I complessi significati di “pettola” e “pettolella”si snodano lungo un percorso linguistico che porta alla parola “più napoletana”: pizza. La forza serena dei maccheroni e la luminosità dell’olio e del vino del Vesuvio rischiarano il magico sapore dei porcini vesuviani, a cui la tradizione alta e quella popolare attribuiscono virtù prodigiose.
I porcini del Somma-Vesuvio “fanno arrizzà’ ‘e capille’ ncapo pure a chi nun ‘e tene”.
Ingredienti (per 4 persone): gr. 400 di pennette; gr.300 di porcini “vesuviani”; olio d’oliva del Vesuvio; 1 spicchio d’aglio; un bicchiere di Vesuvio bianco; mezza cipolla; un mestolo di brodo; un cucchiaio di farina; prezzemolo; provolone del Monaco grattugiato; sale. Mettete in un tegame l’olio, l’aglio e la cipolla tritata alla grossa: quando il tutto sarà dorato, togliete l’aglio, calate i funghi tagliati a fettine, mescolate con calma e a lungo, cospargendo le fettine con abbondante prezzemolo. Quando vedrete che i funghi, avendo perso acqua, si sono “arrognati”, e cioè si sono rimpiccioliti, bagnateli lentamente con il vino e poi, a intervalli, con cucchiaiate di brodo, in alcune delle quali aggiungerete la farina. Rigirate il tutto a lungo e delicatamente, e intanto incominciate a lessare la pasta. Quando la cottura dei funghi sarà giunta a perfezione, versate nel tegame le pennette al dente, lasciate che prendano sapore nel sugo. Servite in tavola, dopo aver cosparso il “piatto” con il provolone del Monaco grattugiato.
Biagio Ferrara
La tradizione dei poteri miracolosi dei funghi ha radici antiche, ed è di struttura complessa, perché alle virtù comuni a tutti i funghi e note a tutte le fattucchiere abbina i pregi specifici dei porcini: i quali pregi diventano prodigiosi se i porcini sono quelli del Somma – Vesuvio. La lava di fuoco, si sa, può essere letta in molti modi, e una lettura piacevole e vantaggiosa era quella che per anni venne recitata, all’ingresso di via Giacomo Savarese, a Napoli, proprio di fronte alla Stazione Centrale della Vesuviana, da un arzillo vecchietto di Ottaviano – lo chiamavano tutti zi’ Giovanni, se la memoria non mi inganna –, il quale invitava i passanti a comprare i suoi porcini “vesuviani”, sistemati in due, tre cestini, proclamando, con un filo di ironia nella voce, che “anche l’addore ‘e ‘sti funge votta fuoco”- il solo odore di questi funghi già sprigiona fuoco -, “ e ‘sti funge fanno arrizzà’ ‘e capille ‘n capo pure a chi nun ‘e tene”. Questa “chiamata” non ha bisogno di spiegazione, ma non credo che l’arguto venditore di funghi si rivolgesse ai calvi e agli “scucciati”. Quei funghi erano un balsamo per i donnaioli “affaticati”.
Il donnaiolo i napoletani lo chiamano “sciupafemmene”, “zucapettole”, “pettulella” (D’ Ascoli), “pettola” (Zazzera). “Pettola” è una di quelle parole della lingua nostra che, signoreggiando un vasto campo semantico, hanno scatenato dispute dure tra i ricercatori dei nessi tra significato letterale e metafore, e durissime, tra i cacciatori di etimologie. G. B. Basile nella “Vecchia scortecata” ci dice che “pèttola” è un lembo di camicia, o di indumento intimo che dovrebbe essere coperto e nascosto, ma che, per incuria o per rozzezza, viene mostrato al pubblico. “Puorte sempe ‘a pettola ‘a fora” fu un lamento storico dei genitori napoletani nei confronti dei figli “scumbinati”. Ma la “pettola ‘a fora” la portavano anche certe signore, per deliberata volontà di provocazione: ed essendo una provocazione volgare, “pettola” e il suo diminutivo dispregiativo “pettulella” indicarono la donna rozza e di facili costumi.
Ce lo conferma il Basile, che in “Rosella” mette le “pettulelle” insieme alle “perchie” e alle “guaguine”, che sono femmine di poco conto e di poco valore. G.B. Valentino, per spiegare, in “Napole scontrafatto”, fino a che punto la peste del 1656 avesse “scontrafatto” la città, rovesciando ogni scala di valore, ci racconta che in quei giorni terribili non c’era “pettolella” che non avesse quattro anelli per ogni dito della mano, e che “ ciento zandraglie e ciento pettolelle” erano uscite dai bordelli di vico del Gelso, dove si vendevano “pe’dduie carlini”, per due carlini, e si erano sposate facendosi passare per zitelle e muovendosi come nobildonne: insomma “ponendosi sulla pertica”: “mo mperteca so poste le mappine”. Cosa significhi questo “mappine” è noto a tutti, mentre il termine “zandraglia” chiede una nota, che pubblicherò tra non molto.
Per traslato “pettola” e il suo diminutivo “pettolella” indicano anche coloro che “vanno appriesso” alle donne spinti da quelle intenzioni là, o che, non riuscendo a staccarsi dalla famiglia, a farsi una vita propria, si adagiano nella condizione di “stare azzeccati ‘a pettulella ‘e mammà”, attaccati alla gonna di mammà. Per l’etimologia della parola, mi tengo lontano dalle mischie dei filologi: ricordo soltanto che la “pettola” può indicare anche un solo, piccolo lembo di camicia e di biancheria intima. I lessicografi seri non hanno dubbi: il termine deriva dal latino tardo “pettula”, diminutiva di quel “petta” che è registrato da Du Cange nel significato di “pane o tipo di focaccia”. Il passaggio di senso è chiaro: il lembo di stoffa è piatto come uno strato di impasto, come il “pittolo” su cui mia madre edificava uno dei suoi capolavori, la pastiera di grano, come le gustose frittelle del Salento, le “pettole”, come la “pitta” calabrese, sorella linguistica della “pizza”. Da dove nascano le parole “pitta” e pizza ce lo domanderemo più in là.
Il piatto preparato da Biagio è un classico della cucina vesuviana: la luminosa sostanza dei maccheroni, il profumo dell’olio vesuviano e il nerbo elegante del Vesuvio bianco ingentiliscono e rischiarano il sapore intenso e tenebroso del porcino, conservando intatta la punta di mistero, urtante e indecifrabile, che si annida nel retrogusto.