande narratore peruviano, meritatamente insignito quest’anno del Nobel, invitarvi a leggere le parole conclusive del suo scritto che sottolineano come “è importante che letteratura e politica, senza rinunciare alla loro identitĂ , con una consapevolezza precisa di quelli che sono i rispettivi limiti, si avvicinino e mantengano un’intensa dialettica…Uno scambio dinamico e critico che le arricchisca entrambe e le difenda dalla barbarie.” (ivi, p.47)

Ha parlato a fatica il prof. Carlo, segno evidente di uno stato di saturazione che rischia di diventare patologico. Si alza e se ne va al suo lavoro, mormorando tra sé e sé, come se fosse solo:
Occorrono soluzioni alternative…ma chi saprĂ  adottarle?… “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo/…C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire/ un tempo per tacere e un tempo per parlare/ un tempo per pensare e un tempo per agire…” (La Bibbia, Ecclesiaste, 3).

LA RUBRICA

IL DESTINO DELLA CITTÁ VESUVIANA

Iniziamo un nuovo viaggio intorno al Vesuvio. Stavolta però non saremo soli, la nostra guida sarà il prof. Girolamo Vajatica, che ci introdurrà in un affascinante quanto audace percorso verso la normalizzazione e il riscatto del Vesuviano.

L’ultima “emergenza” dei rifiuti a Napoli ci ha riportato nella realtĂ  estremamente variegata del Vesuviano e le sue problematiche dalla difficile risoluzione. L’alta densitĂ  abitativa alle falde del Vulcano è da record per cui tutto quello che altrove è risolvibile qui sembra, quanto meno, irrealizzabile; inoltre l’area in questione non è certo agevolata dalla sua posizione, all’ombra di un vulcano attivo che, nonostante la sua quiescente invisibilitĂ , sovrasta un’area di almeno 200 km² e di circa 600.000 abitanti.

Da sempre l’uomo ha voluto vivere assieme ai suoi simili, forse per esorcizzare le sue paure ma, animale sociale per eccellenza, lo ha fatto anche e soprattutto per collettivizzare talune attivitĂ  altrimenti irrealizzabili. Talvolta la necessitĂ  associativa è stata, più che per scopi economici, auspicata per mettere in comunione le idee e questo ha permesso che si creassero, soprattutto nel Nuovo Mondo realtĂ  urbanistiche figlie delle utopie filosofiche che volevano vedere oltreoceano il luogo vergine e più adatto ai nuovi insediamenti umani con il loro carico di idee innovative, libero dalle pregiudiziali morali e religiose che all’epoca imperversavano in Europa.

GiĂ  Platone nella sua Repubblica immaginava un mondo migliore così come il suo epigono Tommaso Campanella, che, come Thomas More teorizzò un governo retto dalla filosofia. Le Reducciones gesuitiche nel Paraguay , i kibbutz israeliani hanno provato, forse invano, a mettere in pratica un equo governo che si riflettesse anche in una struttura urbanistica ben ordinata; altri esempi si perdono nella vastitĂ  della nostra ignoranza, ma tutti hanno cercato in qualche modo di sradicare il vivere quotidiano da quei preconcetti che ne frenavano lo sviluppo morale e culturale.

Oggi non sono in veritĂ  assenti nel panorama mondiale realtĂ  simili a quelle che videro i nostri progenitori impegnarsi per un mondo migliore. GiĂ  Brasilia la nuova capitale del Brasile moderno volle essere negli anni sessanta un qualcosa di innovativo, in base ai canoni della nuova architettura ma anche in questo caso, come in realtĂ  più piccole ma altrettanto emblematiche, questi esperimenti hanno rischiato di essere nient’altro che cattedrali nel deserto, e il nostro centro direzionale, fatte le dovute proporzioni potrebbe essere un utile esempio in tal senso.

Altre tipologie abitative scaturiscono poi dalla necessitĂ  di sfuggire ai ritmi frenetici delle cittĂ  e dal loro forte inquinamento ed ecco le nuove cittĂ  in stile ecologista come Dongtan nella Cina odierna, dove si seguono tutti i crismi dell’ecocompatibilitĂ . Esistono comunque progetti che vanno invece nel senso opposto, cavalcando l’onda speculativa e alle proverbiali cattedrali si sostituiscono i grattacieli nel deserto o le isole artificiali, come quella di Dubai.

