IL DOTTOR BERTOLASO, GLI AGELASTI E LE BATTUTE SUL VESUVIO

La battuta di Bertolaso sul Vesuvio, “detta da buon leghista”, forse appartiene al principio dell”induzione. Frequentando i noti barzellettieri del Palazzo è naturale che abbia voluto imitare. Di Carmine Cimmino

Il tipo umano lo conosciamo tutti, ne incontriamo gli interpreti ogni giorno: funzionari della burocrazia, assessori comunali, presidi, professori, pedanti di tutte le risme. Hanno faccia tetra, e cipiglio severo, preoccupato, cogitativo: insomma, sono un morbo. E quando stanno, e quando si muovono, hanno sempre le spalle curve: su di esse grava il mondo, con tutti le sue croci. Se non ci fossi io… Questi novelli Atlante Vladimir Propp li mise in cima alla lista degli agelasti. Agelasta è una sontuosa parola greca, che vuol dire colui che non ride. Gli agelasti, insomma, non hanno il senso dell’umorismo, che si è spento nelle tenebre del mare di guai che essi dicono di percorrere ogni giorno. "Senza di me qui cosa succederebbe…."

Il dott. Bertolaso non l’ho mai visto ridere, in pubblico, davanti ai microfoni, sotto i riflettori. E mi pare cosa naturale. Non è facile essere il Protettore Civile di un’Italia scarrupata che bisogna tirar fuori ora da frane e terremoti ora da inondazioni allagamenti sprofondamenti e da alluvioni d’acqua e di monnezza. E poi le tendopoli le baraccopoli i siti di stoccaggio, e poi gli eventi eccezionali, e poi le emergenze degli eventi eccezionali: e le discariche. E nei ritagli di tempo bisogna aprire l’ombrello e ripararsi dalla pioggia di illazioni, delazioni, allusioni, intercettazioni, calunnie, avvisi di garanzia: la patria ingrata fa più danni di cento uragani.

Perfino sull’abbigliamento abituale del Protettore Civile ha fatto sarcasmo la penna terribile di Francesco Merlo: "i suoi giubbottini, gli scarponcini, i pulloverini, i cappellini da baseball, i baschetti di plastica dura". Ammiro Francesco Merlo: ma mi pare che non abbia voluto capire che il Protettore Civile si veste sempre da Protettore Civile per infonderci fiducia.

Dormite tranquilli: io sono pronto, sempre; io sto qui. Io vigilo. Io sono il Vigile Civile. L’emergenza è emergenza: certo, se piove tre giorni a Napoli, una frana te l’aspetti. Ma ora perfino il Bacchiglione rompe gli argini: il Bacchiglione: non un fiume, ma un fosso, un torrente; e non di Napoli, o di Crotone, ma del Veneto. Il Bacchiglione mette in ginocchio le terre dell’efficientissima Vicenza, e i Napoletani avrebbero il diritto di sorridere: ma non lo fanno: i Napoletani piangono i morti, e rispettano la sofferenza.

Gli studiosi dell’umorismo hanno accertato che vi sono almeno trenta diversi modi di ridere. Può capitare che l’agelasta rida di un riso nervoso, che però non è un vero e proprio riso. È una contrazione dello stomaco. Può anche capitare che l’agelasta, soprattutto se occupa un posto importante e c’è un pubblico che deve ascoltarlo per forza, si permetta all’improvviso, quasi scosso da un raptus, di dire frizzi lazzi motti e battute, che tenti insomma di far ridere. Non può riuscirci, poiché gli mancano gli strumenti: le tecniche del racconto, l’arte delle pause, il ritmo, i segreti della mimica. Se insiste, corre un rischio: che l’uditorio rida non per lui, delle sue battute, ma di lui, che è diventato ridicolo.

