Un caffè con…Giovanni Barone

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Giovanni Barone

Medico chirurgo, già consigliere e presidente del consiglio comunale di Sant’Anastasia, assessore, candidato sindaco sconfitto nel 2010. Oggi non ha incarichi né politici né di partito ma si candida al ruolo di «padre nobile» del Pd.

Ha sessantasei anni, è sposato, ha due figli e due nipotine. Oltre alla famiglia, il «fil rouge» della sua vita passa per tre direttrici: la Politica, la Medicina, il Movimento dei Focolari. Di cultura squisitamente democristiana ha, fin dai primi passi nel partito, strizzato l’occhio alla Sinistra, anche in tempi in cui ciò non poteva dirsi politically correct, quanto meno per un iscritto alla Dc. Legatissimo al suo paese, Sant’Anastasia, è per alcuni lunghi periodi protagonista della vita politica locale, anche se spesso dietro le quinte come accade, per esempio, nel 1997 quando è tra i fautori della candidatura di Enzo Iervolino, il sindaco eletto dai cittadini che più a lungo (dieci anni) ha governato Sant’Anastasia. Consigliere comunale, segretario della Dc, per pochi mesi iscritto al Psi e poi di nuovo nella Dc fino a Tangentopoli quando sceglie il Patto Segni, partito con il quale si candida al Senato sfiorando l’elezione. Dopo un’esperienza con il Pds e i Democratici che avevano come simbolo l’Asinello, preludio della nascita dell’Ulivo, sceglie la Margherita sotto la cui egida tenta la candidatura alla Provincia e approda infine al Pd, partito del quale ha ancora la tessera e con il quale si candida l’ultima volta, alla carica di sindaco nel 2010, arrivando al ballottaggio contro Carmine Esposito al quale poi andrà la fascia tricolore. Medico specializzato in Chirurgia Generale, ha scelto di restare nell’Ospedale in cui aveva cominciato, l’Apicella di Pollena Trocchia, dove tuttora è responsabile del Day Surgery. È volontario dell’Opera di Maria, ossia del Movimento dei Focolari di Chiara Lubich. Nell’intervista che segue, Giovanni Barone ripercorre episodi, storie, decisioni, alcune delle quali hanno poi finito anche per cambiare il destino di Sant’Anastasia.

Giovanni, sei nato e vissuto a Sant’Anastasia, dove abitavi da piccolo?
«La mia famiglia aveva una proprietà nel vico Gifuni, uno stabile al quale si accedeva anche da via Mario De Rosa».

I tuoi genitori?
«Mio padre era Vincenzo Barone, impiegato alla Camera di Commercio, mamma una casalinga, Palmira De Luca. Ho una sorella, Bice. Lei è maestra elementare e abita oggi a Sant’Agata dei Goti».

Barone è un cognome noto a Sant’Anastasia, lo portava un brigante.
«Sì, è un mio avo e in casa se ne parlava anche parecchio. Ho perfino dei gemelli d’argento che gli sono appartenuti, si chiamava Vincenzo, come mio padre e come mio figlio. Colonnello della guardia regia ed eroe della resistenza borbonica, giovane rampollo di una famiglia benestante dedita al commercio di filati che non disdegnò di offrire parte consistente del suo patrimonio, e infine la vita, per i suoi ideali. Il termine «brigante», inflitto ai patrioti che facevano opposizione armata ai conquistatori piemontesi, fu coniato dai vincitori per ridurne il fascino dinanzi al popolo».

Lo impiccarono accanto alla fontana di Piazza Trivio…
«No, questo è ritenuto un falso storico. I documenti consultati negli anni dicono che andò così, è vero. Ma la versione più attendibile, comprovata da studi relativamente più recenti, sostiene che si fosse suicidato nella casa dell’amante, a Pollena Trocchia, chiuso in un armadio. Appena si accorse che la casa era circondata dai piemontesi, vistosi scoperto e deciso a non farsi prendere, si uccise con un colpo di pistola. Il tenente che ne prese il corpo, per aumentare il proprio prestigio, lo impiccò in piazza Trivio già cadavere».

Eroe patriota ma anche autore di lettere minatorie, servitore dell’esercito borbonico ma anche organizzatore di sbandati.
«Fece l’errore, come accade a molti rivoluzionari, di allearsi con la malavita e questo segnò la sua fine, insieme alla circostanza incontrovertibile che la storia stava cambiando».

I suoi averi sono stati tramandati?
«Non credo avesse più nulla al momento della sua morte».

Che ricordi hai della tua infanzia?
«I giochi, le scorribande con gli amici nei vicoletti del quartiere Sant’Antonio. Per noi erano meandri, piccoli dedali. Ancora oggi a volte ci penso e di sicuro c’è qualche anfratto della zona più alta del paese, o dello stesso vico Gifuni, che forse non conosco. Lì c’era un grande gelso del quale, anche mettendoci in circolo in due o tre bimbi, non riuscivamo ad abbracciare la circonferenza. Giocavamo agli indiani, ai banditi, spesso ci nascondevamo nei lavatoi, facendo preoccupare tantissimo i genitori che temevano potessimo scavalcare per sbaglio il muretto del pozzo o finire nelle piscine di raccolta delle acque piovane».

La vita in famiglia a quell’epoca?
«Dall’età di due anni non ho vissuto con i miei, bensì a casa della nonna materna e con zia Luisa, la sorella di mamma. Non era sposata e aveva un ufficio di dattiloscrittura al Tribunale di Napoli. Allora c’era questa abitudine – non saprei dire se buona o cattiva – di allevarsi un nipote. Quando uno si sposava, subentrava un altro più piccolo, io sono stato l’ultimo a rimanere con nonna e zia, le ho entrambe accompagnate fino alla fine della loro vita».

Non ti sei mai chiesto perché non vivessi con i tuoi genitori?
«Era frequente a quei tempi. Non mi mancavano, mamma veniva dalla nonna tutti i giorni, papà arrivava di sera. È anzi un ricordo bellissimo perché la nonna Fortuna costituiva un’attrazione non solo per le figlie che ogni sera si riunivano, ma anche per nipoti e pronipoti. Un ritrovo».

La scuola?
«Le elementari dalle suore domenicane, ne ho ricordi stupendi. Suor Albertina, suor Costanza, severe ma dolcissime. Prima ancora l’asilo, con le suore di Carità: la dolcezza estrema di suor Erminia e suor Concettina, la superiora, una donna piccolissima che tentava di sembrare burbera e pareva invece altissima. Ma la memoria che mi è più cara riguarda un periodo successivo e suor Laura, che mi ha preparato all’esame di passaggio tra le elementari e la scuola media che poi ho frequentato, come il liceo, dai padri domenicani di Madonna dell’Arco»

I tuoi amici di allora?
«Antonio De Simone, oggi docente universitario e valente archeologo, Enzo De Simone che oggi gestisce il suo negozio, Antonio Bove, Teresa Merone, Enzo Liguoro, Antonio Anastasio, Franco Scudieri il cui papà aveva la panetteria sotto casa. Non mi sovvengono i nomi di tutti, poi frequentavo la parrocchia di Sant’Antonio – ma allora ancora non lo era, parrocchia – con i Militi dell’Immacolata».

Asilo ed elementari dalle suore, medie e liceo classico dai Domenicani. Un percorso di studi tutto in scuole private, che studente eri?
«Alle medie non ero brillante, ho ripetuto la terza a causa delle frequentissime assenze. Marinavo la scuola e andavo insieme agli amici sull’Olivella o sulla circumvesuviana di Madonna dell’Arco a giocare a pallone. Stavamo tra maschietti perché all’epoca le amicizie femminili erano perseguitate e quasi impossibili. Poi pian piano, dal quarto ginnasio in poi, mi sono impegnato e ho risalito la china fino a diventare uno dei primi della classe».

Come mai hai scelto il liceo classico?
«Era quasi una cosa naturale per chi voleva fare il medico in seguito. E io l’ho sempre pensato, tant’è che se me lo chiedevano rispondevo così. Forse le mie scelte sono state influenzate dal fatto che, poco distante da casa mia, abitava Giovannino De Simone poi diventato uno dei miei maestri. Sì, questo potrebbe aver giocato nella scelta, del liceo prima e della facoltà universitaria poi».

Hai ancora il vezzo delle citazioni latine, una reminiscenza del periodo liceale?
«Mi accade una cosa strana: ricordo di latino più oggi di quanto fossi convinto di saperne allora, quando i voti per la traduzione delle versioni raggiungevano il cinque e mezzo o al massimo uno stringato sei. Mi accade meno con il greco, eppure ricordo a memoria un particolare canto dell’Odissea che una volta padre Tullio Castaldo, il nostro preside di allora, ci costrinse ad imparare. L’ho recitato nuovamente da adulto, in occasione di un evento in sua memoria. Era l’assistente religioso, il padre spirituale della Fuci – la Federazione Universitaria Cattolici Italiani – e frequentava il circoletto al primo piano nel palazzo all’angolo tra via Mario De Rosa e via D’Auria, perciò aveva modo di vederci, era scaltro, ci controllava, sapeva ogni cosa, anche dove e con chi andavamo magari a ballare di sabato. E il lunedì fioccavano gli impreparati».

Non aveva perso lo smalto nemmeno più di venti anni dopo, ti assicuro. Quali materie preferivi?
«Mi piaceva molto la filosofia, così pure la letteratura italiana, seguivo con interesse l’insegnante di religione».

In quegli anni Sant’Anastasia com’era?
«Il centro del paese, se togliamo l’ammodernamento degli stabili o delle strade, è rimasto uguale a se stesso. La periferia invece è cambiata moltissimo, anche Madonna dell’Arco».