In questa tendenza all’elevazione degli stili di vita, rientriamo alle nostre latitudini per applicarlo proprio all’anello che circonda senza soluzione di continuitĂ  il complesso vulcanico Somma-Vesuvio. Lo scopo di quest’articolo e soprattutto di quelli che lo seguiranno sarĂ  quello di esaminare una soluzione concreta del rischio vulcanico in questa zona, rappresentato in particolar modo dall’alta densitĂ  abitativa e dalla carenza di un piano d’evacuazione realmente applicabile e che soprattutto tenga conto di una realtĂ  tanto complessa quanto mutevole.

I prossimi articoli saranno un dialogo tra noi e il professor GirolamoVajatica promotore del "Progetto Vesuvio". Tale progetto che ha ottenuto nel 2006 l’avallo dell’Unione Europea, vuole, nel lungo periodo a disposizione, che si spera ci conceda Sterminator Vesevo, trasferire la “CittĂ  Vesuviana” altrove, in modo da scongiurare oltre che una prevedibile e immane catastrofe, anche favorire un logico e fisiologico fluire delle genti vesuviane altrove, in un luogo più sicuro e certo più vicino delle attuali mete previste dal piano d’evacuazione.

Gli argomenti dei prossimi articoli:
• Strategie e piani di fuga
• Il progetto Vesuvio
• Conclusioni

Post Scriptum
Alla rubrica riserveremo uno spazio Forum dedicato ed esclusivo, per avviare ed alimentare un dibattito che sembra troppo sopito – quello sul (rischio) Vesuvio appunto – ma che merita la massima attenzione. Non per esorcizzare il rischio, né per fomentare le preoccupazioni ma per individuare una terza via che rappresenti la soluzione del problema, che sia seria, concreta, fattibile, possibile: la CittĂ  Vesuviana.
L.P.

IL FALLIMENO EDUCATIVO DEI GENITORI

La Corte di Cassazione ha riconosciuto colpevoli di Culpa in educando i genitori di un giovane, autore di un omicidio.

Con questo articolo inauguriamo sul nostro giornale una nuova rubrica il cui scopo è quello di fare il punto giuridico nel rapporto tra Scuola e Famiglia. Perché questa esigenza? Per la significativa rilevanza che hanno Scuola e Famiglia, per l’appunto. Termini che di solito scriviamo con l’iniziale maiuscola non certo per un refuso, ma per l’importanza che ricoprono in ogni tipo di societĂ  civile, da qualsiasi longitudine e latitudine si guardi il mondo.

In teoria, i due pilastri sociali non potrebbero non andare d’accordo, anzi, non potrebbero non declinarsi in una sorta di complicitĂ  silente e non occasionale. D’altra parte, il loro fine principale è la crescita, la formazione, l’educazione e la preparazione alla vita della progenie che i primi (le Famiglie) affidano ai secondi (la Scuola), che a loro volta alimentano la SocietĂ .
Eppure, se dalla teoria passiamo alla pratica di vita quotidiana, ci accorgiamo che le due istituzioni convivono come abitanti rissosi di un condominio chiassoso.

L’Avv. Alfredo G. Rosmarino, nel curare la rubrica, tratterĂ  di casi specifici e realmente accaduti, sui quali c’è stato il parere sovrano della Corte di Cassazione, le cui sentenze sono destinate a condizionare il corso dei rapporti tra cittadini.
Oggetto di analisi e divulgazione saranno argomenti che intersecano la relazione tra Scuola e Famiglia ma anche questioni che riguardano una sola delle due istituzioni, com’è il caso dell’argomento che trattiamo quest’oggi, e sul quale il pronunciamento della Cassazione ha provveduto a formare una giurisprudenza assolutamente nuova, adeguata ai tempi che viviamo ed alle esigenze che ne conseguono.
L.P.

La Corte Suprema nella sua vasta attivitĂ  si occupa anche dei problemi della scuola e della famiglia; in particolare essa interviene e statuisce in materia di culpa in educando e culpa in vigilando; tali ambiti sono di grande interesse per tutti i soggetti che operano nella scuola o che con la scuola hanno contatto, perché le pronunce in questione sono, comunque, destinate a condizionare i comportamenti degli operatori scolastici, dei genitori e della famiglia.