Il dott. Bertolaso può capitare che faccia battute: è una possibilitĂ  prevista dagli studiosi, che però l’hanno spiegata solo col principio della rimozione. A stare sempre in mezzo a lacrime e sangue, viene all’improvviso la voglia di distrarsi un attimo, di staccare la spina. Ma presumo, mi si perdoni la presunzione, che funzioni anche un altro principio: l’induzione. È probabile che il Protettore Civile, frequentando ogni giorno i Gabinetti, i Salotti e i Chiostri della politica italiana, dove, come si sa, pullulano frotte di barzellettieri volontari e involontari, sia indotto a imitare. L’ 8 maggio scorso il dott. Bertolaso fece una battuta su Clinton: e ci fu un putiferio. Poi si è scatenata la rivolta di Terzigno contro le discariche sul Vesuvio.

Il 24 ottobre, ai sindaci vesuviani, riuniti per discutere sul da farsi, il dott. Bertolaso si presentò, così raccontano, stringendo in una mano il decreto che aveva trasformato in discariche Cava Sari e Cava Vitiello, e impugnando con l’altra mano una penna: "firmate. La legge è legge. Non arretreremo di un passo". L’uomo dell’emergenza ininterrotta, membro di questo Governo, cittadino di questa Italia delle leggi ad personam, delle cricche delle caste e delle logge, di questa Italia in cui non c’ è certezza certa, in cui per decreto si cambia anche il significato delle parole, ebbene, ai sindaci vesuviani che bollivano fremevano fumavano dalle orecchie e dal naso, che erano così stravolti da pronunciare una parola mai prima pronunciata, un tabù, una bestemmia: dimissioni: a questi sindaci il Protettore Civile veniva a offrire una sola soluzione: firmate. Veniva a dire: la legge è legge.

Poi arrivò il Presidente del Consiglio, e il Governo arretrò di molti passi: così che siamo autorizzati a pensare che quella parola d’ordine del Protettore Civile, "non arretreremo di un passo", fosse una battuta: un tentativo di battuta.
E, infine, a pochi giorni dalla pensione, Il dott. Bertolaso tira in ballo il Vesuvio: "un’eruzione non sarebbe stata una disgrazia, lo dico da buon leghista". Così ha detto. E si è scatenato il diluvio. Gli amici del Protettore hanno cercato di proteggerlo argomentando che non avevamo capito un tubo, che il testo, staccato dal contesto, si alterava: insomma, la solita storia. Ma crediamo di averlo compreso, il sentimento del dottore. Lui non voleva chiudere la carriera col Bacchiglione. Lui voleva l’epica, il sublime. Lui voleva il Vesuvio. Lui voleva dimostrare urbi et orbi di che metallo è fatto il Protettore Civile.

Avrebbe voluto confessarlo a chiare note, questo suo desiderio: ma gli è mancato il coraggio. E così è venuta fuori quella frase infelice. Infine, credendo di mettere il tappo alla tempesta, il Protettore Civile ha minimizzato: era una battuta. E così ha aggiunto nero di seppia a nero di catrame. Perché non conosce nulla della storia di Napoli e del Vesuvio: se ne conoscesse anche una sola frenzola, saprebbe che il Vesuvio è un démone agelasta: ma un agelasta inflessibile, rigido, terribile. Il Vesuvio non ha mai riso, nemmeno per sbaglio, e per capirlo basta guardare la sua bocca di pescecane sornione. Quelli che si permettono di evocare un’eruzione, e quelli che si consentono il lusso di fare battute su di lui il demone intrattabile non li digerisce: gli stanno sullo stomaco, proprio lĂ  dove preme la cava Sari, giĂ  piena zeppa di monnezza fetente.