Dopo la maturità classica hai scelto Medicina senza alcuna esitazione?
«Nemmeno una, nessun dubbio. Mi sono laureato nel 1976 con quattro esami in più della norma, sono specializzato in chirurgia generale e ho un master in management sanitario di secondo livello».

Il master è recente?
«Sì, di cinque anni fa».

Com’è che ti sei rimesso a studiare?
«Diciamo che la managerialità della medicina mi ha sempre affascinato, la gestione della medicina pubblica in particolare la ritengo importantissima, fondamentale».

La tua prima volta in sala operatoria?
«Da osservatore e interno a Semeiotica Chirurgica, al Policlinico. Al tavolo operatorio, vestito da chirurgo, al San Gennaro. Il primo intervento fu una appendicectomia accanto al mio maestro, Livio Simolo. Mi tremavano un po’ le mani per entusiasmo, non per paura. Avevo la consapevolezza che stava cominciando in quel momento la mia trafila chirurgica, mi emozionò tantissimo. Mi sentivo già sicuro, sapevo che era la mia strada».

Quando hai cominciato il tuo lavoro all’Apicella di Pollena Trocchia dove ancora oggi operi?
«Il 1 gennaio del 1978 vinsi un concorso per assistente chirurgo, un anno dopo la laurea. Ne vinsi un secondo un paio di anni dopo, all’Ascalesi. Ma non volli andarci, rimasi a Pollena. Capivo che poteva aprirmisi una carriera diversa, però mi sentivo a casa mia, realizzato, con persone che mi consideravano già un punto di riferimento».

Non ti interessava la carriera?
«Certo che mi interessava. Non l’ho mai tuttavia perseguita con la determinazione di chi utilizza tutti i mezzi. Stando accanto a Giovanni De Simone, il mio secondo grande maestro, sono diventato un chirurgo completo molto presto. Primario no, ho tentato il concorso quando De Simone andò in pensione ma lo feci, come al solito, senza raccomandazioni e senza rivolgermi ad alcuno. Tieni conto che il primario successivo ebbe a dire: “Giovanni Barone fa la politica, io la uso”. Ed è così, non sono mai andato da un politico a chiedergli aiuto per la carriera, né mi sono rivolto ad altri che, considerando la parentela, avrebbero potuto far molto. Tutto ciò che ho dal punto di vista professionale, molto poco o più di quanto uno possa sperare, è unicamente frutto del mio lavoro. Il 1 giugno di quest’anno sarei dovuto andare in pensione ma ho chiesto la proroga e firmato per altri tre anni. Ho ancora molta voglia di fare il medico e mi sarebbe spiaciuto molto andar via dalla unità operativa Day Surgery di Pollena che io stesso ho fondato».

Nel frattempo ti eri sposato, quando hai conosciuto tua moglie Emilia?
«Da piccolissima, giocavo insieme a questa ragazzina con i capelli ricci ricci e le lentiggini, non avrei mai pensato che saremmo divenuti marito e moglie. Con il passare degli anni si formavano le prime comitive “miste”, uscivamo anche con le ragazze, sedevamo fuori dai bar tra critiche terribili sfociate nel massimo del chiacchiericcio quando organizzammo un campeggio a Palinuro, tra maschi e femmine insieme. Credo avessi sedici anni, all’epoca. Io ed Emilia ci siamo poi fidanzati quando ero in quarta ginnasio e sposati a un anno dalla mia laurea. Dopo trentasei anni di matrimonio e due figli, Vincenzo e Gianluca, oggi siamo nonni di Vittoria ed Emilia».

La politica è entrata nella tua vita da giovanissimo?
«S
ono praticamente cresciuto senza un giorno in cui a casa nostra non si parlasse di politica. Zia Luisa, antesignana per l’epoca, era segretaria femminile della Democrazia Cristiana. Venivano a fare le riunioni in casa e a me portavano biscotti e cioccolatini».

Una donna in politica era rarissima a quei tempi.
«Infatti, ma aveva carattere. Credo sia anche per questo che la figura paterna non mi è mancata, ha fatto lei da mamma e da papà. Non mi ha mai fatto mancare nulla nemmeno mentre crescevo, più grandicello mi accompagnava a comprare gli abiti e sceglieva a prescindere il meglio, i capi firmati, quelli che costavano di più, che mi avrebbero fatto figurare. Se dovevo uscire con gli amici per un cinema o una pizza lei mi chiedeva quanti eravamo e mi dava il denaro sufficiente per tutti. Ho trascorso una gioventù molto bella».

In più sei cresciuto in un ambiente di impegno politico ed è stata ovvia la scelta della Dc.
«Ha influito anche l’aspetto religioso, i doveri sociali, il senso dell’impegno e della comunità. Frequentavo le strutture ecclesiali, l’Azione Cattolica, ho ricevuto negli anni una educazione sia francescana che domenicana. Molti di questi aspetti mi hanno indirizzato verso l’impegno politico e alla Dc, ma il vero faro è stata zia Luisa».

La prima candidatura alle comunali?
«Avevo 21 anni, nel 1970, naturalmente con la Dc. Quel periodo lo ricordo per il blitz sul tesseramento messo a segno da Luigi Cautiero che si appropriò della sezione con l’aiuto di Gava, non rinnovando la tessera a tutti i democristiani storici. Fui il primo dei non eletti e non entrai in consiglio. Ma ovviamente non avevo, allora, un senso sociale, mi votarono perché fu zia Luisa ad andare casa per casa chiedendo voti. Divenne sindaco Antonio Manno. Intanto con la Dc e con i suoi consiglieri comunali avevo un po’ rotto, frequentavo la Fuci e seguivo le indicazioni del cardinale Martini pensando al dialogo con i comunisti. Scrissi un articolo, ricordo, sul rapporto tra ambienti cattolici e Pci, sostenendo che essere diversi non significa essere opposti o nemici. Lì ci ritrovo la radice della mia adesione odierna al Pd. Ero alla ricerca di qualcosa che mi realizzasse di più e qualche mese prima del referendum sul divorzio, insieme ad alcuni amici, aderii al Psi. Nella stessa serata e nello stesso congresso in cui vi entrava, tra gli altri, l’ex sindaco Carmine Esposito».

Perché il Psi?
«Cominciavo a coltivare questa idea che il cattolico dovesse guardare a sinistra, alle classi meno agiate, al popolo. Mi sembrava, il Psi, una equa mediazione tra Dc e Pci perché comunista ideologicamente non lo sono mai stato. Ci rimasi pochi mesi però, io e gli altri amici ex Dc andammo via dopo un intervento molto duro in merito alla nostra posizione sul referendum del ’74, lo fece Carmine Esposito, l’ex presidente del consiglio comunale, l’Esposito che tutti chiamiamo “Krol” per intenderci. Prendemmo atto che eravamo considerati di serie B e che nel Psi non c’era spazio per i cattolici, che il dialogo diretto in un’unica struttura non poteva realizzarsi, che continuavano ad essere non solo laici ma materialisti e che nella loro libertà di espressione i cattolici non li accettavano. Questo è un po’ vero anche oggi nel Pd, non c’è ancora stato un completo e armonioso amalgama, i cattolici tollerano a forza gli ex comunisti e questi ultimi ricambiano il sentimento».

Ho sempre pensato che foste «alleabili», ma non amalgamabili. Si perde un po’ l’identità, no?
«Non proprio, perché nella mia vita c’è, in questo senso, un filo d’oro: intuivo che questo rapporto potesse essere fruttuoso dal punto di vista politico ma – almeno allora – non si crearono le condizioni. Intuivo che la strada era quella, immaginavo quello che poi si è chiamato Ulivo. Vedi, quando ho aderito più tardi al Patto Segni, partito con il quale sono stato candidato al Senato, feci affiggere a Sant’Anastasia un manifesto gigantesco. La scritta era: “Iscriviti al Patto Segni per essere al servizio del nuovo centro per un nuovo centrosinistra al servizio del futuro partito democratico”. Diciamo che ho anticipato definizioni e parole».

Prima del Patto Segni tornasti a casa, nella Dc.
«Sì e mi candidai, fui eletto. Sono stato nei banchi di opposizione quando i sindaci erano Giuseppe Pone e Mario De Simone, poi in maggioranza con il sindaco Antonio Manno. Ero abbastanza giovane la prima volta in consiglio e ricordo che, una sera in assise, il sindaco Pone mi mise a tacere dicendo che non potevo consentirmi, a causa dell’età, di redarguirlo».

Che ricordi hai dei sindaci di quegli anni?
«Di Mario De Simone nessuno in particolare, del resto sia lui che Pone sono state delle meteore. Ma di quest’ultimo rammento il rapporto privilegiato con le classi più deboli e in particolare con gli spazzini, una corrispondenza di amorosi sensi fondata, ritengo, sulla sua magnanimità. Ricordo anche lo scontro tra lui e Beneduce, il duello tra i simboli dell’Aquila e del Cavallo e Pone che girava per il paese, in maniera molto folkloristica, con tre o quattro cavalli al seguito. Divertentissimo. Ad Antonio Manno sono stato invece molto vicino per un periodo. Aveva molte idee, è il sindaco che ha cominciato ad aprire lo sviluppo del paese. Con lui sono nati gli insediamenti abitativi su via Romani, cambiando radicalmente Sant’Anastasia».

Pochi mesi prima della sua morte l’ho intervistato, mi disse di essersi pentito di quella scelta, parlo degli insediamenti popolari. Che se fosse tornato indietro non l’avrebbe rifatta.
«Io credo che fosse consapevole anche allora di quel che stava avviando. Anche se a me e ad Antonio Dobellini diceva: “Noi lo facciamo, però poi vinceranno i comunisti”».