L’esigenza di trattare della culpa in educando e della culpa in vigilando, nasce dalla constatazione dei principi didattici ed educativi che la Cassazione mette in evidenza con le sue sentenze quando purtroppo si verificano degli incidenti di percorso.
Fatte queste dovute premesse passiamo a trattare della Sentenza 19 maggio – 28 agosto 2009, n. 18804: Culpa in educando con riferimento alla famiglia

Il caso
Tizio, omosessuale, da tempo importunava Caio, minorenne (anni 17), con profferte amorose, minacciando in caso di rifiuto, di diffondere la voce che era anch’egli omosessuale, di dirlo alla ragazza di lui ed, in ultimo, alludendo anche ad una passata relazione avuta con il padre di Caio. All’ennesima provocazione Caio reagiva e, in uno scatto d’ira, uccideva Tizio.

Con atto di citazione i genitori e le sorelle di Tizio convenivano in giudizio i genitori di Caio, esercenti la potestĂ  sul minore, chiedendo che venisse accertata la loro responsabilitĂ  per culpa in educando e chiedendone, quindi, la condanna in solido al risarcimento del danno per la morte del rispettivo figlio e fratello. Il tribunale, riconosciuta la responsabilitĂ , condannava i genitori di Caio a pagare 250 milioni di lire ciascuno ai genitori di Tizio e 50 milioni di lire a ciascuna delle tre sorelle; soluzione accolta dalla Suprema Corte.

La responsabilitĂ  dei genitori di Caio non è da imputare ad un difetto di vigilanza, visto che lo stesso era vicino alla maggiore etĂ , ma questa deve essere individuata nell’inadempimento dei doveri di educazione e di formazione della personalitĂ  del minore. La Corte rileva, infatti, come le reazioni violente di Caio paiono peraltro aver tratto origine proprio da comportamenti dei genitori, ed in particolare del padre che, di fronte alle dicerie sulle sue frequentazioni omosessuali con la vittima, mai ha chiarito la propria situazione con il figlio lasciandolo in balia delle maldicenze, solo e indifeso davanti alle provocazioni della vittima e dell’ambiente, situazione da cui è poi scaturita la reazione di ribellione e di violenza.

In conclusione si può affermare che se il comportamento illecito del minore vicino alla maggiore etĂ  dimostra il fallimento educativo dei genitori, gli stessi sono civilmente responsabili dei danni cagionati dal figlio e si può sottolineare ancora una volta l’importanza dell’educazione dei genitori verso i propri figli, in particolare, l’obbligo di impartite al figlio un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini, alla sua personalitĂ .  

POMPEI CROLLA. NON AGITARSI PREGO…

Di fronte agli scempi di questi giorni, ci sia di conforto la saggezza dei filosofi. E dunque, convinciamoci che se una casa crolla, pare che crolli, ma in realtĂ  non si muove. O forse era giĂ  crollata:Di Carmine CimminoVedo in tv le briciole della pompeiana Casa delle armature, che si è sfarinata nella pioggia, e resto impassibile: non mi muovo, non mi sbatto, non mi agito. La mente mi dice che un insegnante di latino e di greco, anche se in pensione, dovrebbe dir qualcosa, lamentarsi, possibilmente in greco o in latino. Ma il sentimento è freddo e muto. Una decina di anni fa, proprio davanti alla casa delle armature, feci fatica a convincere un giovane e valente collega che il piatto forte della dieta dei gladiatori era la zuppa d’orzo.

La zuppa d’orzo? Ma che dici? Il valente collega immaginava tavole imbandite con arrosti di pavone e cinghiali interi: così si vede nei film in costume e nei cartoni di Asterix. E invece, zuppa d’orzo: tanto che i gladiatori erano chiamati, da chi li disprezzava, hordeari, mangiatori d’orzo. L’orzo purificava lo stomaco e il sangue, nutriva senza ingrassare. E i gladiatori, anche quelli pesantemente armati, dovevano essere lucidi e vigili: la carne e il vino intorpidivano, afflosciavano l’energia, smussavano e ottundevano il filo di quella ferocia che è necessaria per chi deve uccidere per non essere ucciso. Poiché il nostro tempo si è specializzato nello scoprire l’acqua calda, alcuni studiosi hanno scoperto, dopo analisi studi rilievi e prelievi, che i gladiatori erano vegetariani. Non so se fossero vegetariani nel senso che noi diamo alla parola: ma pare ovvio che seguissero la dieta degli atleti, fondata sulle verdure.