Il Protettore Civile si è protetto ritirandosi in quiescenza. Buon pro gli faccia. Ma sento l’obbligo di avvertirlo: da buon napoletano a buon leghista: il demone è un cacciatore spietato. Peggio di un’erinni. Non c’è stato mai conto che non abbia chiuso e saldato. Spesso con trovate ingegnose, imprevedibili, e soprattutto non riconducibili a lui. Leggo che il dottor Bertolaso è nato a Roma. Forse ha letto quel sonetto in cui Belli commenta il triste destino di papa Leone XII, considerato in vita una grazia di Dio, e giudicato, subito dopo la morte, un buono a nulla:

"E accussì jj’è successo al poveretto, / come li sorci cuann’ è morto er gatto / je fanno su la panza un minuetto.". Questo a proposito del buon leghista.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

DATI E INTERVENTI SUL DISAGIO DEGLI ADOLESCENTI

Coordinamento cittadino dei Gruppi di Programma Adolescenti. “I primi sintomi del disagio adolescenziale si individua a scuola, nella classe”. Di Annamaria Franzoni

Il 4 Novembre scorso i Gruppi di Programma Adolescenti di Napoli si sono incontrati a Marechiaro, presso l’Istituto S. Francesco per una interessante giornata seminariale sul tema dell’ Ascolto e sul ruolo essenziale che esso può avere nell’ambito preventivo e riparativo del disagio adolescenziale più che mai diffuso tra i nostri giovani.

Mi sembra il caso di specificare che i GPA sono un gruppo tecnico interistituzionale che lavora per garantire livelli uniformi e appropriati di interventi per adolescenti, un’analisi dei bisogni e delle risorse del territorio cittadino ed una programmazione che tenga ben conto delle specificitĂ  del singolo territorio.

È stata l’occasione per “raccontare e raccontarci” il percorso svolto in questi anni nelle dieci MunicipalitĂ  cittadine, che con svariate declinazioni territoriali, hanno attivato percorsi di rilevazione dati e di intervento sul disagio e dispersione a livello dei diversi ordini e gradi di scuola.

L’incontro in questione era concentrato sulle attivitĂ  da svolgere in riferimento agli Istituti Superiori per dare l’avvio ai lavori del nuovo anno per i “gruppi territoriali integrati” sulla base delle modalitĂ  previste dal protocollo operativo condiviso e sottoscritto dai Dirigenti delle Scuole napoletane, dai direttori di tutti i Distretti Sanitari, dai Presidenti di tutte le MunicipalitĂ , da tutti i Dirigenti socio-educativi del Comune di Napoli: ciò consente di avvalersi di un sistema operativo per il collegamento della domanda del mondo adolescenziale proveniente dalla scuola e i percorsi di risposta posti in essere dai territori.

In questo che è stato definito un Seminario starter, le attivitĂ  si sono svolte in forma laboratoriale, i gruppi di lavoro, formati dai componenti del Gruppo di Supporto all’ascolto, dai responsabili-monitoraggio del GPA, dai referenti-ascolto degli Istituti Scolastici, hanno svolto ciascuno la propria programmazione operativa delle attivitĂ , alla luce delle specificitĂ  territoriali per confrontarsi, a fine laboratorio, con il lavoro degli altri gruppi e discutere, in un confronto costruttivo e arricchente tecniche e metodologie vincenti.

In particolare il GPA della I MunicipalitĂ  (Chiaia-San Ferdinando- Posillipo) D.S. 24, di cui faccio parte, ha presentato una mappa concettuale che individua nella “classe” il primo livello di ascolto, attribuendo al docente in aula l’individuazione dei primi sintomi di disagio adolescenziale: a rafforzare la sensibilitĂ  del docente potrebbero essere di supporto i Seminari di formazione che sono, dopo un’attenta programmazione, ai nastri di partenza e che potrebbero far emergere, nelle diverse realtĂ  scolastiche, quegli “agenti attivi” che possano far da tramite tra le problematiche emergenti e il referente GPA della scuola, il quale a sua volta, in sinergia d’azione con i C.I.C.,possa riportare nel gruppo interistituzionale le problematiche per attivare i percorsi di risposta.

Questo e i successivi interventi, tutti forieri di valide proposte hanno offerto lo stimolo all’interessante tavola rotonda che ha concluso i lavori.