Allora non sapeva che voi i comunisti li avreste “abbracciati” sotto un unico simbolo molti anni dopo.
«La storia cambia, le diversità possono essere una ricchezza. In ogni caso in quel periodo, negli anni ’80, diventai consigliere, segretario cittadino e poi capogruppo della Dc. In seguito il sindaco Cosimo Scippa mi avrebbe voluto assessore ma preferii rimanere segretario, amavo la politica pura, le alleanze, le strategie, di meno l’aspetto amministrativo propriamente detto. Restai nella Dc fino agli anni di Tangentopoli, poi Mario Segni fondò il Patto per l’Italia, vi aderii e tentai la candidatura al Senato. Il 75 per cento dei voti a Sant’Anastasia, circa 30mila in tutto il collegio “rosso” per antonomasia. Quando poi Mario Segni cominciò a deragliare verso destra, ebbi una breve esperienza con il Pds, indi scelsi l’Asinello con I Democratici, poi la Margherita e infine il Pd. Insomma, tutta la trafila del democristiano alla ricerca di una collocazione di centrosinistra».

In tutti i tuoi anni da consigliere, c’è un episodio singolare che ti viene in mente subito?
«Soddisfacente, più che singolare. Quando cominciai la battaglia per distruggere la coalizione Dc – Psi in favore di un’alleanza che diventasse Dc – Pci, il segretario provinciale, non ne ricordo il nome ma era allora il sindaco di Portici, mi mandò a chiamare. Io ero giovanissimo e medico da poco, ebbene mi consigliò di lasciar stare la politica e tentò di convincermi a lavorare per ricostruire l’alleanza di prima tornando con il Psi. Il punto cruciale è che i tre assessori socialisti, che erano nella fattispecie l’ex sindaco Esposito, mio cognato Raffaele De Simone e Ciro Rivellini, non volevano dimettersi e a quei tempi gli assessori non potevano essere mandati via dal sindaco. In breve, dissi al segretario provinciale che a Sant’Anastasia non avevamo mai fatto comandare nessuno e scommisi il suo posto che entro dieci giorni la giunta, senza Psi, ci sarebbe stata. Ovviamente la spuntai, i tre socialisti si dimisero e altrettanto ovviamente il segretario provinciale continuò ad essere lui che mi aveva preso in giro consigliandomi di lasciare la politica. Ma avevo ragione, questo mi bastò».

In quegli anni in cui ancora non c’era l’elezione diretta – per questo dobbiamo arrivare al 1995 – chi è stato per te il miglior sindaco di Sant’Anastasia?
«Antonio Manno».

Invece, il primo sindaco eletto dai cittadini è stato Mario Romano. Tu non eri in lista.
«In un primo momento ero contro quella candidatura, poi ne sono stato uno degli artefici. Non mi candidai perché, come periodicamente accade, si diceva che i consiglieri comunali precedenti dovessero restare a casa. Io feci votare Pasquale Galiero, fu eletto e ovviamente non l’ho mai influenzato. Arrivammo al ballottaggio con Mario Romano in netto svantaggio contro Emilio Maione che però ebbe molte défaillance nelle ultime settimane di campagna elettorale, con due o tre comizi fallimentari e il forfait di qualche gruppo che non seppe gestire e gli fece mancare all’ultimo il sostegno. Il giorno del voto – ero rappresentante di lista –  capii subito che il vento era cambiato».

C’è un libro del collega Francesco De Rosa che si intitola “La primavera negata”, su quell’esperienza. Che pensi, perché Romano non riuscì a portare a termine la consiliatura?
«Difficile da esprimere. Io sono convinto che i socialisti avevano fin dall’inizio il progetto di ribaltare la situazione. Carmine Pone voleva fare il sindaco».

Non credo fosse il solo…nel 1997 tu saresti stato il candidato naturale.
«Questo è vero, mi ero distinto nella difesa di Mario Romano e nello stesso tempo avevo professato la necessità di una grande coalizione. Dovevo essere io, ma ero reduce da un intervento di bypass e i medici mi avevano consigliato di non forzare, nemmeno con la vita politica. Fermai Alfredo De Simone mentre, durante una riunione decisiva, stava per fare il mio nome e ne feci io un altro».

Quello di Enzo Iervolino, medico oncologo, mai noto prima alle cronache politiche.
«Checché se ne dica non c’era alcun accordo, nessun progetto. Il nome di Enzo fu un vero “coniglio dal cilindro”. Lo avevo invitato a cena il giorno prima e gli avevo prospettato la cosa dopo aver parlato con altri amici, soltanto la mattina dopo sono riuscito a strappargli un sì».

E vinse, pur contro la notevole prova del candidato di Forza Italia, Luigi De Simone. Anche grazie al sostegno dell’ultima ora di Carmine Pone. Ti sei mai pentito di aver fatto il suo nome?
«Mai, perché è stata un’esperienza importante, la storia non ha ancora dato un giudizio sereno su Enzo Iervolino. Per me è stato il sindaco migliore che Sant’Anastasia abbia avuto».

Di certo è stato il sindaco eletto dai cittadini che ha governato di più, dieci anni.
«Ha cambiato il paese. Abbiamo avuto momenti difficili negli ultimi tre anni che direi improduttivi, soprattutto a causa del gruppetto di oppositori interni che bloccavano tutto, dalla partenza delle soste a pagamento alla bonifica dell’area della Preziosa che sarebbe stata fatta in cambio di un sito di stoccaggio».

Nei primi cinque anni tu sei stato esterno all’amministrazione mantenendo solo un ruolo politico, nel 2002 invece sei divenuto consigliere, presidente del consiglio comunale e poi ti sei dimesso andando a ricoprire per pochi mesi il ruolo di assessore alla Cultura, alle Politiche Sociali e alla Pubblica Istruzione.
«Esatto, e nel frattempo mi sono candidato al consiglio Provinciale, nel 2004. Da assessore mi sono trovato bene, contrariamente a quel che pensavo. È durata pochi mesi e poi mi sono dimesso per motivi personali che nulla avevano a che fare con la politica o l’amministrazione. Ma sono stati mesi belli, avevo preso l’abitudine di andare a pranzo con i bambini delle scuole e ho trovato cibo sciapo, verdurine senza olio e immerse nell’acqua, prosciutto di pessima qualità. Convocai i responsabili al Comune e li costrinsi a modificare le cose, quando ancora non c’era l’abitudine di perseguire fino in fondo queste situazioni».

Cos’è che ti ha più soddisfatto in quei mesi da assessore?
«Le premesse per il dimensionamento scolastico, i quattro circoli didattici. Opera mia che poi ha completato da assessore Raffaele Mollo. Per la cultura avevo alcuni progetti che non ho potuto realizzare, in primis quello di portare qui a Sant’Anastasia personalità come Igino Giordani, avrei voluto anche il responsabile dell’economia di comunione e molti altri».

Hai citato personalità di spicco come Giordani, cofondatore del Movimento dei Focolari. Cioè portatori della «tua» cultura…
«Anche altri dovevano dare input, non avrei escluso certamente proposte diverse e non solo dell’area cattolica. Avevo poi progettato l’istituzione di un conto corrente postale dedicato al Centro Liguori, in modo che tutti i cittadini e gli imprenditori in particolare potessero dirottarvi le proprie donazioni, da integrare con manifestazioni pubbliche a pagamento con ricavato da devolvere al netto dalle spese. Perché il Centro Liguori è uno dei fiori all’occhiello dell’era Iervolino e nelle nostre intenzioni doveva accogliere bambini e ragazzi da tutta l’area, magari pensando a “filiali” in altri paesi limitrofi».

Se dovessi raccontare che sindaco è stato Iervolino?
«Direi che si è ritrovato a doversi costruire come sindaco. Ed è stato un sindaco che riusciva a capire bene le persone e che si è circondato di ottimi e capaci collaboratori. Come Aldo Tammaro, grande lavoratore, silenzioso, educato, che portava sempre a termine ciò che gli era affidato. Come Tullio Cannavina, che insieme ad Enzo ha costruito il centro sociale, c’era Enzo Melucci che con l’ambiente e l’Amav ha fatto un ottimo lavoro e chi oggi si scaglia contro quella scelta dimentica quale era la condizione della nettezza urbana a Sant’Anastasia prima di allora. Invece si è voluto distruggere tutto quel lavoro».

Si è dato anche lavoro a parenti e amici, no? Non è l’insinuazione di un politico, chiunque sia, ma un fatto.
«Alcune cose le ho avversate, ma la maggior parte delle insinuazioni fatte negli ultimi anni non sono vere o comunque non sono come le si presentano. Mi piacerebbe molto che su questo e molto altro si esprimesse lo stesso Iervolino che non ha più parlato della sua esperienza decennale in pubblico. Se lo intervistassi sarebbe un grande merito storico perché il buono e il meno buono di quegli anni, quello che era condivisibile ed altro che lo era meno, è ancora in penombra, per non dire nel buio».

Ci penserò, se accetterà. Mi dici chi, a tuo parere, è stato il miglior assessore di Iervolino?
«Aldo Tammaro».

Il peggiore?
«Nessuno di loro si può definire tale, hanno lavorato tutti. Spesso non ho condiviso fino in fondo l’operato di Carmine Capuano e Pasquale Granata».