Il nuovo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, sono riuscito a leggerlo fino a pag. 44, fino al secondo corridoio di una trama che vorrebbe essere il Labirinto Perfetto. I labirinti di carta mi sono venuti a noia: mi bastano quelli della vita quotidiana. A pag. 17 il protagonista del romanzo dice d’essersi fatto francese perché non poteva sopportare d’essere italiano: e poi aggiunge che Dumas piaceva a napoletani e a siciliani perché essi sono mulatti come Dumas: "mulatti non per errore di una madre baldracca ma per storia di generazioni", avendo preso il peggio di ciascuno degli antenati, "dai saraceni l’indolenza, dagli svevi la ferocia, dai greci l’inconcludenza e il gusto di perdersi in chiacchiere sino a spaccare un capello in quattro".

Questo dice il protagonista del romanzo, e non credo che Eco sia d’accordo con il suo personaggio, soprattutto sull’inconcludenza dei greci. Non dovrebbe essere d’accordo nemmeno sulla ferocia degli svevi. La radice della ferocia stava dentro i napoletani da molto prima che arrivassero gli svevi. La figura del gladiatore e i combattimenti nell’arena vennero inventati dai Sanniti e da quegli Osci che abitavano nella pianura nolana: un popolo di simpaticoni che amavano frizzi lazzi e battute di spirito, e anche lo spettacolo crudele di un combattimento all’ultimo sangue. E forse queste passioni, che pure sembrano così contraddittorie, per le battute di spirito e per i colpi di grazia, sono le varianti della stessa passione. Dunque i gladiatori mangiavano zuppa d’orzo, zuppa di cavoli, e rafano: nel rafano e nei cavoli i medici antichi vedevano miracolose virtù.

Poiché Eros e Morte spesso vanno a braccetto, i gladiatori accendevano nelle donne gli impulsi di un ardente interesse. Questo interesse femminile ha una storia che si allunga fino ai nostri giorni, fino alle arene dei toreri, ai ring dei pugili, alle celle dei padrini di mafia e di camorra, e dei criminali più spietati: è un tema che letteratura e cinema hanno cotto in tutte le salse, ma forse senza mai trovare la salsa che fosse capace di rendere, nemmeno alla lontana, il sapore della cruda realtĂ . I gladiatori di Pompei hanno registrato in alcune iscrizioni la loro vanitĂ  di amanti. Celadus, che combatteva da trace, dice di essere il sospiro delle fanciulle; il magistrato Decimo Lucrezio Valente trasmette alla moglie la sua passione per i combattimenti e per i combattenti, tanto che è lei che compra "Onusto, maestro nel combattimento a cavallo, e Sagato, un mirmillone".

Perfino il reziario Crescente si dichiara signore delle ragazze, medico delle bambole notturne, e forse anche di quelle mattutine. Dico perfino, perché i reziari non godevano di buona stampa: combattevano quasi nudi, armati solo di una rete da pesca in cui cercavano di imbrigliare l’avversario, e di un tridente: e perciò la loro tattica di combattimento era fatta di mosse agili e di schivate, e di movimenti in cui gli spettatori percepivano una nota di effeminatezza. Penso alla ricca simbologia dei gesti che costituivano il linguaggio dell’arena, penso alla figura del lanista, il padrone procuratore della scuderia dei gladiatori, un venditore di carne da macello, un magnaccia; penso alle scuderie famose di Capua.

Nel 59 d.C. Livineo Regolo diede a Pompei uno spettacolo di gladiatori: è probabile che scendessero nell’arena anche gladiatori della scuderia di Nocera, perché sugli spalti c’erano molti Nocerini. Questi provinciali, dice Tacito, questi cafoni, prima incominciarono a insultarsi, poi a lanciar pietre; infine estrassero i pugnali, ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, che giocava in casa. Tra i Nocerini ci furono molti morti e molti feriti. Il senato romano squalificò l’anfiteatro di Pompei per dieci anni, e mandò in esilio i responsabili della battaglia. Ma non i molti bettolieri che intorno all’ anfiteatro vendevano vino adulterato. Forse Curzio Malaparte aveva ragione: Napoli è la sola cittĂ  antica sopravvissuta tutta intera, con tutti i suoi abitanti, fino ad oggi.