OSSERVATORIO ADOLESCENTI

LE MOLTE NAPOLI DELL’ULTIMO OTTOCENTO

Lontano dal suo “ventre”, Napoli assumeva l”aspetto di una nuova Parigi. I negozi importanti pubblicavano inserzioni in francese. Ottajano non era da meno: Di Carmine CimminoNegli ultimi venti anni dell’Ottocento e nei primi dieci del Novecento ci furono a Napoli molte Napoli, come se la cittĂ  avesse deciso di mettere in mostra tutte le sue maschere, e lasciare alle generazioni successive la libertĂ  di scegliere la Napoli che preferivano, secondo gusto e interessi. E così si videro tutte insieme la Napoli allucinante dei bassi e dei fondachi, descritta da Villari e dalla Serao, quella del malaffare e del primo processo di camorra, e quella di Morelli, di Migliaro e di Gemito, raccontata da Carlo Siviero, la Napoli dei teatri, la Napoli di Scarpetta, e della canzone classica, e di Di Giacomo. E di Croce. Una Napoli vivissima, che però sprigionava dalle sue viscere miasmi insopportabili, giĂ  allora, e pareva toccare, in certi suoi angoli, gli abissi di ogni possibile abbrutimento.

Una Napoli solare, a vederla con gli occhi di certi poeti e di certi pittori, eppure così melanconica da indurre un giovane giornalista, Gaetano Miranda, a scrivere un malinconico libro, e a intitolarlo Napoli che muore. Il libro venne pubblicato nel 1889, e Luigi Capuana concesse l’onore della prefazione, in cui ricordò la sua prima visita alla cittĂ :

«Allora Napoli mi destò un tale senso di ripugnanza che ci sono voluti degli anni e parecchie altre visite e il tenermi segregato nella parte veramente incantevole e divina della grande cittĂ  per mutare quella ripugnanza in un affetto pieno di ammirazione e di entusiasmo. Io auguro a lei una seconda vittoria: che il suo volume contribuisca ad affrettare il così detto sventramento…». Gaetano Miranda nacque a Sant’ Anastasia nel 1863, fu autore di novelle e giornalista, diresse per due anni La tavola rotonda, giornale letterario della domenica, edito da Bideri, scrisse di letteratura, di arte, di teatro, di sport, fece da segretario a Edoardo Scarpetta. Fu un personaggio notevole, che merita di non essere dimenticato.

Nei luoghi incantevoli in cui Capuana si chiudeva per sottrarsi allo spettacolo nauseante del Ventre della cittĂ , Napoli assumeva l’aspetto di una nuova Parigi. Nelle Guide e negli Annuari i negozi più importanti pubblicavano inserzioni in lingua francese. La "Maison de conserves Alimentaires Louis Rognoni, successeur de Cirio et C.ie", e cioè "la Casa di conserve alimentari, Luigi Rognoni, successore di Cirio, con sede, dotata di telefono, al n. 54 di Largo San Ferdinando", si vantava, in lingua francese, di rifornire la dispensa di S.M. il re d’Italia, dei Principi di casa Reale, di S.A. Ismail PasciĂ , e dell’Imperiale Marina dello Zar. La Maison elencava, in francese, le sue specialitĂ : conserve alimentari, salami, formaggi, cacciagione, frutta secca, aringhe, crauti, capricci e primizie.

La Ravel, fondata nel 1806, essendo una Casa francese, aveva diritto doppio all’uso della lingua cara ai buongustai: e dunque ricordava ai clienti che nella sua sede di via Roma, Rue de Rome, 263-64, potevano trovare vini italiani e stranieri, formaggi e burro, specialitĂ  e primizie, e huiles fines de Bari et de Sorrento, olio fine di Bari e di Sorrento. Poco lontano la Salumeria Nazionale -forse nel nome c’era un intento polemico– si presentava come "grande emporio di specialitĂ  gastronomiche finissime" e offriva un ricco assortimento di vini e liquori esteri e nazionali, formaggi, salami veri di Brianza, e burro freschissimo garantito naturale, arrivo giornaliero da Milano: l’unitĂ  d’Italia pareva allora cosa fatta.

