Per contrastare la sottocultura che produce la violenza contro le donne è necessario costruire e diffondere una cultura che metta in primo piano le questioni di genere. La Pubblica Istruzione, invece, sembra ignorarle.
Che nella comunicazione massmediale ci sia un problema riguardo alle questioni di genere non è una novità. Ma che anche il nostro sistema pubblico di istruzione fosse paurosamente carente da questo punto di vista era cosa che ci saremmo augurati di non dover verificare. Da sempre delle donne, del loro ruolo nella storia, nell’arte, nella filosofia, nella scienza, a scuola si parla poco e soprattutto se se ne parla è grazie al lavoro e all’iniziativa individuale degli insegnanti. Che sia una questione di fondamentale importanza il nostro paese sembra ignorarlo. Con conseguenze la cui gravità gli estensori di programmi e regolamenti non indovinano.
La lettera aperta “Che genere di concorso?”, indirizzata al Ministro dell’Istruzione e per conoscenza alla Ministra del Lavoro, denuncia con forza la completa assenza, nelle indicazioni per gli ultimi concorsi a cattedra, della questione di genere. La lettera aperta, redatta dal laboratorio di studi femministi “Anna Rita Simeone”, ha visto aderire immediatamente la Società Italiana delle Storiche e la Società Italiana delle Letterate e poi ha continuato e continua a raccogliere adesioni e firme.
Tra gli scrittori che il candidato deve conoscere obbligatoriamente solo una donna: Elsa Morante; la storia delle donne e il femminismo non sono presi in considerazione nemmeno nei programmi di Storia del Novecento; sembra che non sia mai esistita una filosofa, né tantomeno una critica letteraria, né una scienziata oltre a Madame Curie (a proposito ma che ne è del suo proprio cognome? è citata sempre con quello del marito); né c’è alcun accenno al genere come categoria di indagine quando si parla di geografia, né al linguaggio sessuato (ma questa sembra un’utopia) quando si parla di educazione linguistica. E non si tratta naturalmente di escludere qualche nome maschile e inserirne qualcuno femminile ( avrebbe senso, che so, escludere Pirandello e includere Grazia Deledda?), si tratta di ripensare la struttura delle conoscenze che si vanno a proporre.
E così si arriva al paradosso che in un’istituzione, la scuola, in cui l’88% dei docenti è costituito da donne, la cultura che si elabora e si riproduce è tristemente antiquata, limitata e miope e le donne e le questioni di genere non sono proprio prese in considerazione. Si potrebbe pensare che il fatto stesso che i giovani si trovano di fronte ad educatori per lo più donne può colmare il vuoto istituzionale: le docenti saranno certamente inclini a sfruttare la propria libertà di insegnamento per trattare questioni di genere e, inoltre, l’immagine del mondo registrata dagli studenti sarà più equa, data la sovrabbondante presenza femminile. Purtroppo la realtà è del tutto diversa.
La professione docente gode di poca considerazione sociale, è poco remunerativa ed è per questa ragione snobbata dagli uomini, a meno che non si tratti di ruoli dirigenziali. Esempio: le donne sono il 58% dei laureati, le ricercatrici universitarie il 40%, le docenti associate il 32% e le ordinarie il 14%. Le donne rettore sono due (dati del "Rapporto ombra 2012" del Cedaw). L’occupazione femminile è in crisi più di quella maschile e le donne sono peggio pagate degli uomini. La presenza femminile nelle scuole non contraddice questa realtà, anzi la conferma, se si pensa ai ruoli e alle retribuzioni.
Insomma non solo la cultura che si propone nel nostro sistema di istruzione a livello istituzionale manca completamente di elementi e strategie adatti a far crescere cittadini e cittadine consapevoli e rispettosi dei diritti di tutti, a generare una coscienza nuova e più organica dei rapporti tra uomini e donne, a sviluppare il senso dell’ identità e dell’appartenenza sulla base di valori condivisi e inclusivi. Anche il modello sociale riprodotto all’interno del sistema non fa che sottolineare e ampliare l’emarginazione e la definizione di un ruolo minore e in qualche modo subalterno della donna.
Cambiare tutto questo è assolutamente indispensabile se vogliamo combattere il sessismo, la disuguaglianza e anche la violenza sulle donne, femminicidio compreso. E’ sul terreno della formazione che si combatte la prima importante battaglia per lo sviluppo di una coscienza dei propri diritti e doveri, delle proprie prerogative e delle regole sociali e civili che caratterizzano la propria comunità. E in un paese devastato da venti anni di deriva maschilista e misogina il ruolo della scuola è fondamentale.
In un recente articolo Lorella Zanardo (“Donne di fatto”, 8 gennaio) mette bene in evidenza la schizofrenia del messaggio dei media che da una parte sembrano trasmettere un’immagine apparentemente (falsamente direi) liberata della donna, e dall’altra riproducono i più vecchi stereotipi culturali (del tipo che se un uomo ha più donne è un figo, se una donna ha due uomini è una puttana). Questa sottocultura ha prodotto e produce continui crimini contro le donne ed è responsabile di atti di violenza e prepotenza che portano le vittime all’esasperazione, fino al suicidio. La scuola avrebbe potuto e dovuto costituire un argine e un baluardo contro questa desolante realtà, invece si continuano a perdere le occasioni per trasformarla in un attivo agente di formazione di cittadinanza consapevole, fondata sui pari diritti e le pari opportunità.
(Fonte foto: Rete Internet)