Non ha senso agitarsi. Il ministro dice che c’è il rischio che altri edifici pompeiani si sfarinino. Vedo in tv una strada che il Sarno, ad ogni pioggia, allaga: sempre nello stesso punto: da sempre, da quando c’è il Sarno. E nessuno fa niente. La storia è storia: non si tocca. Sento dalla tv che le discariche sono piene, e mi pare che si potesse giĂ  prevedere, nel giorno in cui vennero aperte, in quale giorno si sarebbero colmate. Leggo che gli scavi di Elea Velia sono coperti di melma, che nessuno ha ancora tirato fuori dal pozzo sacro i resti di un gatto che vi è annegato tempo fa, e leggo che un masso blocca l’accesso alla Porta Rosa.

Tra quelle mura un giorno un filosofo concluse che il movimento non esiste, che è un inganno dei sensi: e dunque una casa che crolla pare che crolli, ma in realtĂ  non si muove. Forse era giĂ  crollata, quando noi la vedevamo in piedi. Un allievo di quel filosofo aggiunse, di suo, che una freccia scoccata contro un bersaglio non lo raggiungerĂ  mai, nemmeno se il bersaglio è grande come un palazzo, anche se la freccia è stata scoccata da un centimetro. Un giorno di alcuni decenni fa il nostro professore di greco e di latino ci spiegò, limpidamente, cosa avessero voluto dire Parmenide e Zenone, quale profonda veritĂ  ci fosse in quei concetti che ci sembravano assurdi. In tre ore ci fece capire molte cose, forse troppe, e forse bruciò troppo presto qualche illusione, di cui avremmo avuto ancora bisogno.

In Campania scoppiò la prima rivolta degli schiavi, e la guidò un gladiatore. I Romani furono spietati contro i ribelli. Ma i condottieri vincitori di Spartaco morirono, anni dopo, di una morte ingloriosa. Il demone della storia è un demone paziente, ironico, e crudele. E se uno merita l’uorgio p’’a tosse, glielo dĂ . Viene sempre il giorno che glielo dĂ . L’uorgio p’’a tosse. L’orzo per la tosse. Ma che significa questa sarcastica espressione napoletana? Alla prossima.
(Fonte foto: Rete Internet)

L’OFFICINA DEI SENSI

LA FORZA DELLE PAROLE

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Lo slang è il nuovo dialetto dei giovani che può inserirsi nella complessitĂ  della lingua madre. Nasce però l”esigenza di governare il cambiamento culturale con istituzioni credibili e all”altezza del compito. Di Luigi Jovino

“Le parole sono pistole cariche” dicono i filosofi francesi, mentre per Roberto Benigni “Quando un uomo con la biro incontra uno con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto”. Le attenzioni degli intellettuali si sono concentrate questa settimana sui due “assunti” che si intersecano e si completano. Le parole sembrano prendersi la rivincita sulle immagini, almeno nelle intenzioni dei loro sostenitori più accaniti e colti. C’è da dire che sul valore, sul significato, sulla “manomissione” delle parole oggi si fa un gran discutere, proprio quando viene considerato segno di decadenza l’impoverimento del linguaggio e la drastica riduzione dei termini usati dai giovani.

Più che regole grammaticali, lessicali e sintattiche arricchite dalla esperienza storica di retori, poeti e cantori, oggi, i giovani sembrano preferire “Il gergo” che è una sorta di pensiero comunicato “password”. Troppo abbreviato. Immediato ed efficace. Tvb, sms, pin, xrchè, 6 buono, ecc. suonano come raffica di mitraglia, diffuse a raggiera. Un solo colpo di grilletto cento parole. Ma le pistole si caricano non solo con parole a pallettoni, come pretendono i filosofi francesi. Dalla globalizzazione, infatti, arrivano nuove armi di “distrazione” di massa. Ancora più roboanti. Forse più distruttive. Si potrebbe pensare che così come sono state annullate le distanze, grazie al “tempo reale”, la semplificazione del linguaggio vuole accorciare i tempi, proponendo una comunicazione immediata e globale.

La più veloce possibile. Non vorrei suscitare le ire dei puristi e dei docenti che si battono quotidianamente per il buon uso della grammatica, ma vorrei far notare che non tutte le mode nascono a causa di processi degenerativi. Lo “slang” quando è sostenuto da una necessitĂ  può addirittura essere formativo. Mi ha fatto piacere sapere che c’è un linguaggio particolare, quasi sconosciuto ai più, usato dagli uomini che lavorano nei porti del Mediterraneo. Tutti usano le stesse parole da Napoli, a Marsiglia; dal Cairo a Madrid. Una specie di esperanto dei poveri. Una forma di cultura sommersa, ma egualmente efficace. Di questa esperienza ha fatto tesoro Pino Daniele nella prima fase della sua produzione artistica fortunata.