Al n. 161 di via Chiaia la Nuova Latteria vendeva, invece, latte freschissimo, burro e crema che veniva da luoghi assai più vicini, e cioè dalla vaccheria che i proprietari possedevano in San Giorgio a Cremano: lì il bestiame era igienicamente alimentato.

Salvatore Ascione fu uno dei più importanti produttori di liquori: il vermouth delle sue distillerie di Barra e del Molo Piccolo a Napoli conquistò la medaglia d’ oro a Filadelfia nel 1876 e a Melbourne nel 1881, e quella d’argento a Liverpool nel 1887 e a Bruxelles l’anno dopo. Negli ultimi dieci anni del secolo protagonista indiscusso della produzione di vini, di liquori e di spumanti in Campania fu Andrea Galliano, che era venuto dal Piemonte a impiantare a Ottajano la sua Grande distilleria. Nella splendida plaquette pubblicitaria che nel 1907 si fece stampare dalla Bertarelli di Milano (vedi foto), Galliano indicò orgogliosamente le dimensioni del bottino di medaglie e diplomi, in cima al quale sfolgorava la Grande Medaglia d’oro conquistata alla Esposizione Universale di Parigi, quella memorabile del 1900, col vino spumante che portava il nome del patròn e che veniva venduto a lire 3, 25 la bottiglia.

E con lo spumante venne premiato anche il mandarino, offerto in bottiglie “di mia invenzione – scrive Galliano – a forma del frutto“: e avverte che il "liquore, rinomatissimo, è ricercato dal mondo elegante, che conserva sempre il suo aroma come fosse fresco, che il marchio è depositato in tutti gli Stati che hanno aderito alla Convenzione Internazionale di Berna, e che bisogna guardarsi dalle contraffazioni di disonesti speculatori".

L’occhio scorre la lista dei vini e dei liquori di Ascione, di Galliano e dei fratelli Scala, e corrono incontro all’immaginazione figure, personaggi della letteratura, luoghi geografici diventati luoghi dell’anima: la prunelle e l’anisette, e pensi a Maigret, e ai torpidi pomeriggi della domenica, il curaçao speciale, imbottigliato in cruche, la lunga brocca cilindrica di terracotta, che i pirati dei Caraibi portavano sempre incollata alla bocca, il vino malaga, e il capri bianco e il capri rosso che incantarono la fantasia eccitata dei decadenti di tutta Europa, e il lacrima, che porta in sé lo spirito doppio del Vesuvio.

Leggi la lista delle essenze che Galliano e Ascione vendevano anche al minuto, negli spacci delle distillerie, in flaconi da 25 grammi: assenzio, alchermes, ananas, cedro, coriandoli, eucalyptus, fernet, menta, rhum (ben 4 essenze di rhum: bianca, rossa 1 Hingston, rossa 2 Hingston, aromatica primissima), e perfino finocchio, fragola, e essenza bianca rettificata di garofano. Leggi, e catturi per un attimo il vago ricordo di ricette gelosamente custodite, di bottiglie intoccabili schierate nei fianchi di cristallo di buffet luccicanti: bottiglie mai uguali l’una all’altra, e vive, ognuna, del liquido colorato che contenevano.

Vigne sterminate. Aranceti superbi, il verde cupo e nero delle foglie infiammato dai riflessi dei frutti, e scapigliati plotoni di mandarini che ti stordivano, freddi, con il loro profumo implacabile. Ho visto luoghi così, quando ero ragazzo, nella nostra terra. E mi basta, per sentire ancora l’orgoglio di essere vesuviano.