Un errore compiuto da quell’amministrazione in dieci anni?
«Uno di sicuro grave: ritirare il provvedimento che istituiva il senso unico a Madonna dell’Arco. Non bisognava tornare sui propri passi. Ci sono stati anche errori politici, in particolar modo nei momenti in cui io ero più lontano, era diventato difficile gestire le singole personalità che non erano più gruppo. Capuano voleva fare il sindaco, Granata pure. Altro errore grave, stavolta politico, è stato alle provinciali 2004. Un sindaco non può consentire che la maggior parte dei suoi assessori si candidino. Io fui il più votato di Sant’Anastasia, allora. Capuano arrivò secondo. Se non ci fossero stati anche gli altri forse saremmo stati entrambi eletti».

Nessun’altra pecca?                                                                                                                   

«L’incapacità di risolvere il problema di via Fusco riguardo l’acqua e l’illuminazione. Più che altro non sono ancora edotto su come ci sia riuscita in seguito l’amministrazione Esposito ed ho molti dubbi sulla soluzione perché noi abbiamo davvero vagliato ogni cosa, eravamo lì tutti i giorni. Ho chiesto ai consiglieri comunali Pd di recuperare tutti gli incartamenti ma ancora non ne ho notizia».

Saranno stati più bravi…o pensi che si sia forzata qualche procedura amministrativa?
«Ma certo che l’avrà forzata, bisogna vedere in che modo e in che termini».

Non pensi che un sindaco, per risolvere un problema della città, debba essere disposto a fare anche questo?
«La regola è la regola, la legge è legge e un sindaco non deve andare contro la legge. L’uomo non è fatto per la regola ma è quest’ultima ad essere fatta per l’uomo. Una interpretazione va data, se in virtù di questa si forza un po’ la mano va bene, ma i cittadini devono saperlo».

Il presidente della Regione, Vincenzo De Luca, l’ha forzata più volte la mano, da sindaco. Anzi, rispetto alle procedure, appare proprio insofferente anche oggi.
«A me non importa ciò che dice lui, io la penso così».

Le realizzazioni più importanti di Iervolino?
«Noi le opere pubbliche le abbiamo fatte davvero, non è che facciamo lievitare il conteggio di quanto realizzato inserendoci la posa di un manto di asfalto su una strada. Abbiamo fognato il 75 per cento del paese, da allora non è stata mai più fatta una fogna. Abbiamo dato vita all’Amav, al Centro Liguori, assicurato l’ampliamento del cimitero con il progetto di finanza, costruito la scuola in via Romani, il bocciodromo, risanato l’intera zona intorno a quella parrocchia, lasciato tutto pronto per la realizzazione della scuola in via Rosanea, innovato completamente gli impianti elettrici nelle strade che ora dovrebbero essere cambiati ricorrendo alle nuove tecnologie. L’elenco è lunghissimo, basta dire che l’amministrazione Iervolino ha cambiato Sant’Anastasia».

Quei dieci anni di governo finirono nel 2007. Alle amministrative ci fu la sfida Antonio Dobellini – Carmine Pone, preceduta dalle primarie del centrosinistra vinte appunto da Dobellini. Il giorno del ballottaggio, se non ricordo male, tu andasti al mare.
«Sì, andai al mare. Fino ad allora avevo contribuito, laddove potevo, a tenere insieme il gruppo, a fare da amalgama. Invece mi trovai davanti ad una coalizione che fece scelte balorde per sé stessa. Enzo Iervolino era stato sindaco per dieci anni, il suo partito – quello che noi avevamo fondato – la Margherita, non lo volle come capolista. Decidemmo di chiedere ai socialisti di Capuano di ospitarlo come tale ma anche quello, alla luce dei fatti, fu un errore. Andai al mare perché non potevo condividere una scelta di discontinuità con la grande esperienza dalla quale arrivavamo».

E vinse Carmine Pone, pur senza maggioranza in consiglio comunale. Qualcuno dei tuoi commentò cosi: «Se non possiamo decidere chi vince, decidiamo almeno chi perde».
«A dire il vero io non credo ci sia un solo responsabile e d’altronde ad oggi io e Antonio Dobellini siamo amici e abbiamo messo una pietra sopra tutto, ciascuno di noi ha fatto il mea culpa. Ho sbagliato a non sostenerlo, nella mia testa avevo i motivi giusti per non farlo, ma avrei dovuto. Diciamo che mi sono lasciato sopraffare dall’esuberanza giovanile».

Giovanni, era il 2007. Avevi 58 anni…
«Appunto, ero giovanissimo. A volte i principi sopravanzano la ragionevolezza ma aiutano gli stessi principi a realizzarsi, è questo il concetto».

Carmine Pone che sindaco è stato?
«Non giudicabile, una meteora».

Hai usato la stessa definizione per il padre.
«Perché è così. Io gli avevo suggerito di andare in consiglio comunale, di dire chiaramente come stavano le cose, scegliere alcuni problemi impellenti e inderogabili da risolvere e poi tornare alle elezioni, senza fare la compravendita di consiglieri comunali. Se fosse andato alle urne subito dopo aver fatto ciò, avrebbe rivinto di sicuro.

Pare che tu abbia il pallino, l’ossessione direi, dei governi di «salute pubblica».
«Io ho un solo pallino: rinnovare la politica. Mi approccio ad essa come servizio al paese, tento di trovare soluzioni che possano ovviare ai problemi politici di maggiore evidenza. Le necessità del momento sono imprescindibili per trovare e dare una risposta al paese».

Nel 2009, Pone si dimise. E il futuro sindaco Carmine Esposito cominciò subito a preparare la sua campagna elettorale, dal giorno successivo, come ha dichiarato. Tu decidesti di forzare la mano e riuscisti a spuntarla e ottenere la candidatura sotto l’egida del simbolo Pd, ma con un iter quanto meno inusuale…
«Che il candidato avversario sarebbe stato Esposito era chiaro e io ero l’unico ad avere la possibilità di contrastarlo. Da qualche tempo non frequentavo quasi più la sezione, sapevo di incontri che erano in corso a destra e manca che però non tiravano fuori un ragno dal buco, così decisi di fare qualcosa per muovere le acque. I momenti più difficili mi stimolano, mi danno la spinta per produrre, realizzare. Così preparai un manifesto annunciando ai cittadini che volevo candidarmi e che volevo incontrarli per chiedere loro cosa ne pensassero. Un ragionamento lineare, no?».

In pratica hai fatto una «proposta» che non potevano rifiutare…
«Ma potevo fallire, ci provai. Vennero circa trecento persone. Nel partito successe il putiferio ma comunque nessun altro si fece avanti. Io sbattevo i pugni sul tavolo chiedendo di fare altri nomi se li avevano, di tirarli fuori, di scoprire le carte. Se fossero stati più adeguati del mio avrei rinunciato immediatamente alla candidatura. La spuntai ma si ebbero una moltitudine di defezioni, correvo con una lista di venti giovani, il più anziano era Franco Casagrande. Nessun nome dei maggiorenti di partito».

Perché il candidato eri tu o non lo avrebbero fatto comunque?
«Alcuni perché il candidato ero io, altri perché annusavano già la sconfitta».

Tu non la annusavi?
«Certo, l’ho detto subito ai miei giovani in lista che spuntarla sarebbe stato difficilissimo. Avevo un po’ di speranze quando il ballottaggio toccò a me contro Esposito. Solo per poche ore, in verità. Sapevo che avrei perso».

Perché hai perso?
«Ho perso perché Carmine Esposito seppe parlare alla pancia della gente, io no. Persi perché non sapevo e non potevo condividere quel metodo. Sugli abbattimenti, per esempio. Io andavo a casa delle persone e mi dicevano che Esposito era stato lì, aveva detto che non avrebbe fatto abbattere gli abusi. Mi chiedevano di fare lo stesso, avrebbero votato me. Io dicevo genuinamente la verità, cioè che un sindaco è semplice esecutore delle sentenze, tant’è che Esposito in qualche caso, da sindaco, vi è stato costretto. Idem per la zona rossa, io invocavo l’applicazione dell’articolo 3 della legge 21, cioè i ristori, i sovvenzionamenti ma anche l’allargamento dei confini perché potessero dirsi ragionevoli».

Li invocava anche lui i ristori, credo abbia ripetuto almeno mille volte l’esempio dell’asse dello sviluppo spostato verso il casertano…
«Non è così, sulla storia della Zona Rossa c’è un prima e un dopo per ciò che concerne le affermazioni di Esposito. Anche perché di lui si può dire tutto tranne che sia uno stupido. In campagna elettorale sosteneva che non avrebbe mai costruito le vie di fuga, che la zona rossa andava eliminata, faceva l’esempio di due giovani che vogliano sposarsi senza andare via di qui e che dunque dovevano avere la possibilità di costruirsi una casa, tant’è che per quest’ultima affermazione lo soprannominai il “romantico nero”. Solo dopo ha corretto ampiamente il tiro, ma era già stato eletto. Mi dicevano che dovevo fare lo stesso, che se lui affermava di voler aprire alla realizzazione di palazzi ad un piano io avrei dovuto prometterne dieci…ma non potevo, non avrei saputo essere altri che me stesso, con le mie convinzioni».

Al primo turno il risultato era scontato, si trattava solo di sapere chi tra te e Paolo Esposito sarebbe andato in ballottaggio con colui che è poi diventato il sindaco. Ma il secondo turno è, per così dire, un’altra elezione. Potevi giocartela. Invece?
«Sì, potevo giocarmela. Se Paolo Esposito avesse fatto con me allora quel che ha fatto con Antonio De Simone nel 2014, forse avrei recuperato, chissà. Come se non ci fossero stati veti incrociati su possibili sostegni, anche senza apparentamento formale».

