Flessibilità, job act, tutele dei lavoratori, precariato, richieste dell’Europa: ecco i temi più ricorrenti degli ultimi giorni sul mondo del lavoro.
Nel 1970 l’articolo 18 introduceva nel diritto una tutela reale per il lavoratore, che andasse a sanzionare un illecito da parte del datore di lavoro.
L’articolo 18 rientra nell’ambito dello statuto dei lavoratori e fa riferimento alle “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Nel campo di applicazione dello statuto rientrano le aziende, o le unità produttive, con più di 15 dipendenti, 5 se aziende agricole.
L’articolo 18 è da molti anni oggetto di dibattiti, più o meno ideologici, e di modifiche.
Originariamente l’articolo prevedeva la validità del licenziamento solo in presenza di giusta causa o giustificato motivo, soggettivo se relativo alla condotta del lavoratore, oggettivo se relativo a dinamiche aziendali. In assenza di questi presupposti, il licenziamento risultava essere illegittimo; la legge operava, quindi, in modo da annullare gli effetti del licenziamento: il lavoratore veniva reintegrato, con risarcimento di tutti gli stipendi non percepiti sino al giorno del reintegro.
Con la riforma Fornero, nel 2012, si accostava alla tutela reale una tutela meramente indennitaria, a seconda delle cause e dei motivi alla base del licenziamento. La tutela reale, vale a dire l’obbligo di reintegro, persiste esclusivamente per il licenziamento discriminatorio, ossia per razza sesso o religione; d’altronde diversamente non poteva essere in quanto è la Costituzione a sancirlo. Quest’ultimo viene ad essere quindi un caso limite assieme alla situazione opposta in cui il lavoratore ha diritto unicamente al risarcimento danni, tra tali due circostanze si prospettano tutta una serie di situazioni in cui la legge affida sostanzialmente al giudice il reintegro o l’indennità.
L’articolo 18 così riformato è quello attualmente in vigore e al centro dei dibattiti nei salotti politici. La direzione in cui il Governo sembra andare è esattamente quella di una tutela meramente indennitaria.
Agli occhi degli operai la modifica dell’articolo 18 e la conseguente riduzione delle tutele è vista come un taglio, che renderebbe ancora più instabile la condizione del lavoratore, con dubbi effetti positivi sui consumi.
Le argomentazioni di chi si oppone alla modifica sono molteplici. Il presupposto fondamentale è che, anche quando il lavoratore sceglie liberamente di non essere reintegrato, il fatto stesso che esista la possibilità è un’arma nelle mani delle persone a tutela della loro dignità ed un elemento di deterrenza rispetto ai licenziamenti illegittimi. In effetti, questa è sostanzialmente la ratio su cui l’articolo nasce: sanzionare un illecito.
Chi al contrario vuole modificare l’articolo 18 sostiene che la riduzione delle tutele gioverebbe alla ridefinizione del rapporto tra lavoratore e dipendente, inciterebbe il lavoratore ad una migliore condotta ed eliminerebbe le differenze di tutela tra categorie di lavoratori.
La modifica dell’articolo 18, seppure sembra essere l’unico punto su cui discutere, è in realtà solo una parte del Job Act, il cui intento principale dovrebbe essere quello di rivoluzionare sì il sistema della protezione ma al contempo rivoluzionare anche il mercato del lavoro in entrata, a garanzia di una più rapida rioccupabilità.
In questo scenario di pareri discordanti, sull’eliminare o meno l’obbligo di reintegro, l’alternativa che si fa largo è quella di contratti a tutele crescenti.
In effetti la Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione si limita a definire il diritto del lavoratore ad avere una tutela contro il licenziamento ingiustificato, rimanda poi agli stati membri l’articolazione della stessa.
Alla tutela del lavoratore viene spesso accostato il concetto di flessibilità: in un contesto macroeconomico caratterizzato da incertezza e dinamicità, la capacità di adattarsi ai cambiamenti risulta essenziale e necessaria per la sopravvivenza degli agenti economici.
In effetti l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, annualmente assegna ai Paesi membri dell’Unione Europea un indice di protezione per un lavoratore con contratto a tempo indeterminato: più l’indice è alto più il mercato del lavoro è rigido.
L’Italia ha un indice di protezione del 2,51. A discapito di come si potesse immaginare la Svezia, l’Olanda, la Germania e la Francia hanno tutti indici maggiori di quello italiano; ciò vuol dire che in questi Paesi le tutele per i lavoratori esistono e addirittura sono più garantiste della nostra, eppure tra tutte quelle citate la situazione economica italiana è sicuramente la peggiore.
Ne deriva che l’articolo 18 non è la leva più importante, e di certo non l’unica, a disposizione della politica per migliorare il rapporto tra classe imprenditoriale e dipendenti, e sbloccare un sistema oramai ingessato.
Invece di pensare a come facilitare i licenziamenti potrebbe, intanto, essere opportuno concentrarsi sulla semplificazione e la sburocratizzazione amministrative, sulla riduzione del costo del lavoro via Irap e dell’incidenza dello stesso sul datore di lavoro, e facilitare l’accesso al credito.