L’OFFICINA DEI SENSI

LA NATURA “IMMORALE”

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I cambiamenti climatici e gli effetti del consumismo mettono seriamente in discussione la sopravvivenza di molte specie nel pianeta. L”uomo non è immune dal rischio. Serve una cultura nuova e uno stile di vita. Di Luigi Jovino

Il National Geograpich ha previsto che ci saranno 50 milioni di vittime per cause meteorologiche entro il 2050. La stima, fatta agli inizi dell’anno 2000, dovrĂ  essere valutata al rialzo a giudicare dai risultati registrati negli ultimi 10 anni.

I cambiamenti climatici, infatti, sono un dato accertato e neanche correndo ai ripari subito, si riusciranno ad evitare frane, allagamenti, esondazioni, alluvioni e tornadi con il loro carico di distruzione e di morte. La cronaca ci dice che un altro punto di non ritorno è la crisi dei rifiuti, anch’essa ampiamente prevista da studiosi, ecologisti e scienziati da almeno 30 anni fa. Nella gente, dopo l’apatia degli ultimi decenni, comincia a diffondersi una coscienza nuova, aggravata da tante preoccupazioni. I problemi della natura tornano all’attenzione generale perché condizionano pesantemente la qualitĂ  della vita, il diritto alla salute e la salubritĂ  degli ambienti. A parte le legittime proteste, però, nessuno indica soluzioni.

Gli scienziati sembrano relegati al ruolo di Cassandre, buoni solo per interventi tampone. La nostra societĂ  impostata su paradigmi fondamentali come il lavoro, il rispetto dei diritti umani e il dovere morale sembra impotente. Non riesce ad arginare la catastrofe prossima ventura. A rifletterci bene esistono cause strutturali che ci impediscono di agire. L’articolo 1 della nostra Costituzione recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Credo che nel discorso sulla riforma costituzionale dovremmo inserire anche la difesa degli ecosistemi. Mi spiego meglio. In una societĂ  impostata sul lavoro e con grandi problemi occupazionali è difficile far capire che sono scellerate alcune scelte come quella del vuoto a perdere.

Infatti per produrre un chilo di vetro abbisognano più di 350 grammi di petrolio. Per la fusione della materia prima e per la realizzazione delle bottiglie si deve arrivare a temperature che superano i 1000 gradi centigradi, con il grave danno di inquinamento dell’aria che ne deriva. Inoltre una bottiglia di vetro degrada in circa 500 anni. Ebbene i costi: per il petrolio, per l’inquinamento dell’aria e per lo smaltimento del rifiuto sono pagati totalmente dai cittadini. Tutto questo per far piacere alle aziende che hanno trovato agevole impostare una politica commerciale sul sistema del vuoto a perdere. Lo stesso dicasi per i contenitori in polistirolo e plastica che resistono dal supermercato a casa per poi entrare immediatamente nel ciclo dei rifiuti. Nessuno ha mai pensato di far pagare alla aziende i costi di smaltimento o di privilegiare quelle catene di supermercati che vorranno eliminare i contenitori e mettere tutto in cassetta.

Di esempi di questo delirio collettivo che ci sta portando dritti dritti verso l’estinzione se ne potrebbero fare a centinaia. Una cosa è certa: il lavoro viene prima della diritto alla salute e della difesa del nostro pianeta. La qualitĂ  della vita non viene presa neanche in considerazione. Moriremo per il lavoro e perché non abbiamo saputo trovare una alternativa di vita legata ai ritmi biologici e naturali come fanno tutti gli altri esseri viventi. “La natura non è ne buona né cattiva, né morale né amorale, ma soltanto efficiente” recita un vecchio adagio e credo che proprio sul criterio dell’efficienza naturale dovremmo impostare la societĂ  del futuro. Siamo ampiamente in ritardo, però, dobbiamo trovare la forza per vincere la sfida nuova.

La gente si convince solo delle cose che convengono e fra non molto converrĂ  a parecchi cambiare ritmi di vita e comportamenti consolidati. La cultura e la politica dovranno fare la loro parte perché il nostro pianeta è gravemente malato ed il 2012 è giĂ  iniziato. La profezia catastrofica di Nostradamus, rispetto alle previsioni e ai modelli statistici previsti dagli scienziati, sembra una gioiosa nenia. Assume lo stesso valore simbolico e malinconico di una canzone di Battiato.

