Le vacanze a Baia di Clodia, la Lesbia di Catullo, e di Seneca: anche allora feste in spiaggia, canti e concerti al chiaro di luna, banchetti, e una libertà senza freni. I ricchi di Pompei frequentavano i bagni di Crasso a Capo Uncino, sulla rada di Torre Annunziata.
Non parlerò, nell’articolo, delle terme cittadine, su cui i Romani costruirono una complessa cultura dell’igiene, del tempo libero, delle relazioni sociali e della libertà delle nobildonne, che nelle terme indossavano il “due pezzi”, come ci dicono i mosaici di Villa Armerina, e come ci ricorda il quadro di Mosè Bianchi. Parlerò dei salutari bagni nelle acque termali che sgorgavano dai fondali marini in prossimità delle spiagge. Plinio scrive che queste acque in nessun luogo erano più copiose e più miracolose che nel golfo di Baia: ricche di nitro, di zolfo, di allume alleviavano i dolori ai tendini, ai piedi e alle anche, curavano lussazioni e fratture, liberavano l’intestino, risultavano salutari per i problemi alle orecchie, e quelle che appartenevano a Cicerone, per i guai alla vista. Grazie a queste acque Baia divenne un luogo di culto per i nobili romani, che costruirono lungo il golfo splendide ville e trasformarono il mare e le spiagge in un teatro del lusso, dove si praticavano tutte le forme del vizio, poiché, dice Seneca, lì non c’era limite che la dissolutezza non violasse. A dimostrazione del fatto che certi costumi sono eterni, ricordiamo che a Baia si potevano comprare anche souvenir che ancora oggi si vendono in certi luoghi di villeggiatura, in particolare ampolle e piatti (v. foto in appendice) adorni di immagini di terme, di spiagge e di onde marine.
Nella primavera del 56 a.C. Cicerone difende in tribunale il suo amico e allievo M.Celio Rufo da un lungo elenco di imputazioni, che comprende il delitto politico, l’incitamento alla sommossa, l’omicidio per avvelenamento. L’unico teste di accusa è la Lesbia di Catullo, Clodia, che di Celio era stata amante. Cicerone, non disponendo né di prove, né di testimoni che possano dimostrare l’infondatezza delle accuse, adotta una tattica di difesa che resterà nei manuali dell’arte oratoria: demolisce la credibilità dell’accusatrice, la cui libertà di costumi è nota a tutti, con la descrizione sarcastica e spietata della donna che a Baia è protagonista di “orge, passioni libidinose, adulteri, gozzoviglie, canti, concerti, gite in barca”. La villa di Clodia è un accogliente porto per tutti gli scapestrati: la dissoluta villeggiante di Baia è la stessa insaziabile signora che a Roma ha comprato una villa con giardino proprio in un punto del Tevere, “dove tutti i giovani si recano a fare il bagno”: e questa, delle nuotate nel fiume, è una notizia interessante. Nella cattiveria con cui alla fine dell’attacco Cicerone definisce Clodia “prostituta provocante e sfrontata” c’è forse il segno del ricordo di quando anche lui cercò di conquistare i favori della generosa nobildonna, ma lei lo umiliò respingendone il corteggiamento.
Seneca sconsiglia al suo allievo Lucilio di frequentare Baia, che è ricca di bellezze naturali, ma è diventata una capitale non solo della lussuria, ma anche della confusione chiassosa: per le spiagge girano gruppi di ubriachi e di notte e di giorno il mare pullula di barche piene di gente che si ingozza e canta a squarciagola: questi dissoluti non si accontentano di saziare i loro vizi, ma vogliono che ciò accada sotto gli occhi del pubblico. Anche Pompeo e Cesare si fecero costruire ville a Baia, ma “le vollero sulla sommità dei colli”, per contemplare dall’alto, e a distanza, l’indecoroso spettacolo che andava in scena sulle spiagge. E infine Seneca prefigura un quadro di Dalbono descrivendo “le belle e facili donne che vanno a diporto sul mare, le barche dipinte a vari colori, le rose che galleggiano sulle acque e gli schiamazzi notturni dei cantanti”: per un attimo si accende, nelle parole del severo moralista, un lampo di ammirazione per il suggestivo spettacolo su cui è costruito un capitolo magnifico della storia del Golfo di Napoli: la luna, il mare, il canto, e le belle donne.
A Pompei, in una nicchia della così detta villa di Cicerone, venne trovata un’iscrizione pubblicitaria con cui il liberto Ghennadio consigliava “i bagni di mare e di acqua dolce” nello stabilimento termale di Marco Crasso Frugi, Pensò il Della Corte che questo stabilimento si trovasse a Baia, ma nelle sue “Note di topografia pompeiana” il Maiuri, dopo aver notato che aveva poco senso fare a Pompei la pubblicità ai bagni della lontana Baia, formulò l’ipotesi che lo stabilimento di Marco Crasso Frugi si trovasse a qualche chilometro da Pompei, sul promontorio dell’Uncino, che chiude la rada di Torre Annunziata, dove sgorgava una copiosa sorgente termale. Nella prima metà dell’Ottocento il generale borbonico Nunziante, che ebbe la gestione di tutte le sorgenti termali di Torre, costruì all’Uncino – ma nelle carte già era l’Oncino – uno stabilimento frequentato dai nobili napoletani. Ma di questi bagni del primo Ottocento parlerò in un altro articolo.