Lo slang potrebbe essere considerato appunto una forma nuova di linguaggio. Un dialetto dei giovani, inserito fra la complessitĂ  delle espressioni regionali con la sola esigenza di accorciare i tempi. La madre lingua italiana, non avrĂ  problema a metabolizzare la nuova forma di linguaggio. Ha mantenuto inalterati i suoi eccelsi valori culturali perchè è strutturata per inglobare nella sua stessa essenza le esperienze comunicative geografiche più disparate e originali. La lingua italiana ha un grande valore proprio per questo. Ed il nostro vocabolario è un sistema aperto e flessibile che considera tra i suoi parametri l’evoluzione dei termini ed il loro aggiornamento singolare. Il problema reale, però, resta sempre quello del governo dei processi culturali.

Fino a quando in Italia ci saranno ministri che considerano conveniente farsi un panino con la “Divina commedia”, qualsiasi innovazione avrĂ  vita difficile. Assisteremo a crolli dell’unitĂ  linguistica nazionale, meno roboanti di quello della casa dei Gladiatori di Pompei ma lo stesso significativi, se non ci saranno le istituzioni culturali, la scuola, le universitĂ  a gestire questo processo di innovazione e di integrazione. Delicato ed inarrestabile. Naturalmente un ruolo decisivo dovranno giocarlo i mass media, quando finalmente saranno liberi dalla politica, dalle ingerenze economiche e quando finalmente sapranno proporre canali pubblici orientati sulle funzione formativa e culturale.

Per gente che non può vantare nel suo armamentario “Parole pericolose come una pistola carica”, diventa un azzardo persino avventurarsi su questi ordini di problemi. Ci sono istituzioni culturali e uomini che hanno studiato una vita proprio per questo. Ad essi spetta l’ultima “parola”. Ci sia permesso, però, con l’approssimarsi delle feste di Natale di sparare a salve almeno un tric-trac.
 

(Fonte Foto:Rete Internet)

“I GIOVANI CATTOLICI LAICI DEVONO INTERESSARSI DI POLITICA”

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Ad Assisi l”Assemblea dei Vescovi italiani. Nella prolusione del cardinale Bagnasco l”attuale rapporto della Chiesa italiana con la politica e un invito: “I cattolici si impegnino nella vita pubblica”. Di Don Aniello Tortora

Si tiene questa settimana, ad Assisi, la 62^ Assemblea dei Vescovi italiani. Nella sua Prolusione il cardinale Bagnasco (foto) ha toccato temi molto importanti.
Ne cito alcuni. Innanzitutto ha richiamato “ il felice esito della recente Settimana sociale, convocata a Reggio Calabria nel mese di ottobre”.

È passato, poi, a riflettere sull’attuale momento politico, affermando: ”Nel contempo, vorrei segnalare come stia progressivamente emergendo, dal vissuto delle nostre Chiese, un approccio che ci pare sempre più consapevole – dunque meno imbarazzato e scevro anche da manicheismi – verso la dimensione politica, per ciò che essa è, e per quello che esprime ai vari livelli. Non c’è dubbio che si sia passati da un atteggiamento più preoccupato della denuncia, spesso anche veemente o semplicistica, ad un approccio più articolato ai problemi, seppure non meno pervaso di tensione etica e di slancio verso il futuro. La politica è esigente anche perché richiede un’attitudine di analisi che va acquisita con l’applicazione, così da superare un certo genericismo, e approdare invece a visioni più pertinenti e più incalzanti sui problemi, non per questo però meno attente sotto il profilo morale”.

Centrale, a mio avviso, il riferimento ai cattolici laici, soprattutto giovani, cui deve interessare la politica.
Così ha precisato: ”SarĂ  bene che nel prossimo futuro ci si interroghi su come, alla luce delle esperienze fatte, si possa procedere per favorire la maturazione spirituale e culturale richiesta a chi desidera servire nella forma della politica, e così preparare giovani all’esercizio di quella leadership che difficilmente può essere improvvisata. Dunque, la politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalitĂ  un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto. Famiglie in difficoltĂ , adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia, sono situazioni che continuano a farsi sentire con accoratezza”.