LA RUBRICA

“LA QUESTIONE SUD É LO SCANDALO DEI CATTOLICI”

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Il ruolo decisivo della Chiesa nel Sud si gioca su un preciso intervento educativo. Il vero bisogno non è quello di avere preti anti-mafia, ma di sacerdoti che sappiano favorire la promozione umana. Di Don Aniello Tortora

Riprendo a riflettere sulla 46esima Settimana sociale dei cattolici, tenutasi a Reggio Calabria nell’ottobre scorso. Mi soffermerò sulla bellissima relazione del prof. Savagnone, mio amico, e stimato cristiano a Palermo e in Italia. Nel suo applauditissimo intervento ha toccato un tema molto delicato a attuale: il rapporto della chiesa con la societĂ  meridionale e con la criminalitĂ  organizzata.

Introducendo il suo dire, il Professore ha affermato che “le denunzie della Chiesa sulla mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, sono da diversi anni molto nette”, a cominciare dalla famosa frase pronunciata da Giovanni Paolo II ad Agrigento, il 9 maggio 1993, fino alle recentissime parole di Benedetto XVI, che a Palermo ha definito la mafia “una strada di morte” e ne ha “solennemente dichiarato l’incompatibilitĂ  col Vangelo e la vita cristiana”.
Ma le denunce “non bastano”, perché “per sconfiggere la mafia c’è bisogno di un preciso intervento educativo”: “è su questo terreno che si gioca il ruolo decisivo della Chiesa nel Sud”.

Così ha continuato Giuseppe Savagnone, direttore del Centro diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, nella sua relazione alla Settimana Sociale, incentrata sul documento “Chiesa italiana e Mezzogiorno”. “In mancanza di questo rinnovamento culturale, nessuna innovazione giuridica può risultare decisiva”, ha spiegato il relatore, secondo il quale “proprio a questo livello culturale la comunitĂ  cristiana sa di dover fare sempre più coerentemente la propria parte, traendo precisamente dal Vangelo – e non da un generico codice etico – l’ispirazione per un impegno sempre più pienamente umano”. Savagnone ha citato gli esempi di don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana e Rosario Livatino, ma anche le “battaglie civili, condotte soprattutto dai giovani”, per sconfiggere la mafia.

“Resta, però – ha proseguito Savagnone – lo scandalo di un territorio su cui i cattolici hanno un capillare e profondo radicamento, più che al Nord”, e nel quale “le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia”. “Non si tratta di invocare un assistenzialismo che sarebbe fatale, ma di suscitare, partendo dalle potenzialitĂ  giĂ  presenti, nuove mentalitĂ  e nuovi stili di comportamento da parte della stessa gente del Sud”, ha osservato il relatore, secondo il quale “la societĂ  meridionale non ha bisogno di un ente assistenziale in più, o di un supporto alla lotta contro la mafia che venga in soccorso alle istituzioni politiche, esercitando una funzione di supplenza”.

Non si tratta, perciò, “di assumere, come fanno alcuni presbiteri e laici, modelli profani di linguaggio” mutuati dalla “cultura laica, o più banalmente nei mass-media”. Si tratta di “imparare a dire le ragioni cristiane dell’impegno per la promozione umana e per un rifiuto radicale della mafia”. Perciò il Sud “non ha tanto bisogno di ‘preti anti-mafia’, quanto di presbiteri come don Pino Puglisi, che non lo fu mai, perché scelse di essere fino in fondo solo un sacerdote”, che “seppe magistralmente coniugare”, soprattutto con i giovani, evangelizzazione e promozione umana.

