Le ricette di Biagio: pasta alla contadina. Quando i maccheroni erano un dolce…..

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Nei “bandi” dei viceré di Napoli nel ‘500 i maccheroni – uno “sfizio” di cui la gente poteva  fare tranquillamente a meno nei momenti di crisi – vengono citati con le zeppole, i taralli e i susamielli.  Come “piatto dolce” i maccheroni sono descritti non solo nei trattati di gastronomia del ‘500, ma anche da poeti e scrittori napoletani, dallo Sgruttendio e dal Basile. L’importante libro di Emilio Sereni.

 

Ingredienti: gr. 400 di pasta corta rigata, ml. 500 di passata di pomodoro, gr. 150 di olive di Gaeta snocciolate, gr. 250 di pancetta affumicata tagliata a cubetti, 1 spicchio di aglio, olio d’oliva, origano e peperoncino. In una padella, fa’ cuocere in un filo d’olio lo spicchio d’aglio e il sugo; dopo un quarto d’ora aggiungi i cubetti di pancetta, mescola accuratamente, e, dopo aver “calato” le olive di Gaeta, continua ad amalgamare. A fine cottura, insaporisci con il sale, con l’origano e con il peperoncino. La pasta, che hai fatto cuocere a parte, versala nella padella, dopo averla opportunamente scolata, e falla “saltare” sulla fiamma vivace. Infine, porta in tavola il “piatto” delicatamente coperto da un “velo” di parmigiano ( sito: giallo zafferano).

 

Gli “chef” di grande nome usano le olive taggiasche, Biagio preferisce quelle di Gaeta, in onore del Sud, e anche perché  il loro sapore vinoso va a integrarsi, attraverso la pancetta e l’origano, con quello del peperoncino.  Questa pasta è “alla contadina”, perché, dicono gli esperti, i contadini potevano procurarsi agevolmente quasi tutti gli ingredienti: ma c’è chi pensa che il nome sia stato dettato dalla diffusa convinzione  che i contadini di un tempo venivano attratti dai sapori forti. In uno splendido libro, “I napoletani da mangiafoglie a mangiamaccheroni”, Emilio Sereni scrive che il Pontano non cita i maccheroni in nessuna sua opera: come alimenti tipici dei Napoletani egli indica, nella “Lepidina”, le pizze, le torte “buccellate” e gli “intorti taralli”. Eppure, i maccheroni erano già noti: lo dimostra un “Bando” del 25 gennaio 1509 con il quale il Viceré dispone che, “quando la farina saglie per guerra, o carestia, o per indispositione di stagione” e arriva a costare più di 5 carlini al tomolo (circa 16 kg.), è vietato “fare taralli, susamelli, zeppole, maccarune, vermicelli e altra cosa de pasta eccetto in caso di necessità dei malati”. E’ il documento più antico sui maccheroni intesi come tipo di pasta: come soprannome, “maccarone” è presente a Cava dei Tirreni già nel 1041, e nel 1380 i “Giornali” del Duca di Monteleone parlano di “messer Nicola Maccarone di Capri”. “Maccarone” è il soprannome anche di Cicco de Angelo, uno dei dieci napoletani condannati a morte nel 1622, per i tumulti avvenuti quando era viceré il cardinale Zapata. Il bando del 1509 venne confermato anche nel 1546 e nel 1549, anni di guerre e di impennate dei prezzi non solo della farina, ma anche degli ortaggi. Dunque, argomenta il Sereni, i maccheroni fin quasi alla metà del Cinquecento sono “ un manufatto di pasta che non ha, evidentemente, una parte decisiva nell’alimentazione dei Napoletani, ma che – come i taralli e le zeppole – soddisfa un loro sfizio, un loro gusto voluttuario, al quale senza eccessivo sacrificio si può rinunziare in tempi di carestia.”. Il fatto che in quei bandi i maccheroni sono citati insieme ai taralli, alle zeppole e ai susamielli indusse Prezzolini a ritenere – “un grossolano errore”- che quei caratteristici dolciumi napoletani fossero una “qualità di paste alimentari”. Era vero, in parte, il contrario: i libri di cucina del Quattrocento e del Cinquecento, e tra questi anche l’ opera di Cristoforo di Messisbugo, indicano i maccheroni come “piatto dolce”, portato in tavola tra le “quarte vivande”, e cioè tra i dolciumi. Come “piatto dolce” i maccheroni sono presentati dallo Sgruttendio (sec.XVII) nel sonetto “Maccarune donate da Cecca: “ Me deze no piatto Ceccarella / de cierte saporite maccarune, / semmenate de zuccaro e cannella, / cosa da fa sperire le pperzune./…. Io me ne fice priesto due voccune / e le mannaie deritto a le budella /….Ammore m’ha pigliato pe la canna”. E il Basile sentenziò: “tre so le cose che la casa strudeno, / zeppole, pane caudo e maccarune”. Dunque, la filosofia napoletana dei maccheroni, di cui parlò Leopardi, parte da lontano, e ha radici “dolci”.

(FONTE FOTO:GIALLOZAFFERANO)