Ha continuato, ancora, Bagnasco: “Finché infatti non si profilano condizioni realistiche di una maggiore stabilitĂ  per il Paese intero, è comprensibile che si avverta una sorta di esitazione e di diffusa incertezza. Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa, cade lo slancio partecipativo, tutto diventa pesante e contorto, ma soprattutto viene meno quella possibilitĂ  di articolata e dinamica compattezza che è assolutamente necessaria per affrontare insieme gli ostacoli e guardare al futuro del Paese”.

Concludendo il suo discorso, Bagnasco ha messo tutti in guardia, infine, da alcuni seri rischi, così ribadendo: “Dicevamo – un mese e mezzo fa – che, nel nostro animo di sacerdoti, «siamo angustiati per l’Italia» che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato. Non abbiamo peraltro suggerimenti tecnico-politici da offrire, salvo un invito sempre più accorato e pressante a cambiare registri, a fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise. Non è più tempo di galleggiare. Un rischio – lo diciamo con un senso di apprensione profonda –, è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte”.

“Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unitĂ  – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale. Mentre tuttavia si fa quest’ultimo esame di coscienza, è possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno che il Paese non potrebbe non apprezzare”.

In questo confuso e critico momento politico, la Chiesa ancora una volta si sente vicina all’intera nazione e continua a dare il suo contributo feriale per la giustizia e la pace, richiamando l’intera classe politica a perseguire il bene comune, oltrepassando gli interessi di parte.

LA RUBRICA

IL GOVERNO SALVA LE ESCORT MA NON LE PROSTITUTE

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Mentre galleggiano le notizie relative ai presunti scandali sessuali del premier, il governo si impenna e vara un nuovo “Pacchetto sicurezza”, in cui si prevede l”arresto per prostitute e clienti. Di Simona Carandente

Non smettono di stupire le riforme varate dal Consiglio dei Ministri attraverso i cd. "pacchetti sicurezza", che di recente hanno inciso sulla vita sia di svariati istituti del codice di rito, che di quella di particolari categorie sociali. Tra questi, ad esempio, gli stranieri non muniti di regolare permesso di soggiorno, gravati da una politica tutt’altro che assistenzialistica e finalizzata, in buona parte, al rimpatrio presso i paesi di origine.

Tra le misure varate dal Consiglio, e suscettibili di far parte del nuovo complesso di disposizioni per la pubblica sicurezza, fanno scalpore quelle contro la prostituzione, esercitata esclusivamente nei luoghi pubblici, con possibilitĂ  di arresto fino a 15 giorni dei clienti stessi ed espulsione dal paese delle stesse "lucciole".
In un momento storico di particolare interesse per i numerosi scandali che lo vedono coinvolto, il premier ha annunciato in questi giorni il giro di vite sulla prostituzione, facendosi portavoce di quanto deciso poco innanzi nel Consiglio che, a tutti gli effetti, rappresenta.

Non può che far sorridere lo stridente contrasto tra il destino delle povere malcapitate dell’Est, della Nigeria, di tutte quelle prostitute di strada rese schiave a tutti gli effetti, a confronto con le ben più note "escort", identificate con una terminologia di stampo anglosassone che, nel caso di specie, suona quasi come una beffa. Il provvedimento difatti, com’è facilmente intuibile, non le menziona minimamente, implicitamente legittimandone l’attivitĂ  a discapito delle colleghe meno fortunate, di sicuro meno avvenenti e, per ciò solo, meno meritevoli di una tutela legislativa.

Nelle parole del ministro Maroni, il secondo "pacchetto sicurezza" prevederĂ  anche la possibilitĂ  di applicare la misura di prevenzione, nel caso di specie il foglio di espulsione, nei confronti di chi eserciterĂ  la prostituzione in strada, sulla pubblica via. In quelle del ministro Carfagna, non si tratterebbe altro che di misure giĂ  approvate nel lontano 2008, in attesa che il Parlamento le vagliasse formalmente. Come a dire, non vi è alcun legame tra la riforma ed il momento politico attuale. Formalmente il provvedimento, che vieterebbe l’esercizio della prostituzione in tutti i luoghi pubblici, nasce per togliere linfa "alle organizzazioni criminali che lucrano sul corpo delle donne, giovanissime e straniere".

Per i trasgressori, siano essi clienti che esercenti, previsto l’arresto da 5 a 15 giorni e l’ammenda da 200 a tremila euro. Per le lucciole prevista anche la possibilitĂ  di giungere all’espulsione attraverso il foglio di via obbligatorio.