Hai un rimpianto, qualcosa che avresti potuto fare e non hai fatto?
«Non dovevo affidarmi a nessun altro, né fidarmi. Paolo Esposito mi rinfaccia di non essere andato da lui di persona e su questo non ha tutti i torti, ero il capitano e dovevo prendere l’iniziativa. Però gli ho mandato a dir poco un migliaio di messaggi, nemmeno agli auguri di Pasqua ha risposto. Il fatto è che pensava di avere in mano il ballottaggio, quel divario di soli 80 voti non lo ha più fatto ragionare lucidamente. Ecco, se ho un rimpianto è non essere andato da lui, non aver bussato a casa sua. Per il resto ho spinto fino in fondo, cercando di smascherare quelli che secondo me erano i bluff di Carmine Esposito ma non mi è riuscito. Parlava troppo con il linguaggio che la gente voleva ascoltare e sfruttava il fertile humus contro il governo Iervolino che anche i nostri avevano contribuito a diffondere in precedenza, questo ha giocato molto».

Quaranta mesi di opposizione in consiglio comunale. Con scontri accesissimi che però sulla popolarità di sindaco e maggioranza avevano poco effetto se non sui social…
«Se avessi avuto la disponibilità economica gli avrei fatto vedere i sorci rossi al sindaco Esposito, ma avevo già speso tantissimo per la politica, investendo centoventi milioni per la campagna elettorale al Senato, quasi la metà per la campagna provinciale, diecimila euro per quella da sindaco».

Aspetta, innanzitutto credo che tu intendessi i «sorci verdi».
«No, intendevo proprio rossi, come i garofani che lui ostentava».

Cosa c’entra la disponibilità economica, mi stai dicendo che per fare politica – anche dall’opposizione e non solo in campagna elettorale – ci vogliono i soldi?
«Sì, ci vogliono i soldi, inutile prendersi in giro. Anche volendo fare una serata in piazza con un palco e un impianto di diffusione il minimo da spendere è 4/500 euro».

Perciò secondo te può avere dignità e cittadinanza politica solo chi ha possibilità economiche?
«I partiti potrebbero ovviare a tutto ciò divenendo comunità operante, però questa idea è ancora allo stadio di larva».

Allora se avessi avuto le possibilità, come le chiami tu, cosa avresti fatto?
«Avendo io preso l’iniziativa per candidarmi a sindaco, avendo fatto una scelta e avendo assunto una personalissima presa di posizione con il paese, me ne sarei fregato di tutto e di tutti e avrei fatto un comizio in piazza a settimana. Non ho potuto. A un certo punto me ne è pure passata la voglia».

Ma lo hai fatto in consiglio comunale, ricordano tutti gli scontri tra te e il sindaco Esposito che spesso hanno raggiunto picchi degni di una sala cinematografica, veniva da portarsi dietro i pop corn…
«A me spiacevano quegli scontri violenti, caratterialmente non mi ci ritrovo in quei toni».

Ti spiacevano ma non disdegnavi di provocarli.
«No, questo non è vero».

Vuoi dire che non è mai stata tua intenzione stuzzicare le reazioni di Esposito?
«L’avrò fatto qualche volta. Ma non la chiamo provocazione bensì ironia, anzi meglio: vis polemica. Sono miei aspetti caratteristici l’ironia e la forza polemica, poi non so quanto riesca ad usarli bene, tutto dipende dai limiti personali. Il fatto è che bastava io alzassi un dito o cominciassi a proferire parola per scatenare la sua reazione e quella dei suoi amici. Ma era lui ad eccitarne gli animi, non certo io che svolgevo il mio ruolo di oppositore».

Che considerazione hai di Esposito sindaco?
«Ha vinto su argomentazioni inesistenti e non è stato capace di progettare le cose che davvero servivano al paese, lo considero il peggior sindaco di Sant’Anastasia».

Eppure il popolo che lo ha votato, quello alla cui pancia ha parlato – per usare le tue parole – anche quando la sua consiliatura è finita, per motivi che non indurrebbero certo alla popolarità, gli è stato accanto, non si è smosso di un millimetro. Perché, a tuo parere?
«Adesso non credo sia più cosi, ma per un lungo periodo devo riconoscere che hai ragione. Tanto è vero che ha rivinto le elezioni perché è chiaro che nel 2014 abbiano votato per lui, non certo per Lello Abete il quale non era in grado di vincere. La vittoria è stata di Carmine Esposito, non c’è dubbio. Che dire, bisognerebbe studiare il fenomeno dal punto di vista sociologico, comprendere la condizione psicologica di massa che ha provocato tutto ciò».

Gli hai consigliato più volte, dai banchi di opposizione, di non sciogliere l’Amav. Se per una volta ti avesse ascoltato, credi sarebbe ancora sindaco?
«Ho rivisto i verbali di consiglio. Ebbi a dire queste parole: «Se distruggerai l’Amav e farai entrare ditte private in questo servizio, non finirai la consiliatura». Pare sia stato profetico. Sì, probabilmente sarebbe ancora sindaco».

Non riconosci a quella amministrazione alcun risultato in quaranta mesi di governo?
«Ha asfaltato le strade, piantato fiori, comprato e sistemato panchine. Se un sindaco non fa almeno questo…non mi risultano progetti importanti se non quello della Caserma dei carabinieri per cui non si sono però reperiti finanziamenti. Ho letto, nell’intervista che ti ha concesso, che non si è scrollato di dosso una negatività amministrativa della Prima Repubblica, quella di commissionare progetti senza finanziamenti. Un vecchio modo di amministrare che nemmeno la legge prevede più e che non condivido. Se si andasse a scavare nei cassetti di Antonio Manno si troverebbero i progetti del superamento del passaggio a livello di via Pomigliano, l’istituzione di un grande parcheggio alla spalle della Circumvesuviana di Sant’Anastasia e altri, ma queste cose non possono fare storia, non possono caratterizzare la vita amministrativa».

Dimmi la verità, ti mancano un po’ quei battibecchi?
«Molto, mi divertivano».

Non so, telefonatevi, organizziamo un dibattito pubblico, un revival.
«Lo farei, se non sapessi che lui non è capace di andare oltre. Io sarei stato capace di litigare in consiglio comunale e poi di scherzare e andare a cena insieme. Esposito ha invece una incapacità innata e caratteriale di far questo, se ti considera politicamente un suo nemico, se ti percepisce come avversario, non ti saluta nemmeno. Abbiamo fatto “pace” più volte ma dopo due giorni trovava nuovamente il modo di litigare, non credo cambierà mai».

Come tu stesso ricordavi, nel 2014 il centrosinistra ha perso nuovamente le amministrative. Perché non ti sei ricandidato?
«Ero il candidato naturale, è vero. Ma la mia famiglia non ha voluto e ho scelto di assecondarne la volontà».

E ritieni che la scelta del Pd di proporre Antonio De Simone a quella carica sia stata, col senno di poi, giusta?
«Il fatto è che Sant’Anastasia è ancora sotto l’influenza malefica delle divisioni. Non era sbagliata la scelta di Antonio, lo è stata la sua convinzione che la campagna elettorale, dopo il tracollo di Esposito, fosse una passeggiata. Era certo che avrebbe vinto senza problemi proprio per questo. Lo ha rimarcato in quasi tutti i comizi, non comprendendo che la pancia della gente era ancora con il sindaco precedente. Non capire questo è stato l’errore».

Tu invece cosa avresti fatto?
«Avrei puntato sulle negatività amministrative che c’erano state ed erano tante, sulle nostre progettualità, sulla pacificazione della comunità, sullo sviluppo».

Dell’attuale sindaco, Lello Abete, che considerazione politica hai?
«Abete è fortunato e sfortunato al tempo stesso. Fortunato perché ha vinto sulle orme impresse dallo zio, sfortunato perché, essendo appunto il nipote del sindaco precedente, deve camminare su una strada stretta, non può sbagliare. Non può consentirsi nemmeno un piccolo errore o una svista».

Pensi che abbia fatto un errore azzerando la giunta l’estate scorsa?
«Sì, un errore politico gravissimo. Comprendo i motivi di quella scelta, lui non può certo dirlo ufficialmente ma “liberarsi” degli uomini più legati ad Esposito era comprensibile. Ma avrebbe poi dovuto compiere un “volo d’aquila”, optare per un governo di salute pubblica».

Cioè cooptare le opposizioni nel governo. Ma io credo che lui ritenga il suo governo in ottima salute, perché optare per una soluzione che presuppone una crisi o una mancanza di numeri in consiglio che non c’è?
«Perché al paese occorre una grande riconciliazione e non può certo farla una parte sola. Non avrebbe potuto farlo nemmeno il Pd, se avesse vinto. Quando ci si trova dinanzi a situazioni in cui la comunità, a torto o a ragione è dilaniata, con l’aggravante della crisi etica o economica, l’unica scelta è quella che ho detto io. Ma Lello Abete ha pensato alla sua salute, non a quella di Sant’Anastasia».

