Perchè la triglia in un menu di Carnevale? Perchè interpreta con coerenza il significato dissacratorio della festa. Quel pesce fa parte di un gioco di allusioni, che trova spazio in un trionfo di carni rosse. Di Carmine CimminoPer l’ultimo giorno di Carnevale Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, il primo storico della cucina napoletana, consigliava, nel suo dialetto ora semplice ora speziato, un menù che potremmo definire tradizionale: timballo di maccheroni, braciolone di carne di porco con rispetto parlando (scrive proprio così), arrosto di filetto di porco, parlando sempre con creanza, ma che sia porco di Sorrento, caponata, pizza di sfoglia piena di sanguinaccio.
Il timballo, come lo racconta Cavalcanti, non è un piatto: è la somma pantagruelica di tutte le possibili cannarizie, golosità: un ragù di polpette, braciolette, interiora di gallina, funghi, piselli, il tutto imbrogliato con maccheroni piccoli, maccaruncielli, della Costa, quasi crudi, vierdi vierdi, e parmigiano o caciocavallo, e tante belle fette di mozzarella, fellucce de presutto, e cervellate: non importa che si spendano tanti soldi per questo giorno, e per la gola, che il duca chiama cannacchia, non importa nemmeno che il giorno dopo, che è il primo di quaresima, non avremo da mangiare (ma la mia traduzione svilisce un dialetto saporosissimo, che Cavalcanti cuoce nel sugo di Rabelais e nel lardo di Basile).
Il braciolone di carne di porco con rispetto parlando è un pezzo del prosciutto che si chiama sbracatura, prima disteso e allargato, e poi avvolto intorno a un ripieno fatto di lardo pestato, prezzemolo, maggiorana, fette di prosciutto, uva passa, pignoli, uova sode, caciocavallo, sale e pepe: il tutto messo a soffriggere in un “brodo“ alimentato dal concorso degli stessi elementi del ripieno, con l’aggiunta di un trito di cipolle. Questa bomba andava in tavola con un contorno di cipollette prima scaldate, poi infarinate e fritte, infine imbevute, in una casseruola a parte, dello stesso “brodo“ del braciolone. Le cipollette così trattate Cavalcanti le considerava superiori a quelle, famose, della Taverna dello Scoglio di Frisia, una delle taverne storiche dell’Ottocento napoletano, che il duca frequentava assiduamente.
Egli racconta che nel luglio del 1846 alcuni suoi amici pagarono, per un pranzo, circa due ducati ciascuno: un prezzo assai alto, giustificato non tanto dalle portate a base di pesce, che erano un vanto di quella Taverna, e dalle spaselle di frutti di mare, quanto dalle bottiglie di vino forestiero. Il 4 luglio 1891 i giornalisti napoletani offrirono un pranzo d’onore a Giosué Carducci e alla sua giovane amica Annie Vivanti: li ospitarono allo Scoglio di Frisia, che apparteneva allora ai fratelli Musella. Sedevano a tavola nomi prestigiosi, Matilde Serao, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Francesco Cimmino. La Vivanti gradì gli antipasti dell’orto, che in quegli anni erano la gloria del ristorante: la scapece di zucchine, la parmigiana di melanzane, i peperoni in umido, la frittata di cipolline cilentane.
Per l’arrosto di filetto di porco, parlando con creanza, di Sorrento, Cavalcanti riteneva indispensabile che la lunga del filetto fosse tagliata alla Reale, e cioè con un taglio che non ne scompaginasse i bordi e lasciasse intatta una parte proporzionata di grasso. Il filetto, arrotolato, legato, incartato, veniva infilato nello spiedo, e arrostito a fuoco lento, suave suave. Cotto alla perfezione, lo si apparecchiava in una sperlonga co no poco de lattuca, o scarola ntretata attuorno. T’arraccomanno – avverte Cavalcanti -, quanno se taglia de no farlo taccariare, di non farlo scheggiare.
La caponata che Cavalcanti consiglia per l’ultimo di Carnevale è la prova che anche la semplicità e la naturalezza possono vestirsi di panni barocchi. Prendi una decina di freselle, ma che siano di Portici, perché sono più sfrittole, e cioè più croccanti, bagnale nell’aceto, cospargile di olio fino, di sale, di pepe, e se ti piace, di zucchero; dopo aver acconciato il tutto in un piatto largo, guarnisci con lattuga e scarola tritata fina fina, condita con olio, aceto, sale e pepe; sopra ci metterai una imbrogliaria di pesce, e cioè un misto di pezzi di pesce scaldato, cosparso di olio e di limone. La costruzione deve avere la forma di una campana, stretta sopra e larga sotto: sulla cima della campana va distesa un’altra cammisa di insalata come quella di prima: e infine, su questa camicia si alzerà un trionfo di alice salate, aulive senza l’osse, chiapparelli, felettielli de cetrolelle e puparuoli all’acito, e tuorno tuorno ‘na guarnizione de cimmolelle de vruoccole, e caulisciore: broccoli e cavolfiori, il vigore e la mollezza.
Se Cavalcanti si fosse fermato al pesce lesso sulla caponata di freselle di Portici, potremmo ancora considerare tradizionale il suo menù di Carnevale. Ma prima del braciolone di carne di porco, egli consiglia un fritto di triglie.
E la ricetta è un indovinello. Piglia tre chili di triglie che non pesino ciascuna più di 100 gr., e che siano fresche, sbuzzale, falle scolare, a lloro dicenno, nel setaccio grande, infarina, friggi nella sugna, preparale nel vacile. In nota, Cavalcanti si scusa scherzosamente: lo so, dovrei dire piatto grande e non vacile – che in napoletano è il bacile – ma chiedo perdono, poco m’è restata la capa ‘ncapo , ma penso che ci siamo capiti. È un gioco di allusioni. E infatti il duca suggerisce di allineare le triglie nel vacile in un modo particolare: le teste verso l’orlo del vassoio, le code convergenti al centro, aizanno ‘na ponta, con una punta sollevata, spero che mme capite, si parlo a uommene.
La soluzione dell’enigma non è difficile: nella cultura popolare la triglia è simbolo dell’organo sessuale maschile. In uno strepitoso sonetto il Belli chiede a un’ amica di fargli un po’ di spazio nel letto, perché io so’ coco / e in ner tegame assaggerai la triglia. E mi fermo qui, anche se il verso seguente è tale capolavoro di ritmo e di timbro, che nonostante l’oscenità, meriterebbe di essere letto e commentato. E dunque la proposta di un piatto di triglie in un menù di Carnevale, che dovrebbe essere un corteo trionfale di carni rosse, ha una sua logica, poiché interpreta con assoluta coerenza il significato irridente e dissacratorio della buffonesca oscenità della festa.
I napoletani e Cavalcanti lo ricordarono a chi fingeva di averlo dimenticato: e lo fecero un secolo e mezzo prima di Bachtin e di Flandrin.
(Foto: Quado di Gioacchino Toma, Natura Morta)