Peccato che tale ultima misura sia palesemente in contrasto con la Convenzione Europea, varata nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, che prevedeva misure atte non solo per proteggere le vittime dello sfruttamento della prostituzione, ma addirittura ad invogliarle a denunciare all’autoritĂ  giudiziaria i propri sfruttatori. Parole che, ora come ora, suonano quasi come una beffa. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

AVANTI CON GLI INCENERITORI!

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Alla fin fine, le proteste dei cittadini sono servite a giustificare la nascita “necessaria” di nuovi inceneritori. Quanto alle malattie, c”è pure la risposta bella e pronta: “Prima o poi dobbiamo pur morire!”. Di Amato Lamberti

Amen. E così sia. L’ultima, in ordine di tempo, emergenza rifiuti è servita perfettamente allo scopo per il quale era stata programmata: costruire due, anzi tre, nuovi termovalorizzatori in Campania.
Le delibere di Napoli e di Salerno sono giĂ  pronte, le aree sono state individuate, le imprese che li costruiranno sono sempre le stesse, capofila la Impregilo, vale a dire la Fiat. Tra poco cominceranno i lavori,un po’ di gente troverĂ  lavoro, cominceranno a girare soldi in una situazione di ristagno dell’economia e degli investimenti, tutti saranno felici al solo pensiero di non essere più sommersi dai cumuli di rifiuti.

Per un paio di anni ci sarĂ  ancora bisogno di mandare la "monnezza" in qualche discarica in Campania, in Sicilia, in Puglia, in Germania, in Cina: non importa, tanto a pagare sono sempre i cittadini. Ma la costruzione dei termovalorizzatori terrĂ  tutti buoni: pochi anni di sacrifici e poi non sentiremo più parlare di rifiuti, di Napoli invasa dai sacchetti di immondizia, della camorra che cavalca le proteste dei cittadini; ci penseranno i termovalorizzatori a fare sparire tutto, a ridarci una dignitĂ  e una faccia presentabile.

Per questo, per essere proprio sicuri, ne costruiamo qualcuno più del necessario, non si può mai sapere; e, poi, potremo sempre aiutare qualche altra regione meno virtuosa della nostra e fare soldi incenerendo i loro rifiuti sul nostro territorio. I sindaci della Campania, cominciare da quelli di Napoli e Salerno, si fregano le mani al solo pensiero delle "compensazioni" in denaro sonante che gli permetteranno di compensare i buchi di bilancio creati dalla loro dissennata amministrazione. Tutti vorrebbero partecipare al banchetto e vedrete quanti si candideranno ad ospitare sul loro territorio nuovi inceneritori.

Il primo segnale lo ha giĂ  dato il sindaco di Somma Vesuviana, ma sono molti quelli che sono entrati in fibrillazione. Visto che si possono costruire perché anche noi non possiamo? Fine delle discussioni. Sono nati anche i "comitati per il sì"; questa è la vera cittadinanza attiva e responsabile. Chi continua a parlare di "cancrodiffusori" è solo un disfattista irresponsabile che non vuole che si risolvano i problemi, quando non fa il gioco dei poteri criminali. Gli organi di informazione, stampa e televisioni, sono stati schierati a difesa delle scelte del Governo e di Confindustria e di "scienziati" disponibili a sostenerle se ne trovano sempre di più.

Basta discutere, basta inseguire favole come la raccolta differenziata, il riciclo, il riuso; il rifiuto è solo e unicamente un ottimo combustibile per alimentare impianti per la produzione di elettricitĂ . I cittadini hanno bisogno di elettricitĂ ; le industrie hanno bisogno di elettricitĂ ; lo sviluppo del Mezzogiorno e dell’intero Paese ha bisogno di elettricitĂ ; il progresso tecnologico, le nuove tecnologie informatiche, digitali, virtuali, hanno bisogno di elettricitĂ : termovalorizzatori e centrali nucleari sono la risposta al bisogno di elettricitĂ  e alla necessitĂ  di riequilibrare la bilancia dei
pagamenti.

Non daremo più soldi ai petrolieri per acquistare combustibile: ne abbiamo fino troppo con tutti i rifiuti che produciamo. Ai cittadini che chiedono di essere riassicurati anche per quanto riguarda la loro salute, rispondono: (1) che abbiamo il sistema sanitario migliore del mondo e che dobbiamo sostenerlo anche con le entrate dell’incenerimento dei rifiuti; (2) che prima o poi dobbiamo morire, non possiamo certo vivere in eterno.
(Fonte foto: Rete Internet)

POLITICA E CAMORRA