Nelle ultime due consiliature c’è un assessore o un consigliere comunale, uomo o donna che sia, che ritieni valido, del quale pensi che abbia lavorato bene?
«Con Carmine Esposito non so dirti, perché nessuno di loro aveva voce in capitolo, era lui il Deus ex Machina dunque pure chi aveva qualche qualità non è riuscito ad esprimerla. Non escludo che la maggior parte delle persone che si espongono in prima linea e ci mettono la faccia abbiano la vocazione e dunque la possibilità di esprimere il meglio di se stessi. Con Lello Abete, meno protagonista, vedo muoversi qualcosa: giovani che magari avendo spazio possono commettere errori, ma io lo dico sempre anche ai ragazzi del mio partito, “prendete iniziative, se sbagliate avrete fatto l’esperienza dell’errore e non lo commetterete più”. Trovo per esempio il consigliere Alfonso Di Fraia un giovanotto valido, anche se non ne condivido la provenienza politica, certo dovrebbe moderarsi di più. Anche Ciro Pavone, ex capostaff di Esposito e per un certo periodo di Abete, è una personcina intelligente ma piena di sé e mancante del rispetto verso le vecchie generazioni. Dovrebbe costruirsi un solido retroterra e capire che spesso non si può essere d’accordo ma la politica non può divenire un mezzo per essere sempre contro tutto e tutti. Ti dirò, lo trovo addirittura più irritante di Carmine Esposito, ed è tutto dire».

Ciro lo prenderà come un complimento.
«Non lo è».

Ti sei detto spesso profetico: secondo te Lello Abete governerà cinque anni?
«Difficile dirlo, se avesse fatto la scelta di aprire a tutti ti avrei risposto di sì».

Questa «proposta» di un governo di salute pubblica ti sei limitato a lanciarla dai social network, senza peraltro ricevere nemmeno un like, o l’hai girata ai tuoi? Perché sai, scriverla su Facebook ha un valore, portata in consiglio comunale dai tuoi sicuramente assume una connotazione diversa. L’hai veicolata al Pd?
«Certo che sì».

Capisco. Che opposizione ha il sindaco Abete?
«Molto poco produttiva. Non c’è un corpo che si muova con una finalità specifica».

Credi davvero che, parlo di una tua proposta ante elezioni, si sarebbe potuto governare il paese con una coalizione che andasse da Rifondazione Comunista a Forza Italia?
«Sì, senza problemi. Ho lavorato per questo. Il principio è elementare: quando devi realizzare un progetto non puoi servirti delle idealità che non esistono ma devi usare le realtà umane che ti circondano. Ecco la concretezza. In questi giorni sto leggendo il libro della ricercatrice Silvana D’Alessio che ha la prefazione del professore Aurelio Musi, mio consuocero: «Per un principe “medico publico” – il percorso di Pietro Andrea Canoniero» che fu medico, filosofo, teologo e attento analista politico. L’analogia tra medicina e politica fonda l’ideale di Canoniero: è il principe “medico publico”, un sovrano che è insieme iudex e medicus. Va oltre la cinquecentesca disputa delle arti che si fonda sulla superiorità della scientia juris sulla medicina ma sostiene il primato di quest’ultima come modello per il legislatore e l’uomo politico. Un saggio che fa pensare giustamente alla medicina come punto di riferimento della politica, cosa alla quale pensavo anche prima di cominciare a leggerlo. Perché il medico non lo è solo per l’ammalato ma anche per la situazione che lo circonda, per l’ambiente, ha una spiccata propensione ad affrontare le problematiche nel suo complesso».

L’interpretazione che dovrei dare a tutto ciò porta ad una domanda: se fossi diventato sindaco, avresti curato Sant’Anastasia?
«Sì, certo. Il medico e soprattutto il chirurgo d’urgenza analizza in pochissimo tempo la situazione critica dell’ammalato, tra tutti i sintomi deve sfrondare dai fronzoli e fare una diagnosi. Capire se occorre un intervento chirurgico immediato o può essere curato con mezzi medici. Nel momento in cui decide di operare non ci sono più mediatori per la salute dell’ammalato. È lui che opera, sono le sue mani che fanno. Questa capacità, trasferita all’ecologia, ai problemi sociali e politici, crea una mentalità di analisi, di sintesi, di risoluzione dei problemi che solo un medico può avere».

Il Movimento dei Focolari. Come ti sei avvicinato a questa realtà, cosa è stata per te, cosa è adesso per te?
«Ero nella Fuci quando a Sant’Anastasia arrivò don Virgilio Marone e cominciò ad invitare i giovani ad alcuni incontri. Io mi informai e sentii parlare per la prima volta del movimento dei Focolari e soprattutto di Loppiano, questa cittadella fondata da Chiara Lubich nel 1964 in cui i cittadini si impegnano a mettere in pratica l’ideale dell’unità. Questa cosa mi attrasse, anche perché ricordai immediatamente che padre Oreste Casaburo, monaco francescano con il quale studiavo filosofia e teologia, ci parlò una sera di una città nei pressi di Firenze dove era sorta questa comunità che testimoniava l’amore di Dio, l’avevano chiamata città di Maria, cioè Mariapoli. Collegai le due cose, cominciai a frequentare il Movimento e per me fu subito come trovare la mia strada, sia dal punto di vista religioso che dell’incarnazione del messaggio evangelico, ma anche dal punto di vista della politica con la P maiuscola. Ero già all’Università quando mi avvicinai ai focolarini, nel 1973, credo».

Effettivamente il Movimento ha avuto molto peso nella politica cittadina in un certo periodo. Era questa l’intenzione originaria?
«No, è stato un caso e forse da questo punto di vista abbiamo perso una grande occasione perché molti tra coloro che ne costituivano l’ossatura politica e amministrativa avevano avuto più o meno contatti con il Movimento».

Occasione persa in che senso? Un sindaco focolarino ha governato dieci anni, circondato da molti appartenenti al Movimento, a me non pare…
«Nel senso che, chissà per quale motivo, abbiamo lasciato un cattivo ricordo del quale anche lo stesso ex sindaco Esposito ha approfittato riferendosi ai focolarini come “setta chiusa”».

Più che di cattivo ricordo parlerei di percezione, della sensazione che un movimento religioso si sia prefisso l’intento di influenzare la vita politica del paese.
«Ma la religione è questo. È vita relazionale, non è un’altra cosa, non è ideologia. Il Vangelo è un modo di vivere, coinvolge la politica, l’ecologia, l’economia, tutto. Contaminare la politica con le idee di Chiara Lubich non sarebbe stato un aspetto negativo. Probabilmente non abbiamo saputo farlo al meglio o, più plausibilmente, è stato interpretato in modo diverso».

Che importanza ha avuto nella tua vita don Virgilio Marone?
«È stato una figura importantissima per me e credo lo sia stato anche più in generale per Sant’Anastasia. Non abbiamo contatti da tempo ma è stato il sacerdote che più mi ha introdotto nella vita intima del Vangelo. Continuo la mia esperienza nel Movimento da interno, da volontario dell’Opera di Maria».

L’unico Movimento al cui vertice c’è sempre una donna.
«Si, Chiara ha voluto così. Ed oggi il Papa parla il linguaggio della Lubich, lo riconosco in ogni suo atto, in ogni parola. Non voglio dire che il pontefice Francesco sia focolarino ma che la Chiesa sta vivendo perfettamente il proprio tempo e che lui è un Papa adeguato alla nostra era».

Hai «vissuto» molti Papi. Francesco è colui che senti più vicino?
«Sì, ho addirittura intuito prima che si sarebbe chiamato così».

Hai intenzione di continuare l’impegno politico?
«Come “padre nobile”, se mi è concessa questa dicitura. Stando al di fuori delle responsabilità, offrendo consigli, aiutando».

I figli adolescenti hanno sempre problemi con i genitori, lo sai.
«Sempre».

Ti riconosci senza dubbi nel Pd e nell’attuale segreteria locale?
«Non condivido complessivamente il modo di fare pedissequo di limitarsi ad una poco incisiva opposizione ed esclusivamente in consiglio comunale, bisogna dialogare con il paese».

Se fossi diventato sindaco, avresti rinunciato a fare il medico?
«Sì, avrei dovuto farlo per forza ed ero pronto. Oggi le città hanno bisogno di sindaci a tempo pieno, non so con quanta convenienza e quanta perdita economica, ma bisogna far così. E la politica va remunerata, non concordo con chi sostiene che i sindaci o gli assessori dovrebbero rinunciare agli emolumenti. Nel modo giusto, con i dovuti controlli, con la saggezza di chi riceve, ma va fatto perché è un lavoro difficile e non per tutti».

Hai sempre lavorato all’Ospedale Apicella di Pollena. Lo hai visto svuotarsi, hai visto sottrare competenze e poi il Pronto Soccorso.
«Si, l’ho visto svuotarsi, addirittura da direttore sanitario. Sotto la mia dirigenza si decise di eliminare per esempio l’ortopedia, la pediatria. Il danno maggiore, soprattutto per la popolazione, è aver eliminato il pronto soccorso, un grande disagio giacché il più vicino è a 30 chilometri. Ora ci sono solo ambulatori e il Day Surgery polispecialistico, sono responsabile di tutta l’organizzazione che soprassiede alle attività chirurgiche e funziona benissimo. Siamo al 31, 81 per cento in più dell’anno scorso. Il problema dell’Apicella, per un certo periodo, è stata la mancanza di collaborazione di tutte le dirigenze per farlo crescere, adesso le cose stanno andando meglio».

Attività privata ne hai fatta?
«In passato si, poi non più».

Quanti anastasiani avrai operato?
«Se avessi la possibilità di avvicinare tutti quelli che ho operato non sarei solo sindaco ma deputato o anche qualcosa in più».

Non hai mai usato la tua professione per intercettare voti?
«Non avrei nemmeno saputo farlo, non ho mai stilato per esempio un elenco di persone. Nel periodo in cui ero medico della mutua, e seguivo i miei ammalati, sapevo dove abitavano e andavo a chiedere il voto come a chiunque altro, ma non ho mai chiesto se alla fine mi avevano votato davvero. Non condivido né imposizioni né “do ut des”».

L’episodio che più ha segnato la tua vita di medico?
«È accaduto una quindicina di anni fa. Era una domenica ed io ero a casa, reperibile. Squillò il telefono e il collega di servizio mi comunicò che erano arrivati in ospedale due ragazzi dopo un incidente di moto. Uno era in sala mortuaria e non c’era più nulla da fare, l’altro era in sala operatoria. Mi disse di far presto perché la situazione era gravissima. Quando arrivai in ospedale trovai la camera operatoria pronta e l’anestesista, nessun altro chirurgo, erano tutti impegnati in altri casi gravi.  Infilai camice, cappellino, maschera, guanti e aprii l’addome da solo. Se mi chiedessi come ho fatto a togliere la milza a quel ragazzino di diciassette anni non saprei rispondere. Aveva lo stomaco lacerato, la milza rotta. Ad un certo punto venne a darmi una mano un altro collega medico, ma l’anestesista notava che il paziente non riusciva a riprendersi e ci accorgemmo per caso che sotto il lettino c’era un mare di sangue.  In pratica aveva un buco dietro la schiena come se qualcosa, forse il cavalletto della moto, gli fosse penetrato in cavità. Dovetti aprire e trovai l’arteria renale completamente lesionata, occorse rimuovere anche un rene. Tolta la milza, ricostruito lo stomaco e tolto il rene, mi sentivo un eroe, un grande chirurgo, forse fu fino a quel momento l’operazione più difficile che avessi portato a termine con successo. Uscii per dare ai parenti la notizia che il ragazzo si sarebbe ripreso. Non trovai nessuno tranne che, in un angolo, una donna di età indefinibile che era l’immagine del dolore. Capii che poteva essere la madre e mi avvicinai, le dissi che il figlio era salvo, le raccontai dell’operazione. E lei mi disse, raggelandomi “Non potevate farlo morire?”. Capii solo più tardi quelle parole. Il ragazzo era un drogato che secondo la famiglia aveva fatto morire il padre di crepacuore a furia di picchiarlo e altrettanto faceva con la madre. Non ho avuto il coraggio di entrare una sola volta nella camera del paziente, non dimenticherò mai quella mamma così abbrutita dal dolore, incapace di venirne fuori, che vedeva il suo domani così nero tanto da aver desiderato che il figlio morisse. Non so, magari si sarà pentita di aver pronunciato quelle parole il minuto dopo, fatto sta che le disse. Quando ci si trova di fronte ad un dolore immenso, all’incapacità di affrontare i problemi per cui non c’è struttura sociale, rapporto umano, sovvenzione, sussidio, nulla che possa sedare una sofferenza tanto grande, solo se Dio esiste questo dolore può essere compreso e trasformarsi in qualcosa di diverso».

E Dio esiste?
«Certo che esiste. Sarebbe una grande tragedia se così non fosse. Io sono un pascaliano, un fautore delle teorie di Blaise Pascal: lui diceva che dovremmo vivere come se fosse un gioco, una scommessa. Soprattutto come se Dio esistesse perché, se è così, quando uno muore potrà godere dell’eternità pur avendo perso qualche soddisfazione terrena. Se invece si vive come se Dio non esistesse, ci si potrà prendere tutti i piaceri del mondo ma non si vivrà l’eternità. Per la legge della probabilità è conveniente vivere come se Dio esistesse. Posto, naturalmente, che io ne ho l’assoluta convinzione».

Che cattolico sei?
«Praticante e convinto che la soluzione di tutti i problemi sia costruire la comunità tra le persone».

Il tuo peccato preferito?
«Ho subito l’influsso del fascino e della sensualità femminile. Sono un sensuale come lo è stato Sant’Agostino il quale mi accompagna ogni giorno con le sue Confessioni. Ho il testo sul comodino, leggo almeno un paragrafo al giorno».

Non ti sei sottratto nemmeno alla gola…
«È vero. Si ritiene che sia un peccato minore ma non è così, ne parlavo di recente con alcuni amici. Leggendo l’enciclica “Laudato sii” di Papa Francesco quest’estate, ho compreso fino in fondo come sia un peccato gravissimo visto tutto ciò di cui manca l’umanità. Un segno di egoismo».

C’è un dogma della religione cattolica che non comprendi?
«Mi è difficile cogliere fino in fondo l’aspetto Trinitario. Ma Sant’Agostino e Chiara Lubich mi aiutano anche in questo: l’unità della famiglia, della comunità, sono possibili perché la vita trinitaria diviene un modo con cui concretizzare l’unità nella molteplicità. Sono tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo ma l’amore che li lega li fa uno. Questo è un Mistero, ma noi possiamo sperimentarlo nell’unità familiare e in quella della comunità».

Che marito, padre e nonno sei?
«Non sono sempre stato un buon marito e avrei potuto essere più presente come papà ma quando si è trattato di affrontare i problemi mi ci sono dedicato totalmente. Credo di essere un buon nonno, faccio percepire alle mie nipotine tutto l’amore che ho per loro, fino in fondo, anche se non dedico tutto il tempo che vorrei».

Se non avessi fatto il medico?
«Sarei stato un missionario o un sacerdote».

Non ci hai mai pensato seriamente a diventare sacerdote?
«A cinque o sei anni, piccolissimo, dicevo di voler fare il Papa».

Di poche pretese fin da allora…
«In verità mi ha sempre affascinato il momento della Consacrazione, se non avessi avuto coscienza di cosa voglia dire farsi sacerdote, pur di consacrare lo avrei fatto. Per avere contezza del ruolo in quel momento di transustanziazione della materia, un mistero che nessuno di noi può spiegarsi».

Hai amici omosessuali?
«Pochi».

Pensi che la loro sia una forma d’amore che ha dignità di riconoscimento civile?
«Fin quando non si avrà la capacità di comprendere l’essenza della sessualità loro sono liberi di avere un riconoscimento civile della loro unione, mai un matrimonio e mai l’adozione di un bambino».

Che intendi per “comprendere l’essenza della sessualità”?
«Parlo da uomo di scienza. Io non so cosa sia l’omosessualità, fino a qualche tempo fa chi si definiva tale era contemplato nei manuali di psichiatria come se fosse affetto da una forma di schizofrenia. Oggi non c’è più alcun fondamento per dire ciò. Non si tratta di aberrazioni cromosomiche né di questioni ormonali. Non c’è nulla. Un prelato importante ha detto di recente che omosessuale si nasce e io ho potuto constatarlo con un paio di diagnosi a bambini di tre o quattro anni. Ebbi l’intuizione dal loro modo di comportarsi che così fossero e così si sono rivelati essere. Per il resto, diritti civili sì. Però se un domani – e credo che questo accadrà – la Chiesa concedesse la possibilità ai preti di sposarsi, questo non potrà applicarsi ai sacerdoti che siano omosessuali. Resta un atto contro natura, ciò che con papa Francesco sta cambiando è l’accoglienza».

Saresti d’accordo nel legalizzare le droghe leggere?
«Assolutamente no. La presunzione di combattere il male ammettendone anche un minimo non potrà mai essere una regola».

Cosa pensi dell’eutanasia?
«Non la ammetto. L’accanimento terapeutico però non lo condivido».

L’aborto?
«Un crimine. Trovo gravissimo che intellettuali di spicco possano dire il contrario, se ne fa una questione cellulare ma non è così. Un ovulo e uno spermatozoo, nel momento in cui si fondono, sono già una realtà umana. Dalla loro unione non può nascere una scimmia, un coccodrillo o un pappagallo, solo un bambino. Quella realtà biochimica è già una persona».

Hai mai commesso reati?
«No, se togliamo qualche multa».

Stando al codice penale, quella è una contravvenzione, non un delitto. Mai rubato nulla?
«Le cinquecento lire d’argento dalla giacca di mio padre, quando ero ragazzo. Solo quelle perché mi piacevano, mai qualcosa in più».

Che genere di letteratura ami?
«I classici. Rileggo molto spesso I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, alcune di quelle pagine sono poesia in prosa. Anche Pirandello, ma prediligo i saggi e di recente quelli di economia come “La ferita dell’altro” di Luigino Bruni».

Posso chiederti quanto guadagni?
«Tremila e cinquecento euro al mese».

Cosa fai per aiutare gli altri, per la tua comunità?
«Per quel che mi è possibile presto la mia opera professionale senza tirarmi mai indietro».

Non hai mai preso soldi per le tue prestazioni? A parte il tuo lavoro in ospedale, intendo.
«Qualche volta, mai da chi non poteva permetterselo».

Hai qualche rimpianto?
«No, rifarei tutto quel che ho fatto. Tranne gli errori».

Certo, così sarebbe bello per chiunque. Rimorsi?
«Nessuno».

Il film più bello che tu abbia visto?
«Vado pochissimo al cinema, in tv preferisco i film di fantascienza o gli horror, quelli che raccontano di possessioni demoniache mi attirano particolarmente. Ma c’è un film di tutt’altro genere che ho guardato quando ero adolescente: «I figli di nessuno» con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, mi è rimasto dentro».

Un drammone. Sei romantico?
«Tendenzialmente. Ma cerco di vincere il romanticismo imponendomi la razionalità. Se è al servizio della ragione è un grande pregio, in caso contrario no perché può prendere il sopravvento».

Il gesto più romantico che tu abbia fatto per tua moglie Emilia?
«Le ho dedicato qualche poesia, ma il romanticismo si esprime nella concretezza dell’amore».

Scrivi poesie?
«Sì, ma ho così poca stima del Giovanni Barone poeta che le perdo tutte, sistematicamente».

Quand’è che una donna si può dire bella?
«Quando ha un bel viso, subito dopo un bel corpo e le due qualità unite alla capacità di cogliere il rapporto interpersonale. Nel rapporto con l’altro sesso c’è sempre l’Eros, il desiderio di ciò che uno non ha».

Sei stato un uomo molto corteggiato?
«Diciamo che le donne si sono interessate a me».

Hai dovuto affrontare due interventi importanti, hai due bypass cardiaci. Come ti hanno cambiato la vita?
«Non ho mai vissuto i miei problemi di salute come una tragedia, ho avuto due infarti e a parte il moderarmi negli eccessi l’unica cosa cambiata è il mio approccio con i pazienti, con gli ammalati. Ora so cosa vuol dire star male, capisco le richieste post operatorie, quelle di cibo magari. Prima, da medico, mi arrabbiavo tantissimo quando qualcuno appena uscito dalla sala operatoria chiedeva se fosse possibile aver qualcosa da mangiare. Ne ho colto il senso quando è accaduto a me, quando il paziente ero io e ho assaporato una tazza d’orzo come se fosse nettare degli Dei. Non è il cibo in sé che è solo una metafora, lo si chiede perché ci si sta riconciliando con la vita».

Se domattina potessi partire e raggiungere qualunque luogo del mondo, dove andresti?
«Tornerei a San Pietroburgo, vorrei rivederla in estate e tornarci anche in inverno quando deve avere un fascino particolarissimo».

Quale opera d’arte ti ha impressionato di più tra quelle che hai visto?
«Alcune. La Cappella Sistina che mi ha lasciato affascinato e perplesso al contempo, per le espressioni, i colori, l’armonia dei corpi, è meravigliosa. Ma anche La Pietà di Michelangelo. E una che potrebbero tutti gli anastasiani ammirare ogni giorno: il crocifisso di Madonna dell’Arco, a sinistra dell’altare dove c’è l’icona di Maria. Se lo si guarda ti dà l’impressione che sta per muoversi, che stia per scendere dalla croce. L’ho notato in molte opere d’arte ed è possibile si debba alla conoscenza profonda dell’anatomia e degli effetti delle contrazioni muscolari da parte dell’artista in grado di cogliere lo stadio precedente ad un passo, ad un’espressione».

In quale chiesa di Sant’Anastasia ti senti più a casa?
«In tutte, ma a Santa Maria La Nova in particolare».

Se avessi a disposizione una spropositata somma di denaro, cosa ne faresti?
«Andrei in Nordafrica, lì ci sarebbe tanto da fare».

Anche qui, credo. Ma per te cosa faresti?
«Ci sono tre desideri che nella vita non ho potuto esaudire: imparare a suonare il pianoforte, e per questo credo sia tardi; andare a cavallo, e potrei farlo; comprare un’auto sportiva».

Non hai dimenticato un desiderio? Non ti pagheresti una campagna elettorale? O davvero hai messo un punto?
«Mi candiderei solo se me lo chiedessero e se la mia famiglia fosse d’accordo. In quel caso potrei pensarci, certo il fascino lo sento. Guidare la comunità di un paese per ricostruirla è quel che vorrei, sento di essere nato per farlo».

Che qualità imprescindibili deve avere una persona che vuole fare il sindaco? Che è molto diverso dal fare il politico, non so se concordi.
«Concordo, è diverso. Deve avere la capacità di farsi sentire uno tra tanti nella verità. Necessita di un dialogo costante con i cittadini. Io immaginavo di andare ogni settimana in un quartiere diverso, riunire i cittadini intorno ad un tavolo conviviale per parlare insieme dei problemi di quel rione, dell’illuminazione, delle scuole, delle necessità economiche delle famiglie».

Tu hai già scelto un sindaco, a Sant’Anastasia.
«Ho contribuito a farlo, è più giusto dire così».

Se invece adesso, in questo preciso momento, ti fosse data la possibilità di decidere chi farà il sindaco scegliendo tra i giovani ragazzi che fanno politica nel tuo partito, ma anche più a sinistra, al centro o a destra, chi investiresti primo cittadino?
«Il consigliere Peppe Maiello, nonostante non sia ancora maturo. Dovendo scegliere, scelgo lui. Ti dirò, mi piace molto anche Luigi Corcione, nipote dell’attuale sindaco. Andando un po’ più a destra ci sarebbe il consigliere Di Fraia, un caro ragazzo, ma dobbiamo vedere come evolve».

Nessuna donna, vedo.
«Perché non ne vedo. Avrei voluto che l’avvocato Maria Masi offrisse la sua disponibilità a guidare il paese, ma mi ha sempre detto di no. Sai, la politica richiede una vocazione particolare, devi mettere sempre gli altri prima di te».

Hai la possibilità di chiamare chiunque al mondo e invitarlo a cena una sera.
«Due sere, due cene. Matteo Renzi e Claudia Koll».

Perché?
«Renzi per coglierne fino in fondo la personalità guardandoci negli occhi, mi affascina ma resta sempre un dubbio, qualcosa che non capisco di lui. La Koll per comprendere bene la sua evoluzione da quasi pornostar a donna di grande spiritualità. Mi intrigano le esasperazioni».

Il personaggio storico che ti attrae di più?
«Giulio Cesare, forse per le sue qualità di condottiero».

L’uomo politico di tutti i tempi e quello attuale?
«Attualmente Matteo Renzi, lo seguo perché voglio capire dove ci porterà. Se devo sceglierne uno del passato, sicuramente Aldo Moro».

Lo scorcio di Sant’Anastasia che ti è più caro?
«Il panorama che riuscivo a guardare dal balcone del Parco San Gennaro quando ancora non c’erano altri palazzi davanti. Lo scorcio del paese che si allargava verso la terra felice, fino a Caserta».

Se potessi scegliere un personaggio cui intitolare una strada?
«Il brigante Barone. Non perché sia un mio avo ma per metterne in risalto il patriottismo, anche se non condivido chi rimpiange la corona dei Borboni, che pure hanno fatto molto per la Campania e il Meridione, né quella di altre casate».

A nessun sindaco faresti omaggio di questo onore?
«Una strada? No, nessuno mi ispira a tal punto. Però mi piacerebbe che l’aula consiliare ospitasse i mezzi busti di ciascun sindaco di Sant’Anastasia passato a miglior vita».

C’è un proverbio in cui ti identifichi?
«Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».

L’hai sempre seguito?
«Non sempre, siamo tutti perfettibili, mai perfetti».

Un tuo pregio e un tuo difetto?
«Sono una persona disponibile. Quanto al difetto, mi rendo conto di dar spesso e volentieri l’impressione di voler imporre le mie idee. È una cosa che mi fa soffrire molto perché non è così, non è vero. Sono solo sempre alla ricerca di argomenti che sostengano la mia tesi, perché credo che il dialogo debba partire dalla convinzione delle proprie idee».

Se fossi un animale?
«Un gatto siamese. Bello a vedersi e carezzarsi».

Se ti elencassi un po’ di sindaci di Sant’Anastasia, mi diresti un aggettivo per ciascuno di loro?
«Proviamo».

Giuseppe Liguori.
«Antifascista».

Francesco Beneduce.
«Agricolo».

Giuseppe Pone.
«Amato».

Sabatino Maione.
«Un buon avvocato».

Cosimo Scippa.
«Toscaneggiante».

Augusto Amodio.
«Volenteroso».

Mario De Simone.
«Popolare».

Antonio Manno.
«Affascinante».

Mario Romano.
«Razionale».

Enzo Iervolino.
«Buono».

Carmine Pone.
«Un gran signore».

Carmine Esposito.
«Inadeguato».

Lello Abete.
«Non classificato».

Sant’Anastasia non ha mai espresso un deputato, un senatore, nemmeno un consigliere regionale, i veti incrociati lo hanno sempre impedito. A parte te – ti escludo perché non sia scontata la risposta – c’è qualcuno che avrebbe potuto spuntarla?
«Carmine Esposito, seguendo quel che voleva costruire, sarebbe probabilmente arrivato dove voleva. Per i voti e le capacità, non per le qualità o le caratteristiche politiche. Forse anche Antonio Manno avrebbe potuto, come pure Giovanni De Simone per certi versi. Ma lui era troppo buono».

Ti andrebbe di finire l’intervista con un gioco? Se domattina ti svegliassi sindaco di Sant’Anastasia, come sarebbe composta la tua giunta?
«Vorrei il professore e archeologo Antonio De Simone alla Cultura; l’avvocato Maria Masi alla Legalità e alla Trasparenza; Grazia Tatarella alle Politiche Sociali, Stefania Ferraro – giovane preparatissima del Pd che intuisco molto in gamba – alle Politiche Giovanili, Pari Opportunità e Pubblica Istruzione; Rosaria Esposito al Bilancio, Peppe Maiello ai Lavori Pubblici».

L’urbanistica e l’ambiente?
«Li terrei io».

Avresti uno staff?
«Al massimo due persone. Sicuramente con a capo Marina Mollo. Le affiancherei, se accettasse, Maria Assunta Esposito, la figlia di Paolo, giacché mi dicono sia una ragazza estremamente in gamba».

Se potessi decidere anche questo, chi vorresti che ci fosse di sicuro tra i consiglieri eletti?
«Mi piacerebbero molti giovani: vorrei sedesse in assise il segretario socialista Marco Castaldo, un giovane che mi piace; Luigi Corcione, ragazzo valente e intelligente; mi starebbe bene anche un Di Fraia più moderato. E di sicuro Raffaele Dobellini, lui ha tutte le caratteristiche di un futuro sindaco e lo vedrei come tale, quindi dovrebbe far gavetta».