“La presenza costruttiva della Chiesa nel Meridione non è affidata solo ai documenti ufficiali e alle figure eccezionali dei suoi martiri, ma allo stile di vita delle comunitĂ  ecclesiali”. In questa prospettiva, per Savagnone, “le Chiese del Sud sono chiamate a dare il loro essenziale contributo, con la loro pastorale ordinaria, prima ancora che con singole denunzie”, mettendo mano ad “un grande progetto educativo” che “affronti alla radice, partendo dalla formazione delle persone, i problemi culturali”, attraverso “una profonda trasformazione della pastorale”, a partire da un nuovo protagonismo dei laici.

“Troppe volte ancora – la denuncia di Savagnone – la nostra pastorale è affetta da una schizofrenia che da un lato neutralizza la valenza laica dei fedeli quando si trovano all’interno del tempio e assegna loro esclusivamente un ruolo di vice-preti, ignorando la loro dimensione professionale, familiare, politica; dall’altro, li abbandona, fuori delle mura del tempio, a una logica puramente secolaristica, per cui essi alimentano la loro cultura non attingendo al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa, ma ai grandi quotidiani laicisti e alla televisione”. Le denunce della Chiesa, spesso “sono rimaste al piano nobile. C’è un piano terra, quello della pastorale ordinaria”, di cui bisogna maggiormente tener conto.

“Forse sorprende e spiazza – ha osservato Savagnone – il fatto che la Chiesa si occupi, oltre che dei problemi più strettamente connessi alla sfera etica, come sono quelli della biomedicina e della famiglia, in cui sarebbero ravvisabili in modo esclusivo i ‘valori non negoziabili’, anche di quelli relativi agli assetti sociali e politici”. Un “merito” del documento dei vescovi “Chiesa e Mezzogiorno” è “di aver sottolineato che alla Chiesa sta a cuore non soltanto la vita nel momento del suo concepimento o in quello terminale, ma anche ciò che sta tra questi due momenti estremi. Anche la solidarietĂ  è un valore non negoziabile, come lo è la sorte di tutti i deboli e gli esclusi. È a questo titolo che la Chiesa si occupa della questione meridionale”.

“Non si tratta – ha puntualizzato Savagnone – di invitare la comunitĂ  ecclesiale nazionale a occuparsi di una parte malata. Non è solo che bisogna curare lo sviluppo del Sud perché è indispensabile a quello dell’intera nazione: bisogna curare uno sviluppo più armonico dell’intera nazione, che comporta necessariamente lo sviluppo del Sud”. Per questo, ha concluso, “il problema del Sud si risolverĂ  solo con un impegno di tutto il Paese, non per beneficenza, ma nella consapevolezza che non c’è sviluppo per nessuno se non ce n’è per tutti”.
Tutti i cristiani “italiani” , allora, siamo coinvolti in questo grande e stimolante progetto educativo e ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte, soprattutto noi del Sud.
 

LA RUBRICA

BENI SEQUESTRATI ALLE MAFIE. IL TEATRO DELLA LEGALITÁ

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Il Teatro della LegalitĂ , a Casal di Principe, è la prova concreta della destinazione a fini sociali dei beni confiscati alle mafie. Di Simona Carandente

Un territorio forte quello di Casal di Principe, ove ogni giorno il ricordo di Don Peppino Diana si scontra con la massiccia speculazione edilizia, dove la lotta tra il bene e il male è eterna, dove vivere da persona "perbene" può sembrare una chimera, ma non lo è.
Nella splendida cornice del Teatro della legalitĂ , l’associazione di volontariato "Jerry E.Maslo", in collaborazione con l’associazione Amici della Musica e Sinistra 2000 ha portato in scena uno spettacolo unico nel suo genere, dal titolo "La ballata delle anime perse", sotto la regia e direzione artistica di Salvatore Nappa e Luigi Sica.

Non casuale la scelta della location: Il Teatro della legalitĂ  è la prova, tangibile e concreta, della destinazione a fini sociali dei beni confiscati alle mafie. Quello stesso suolo, solamente pochi anni fa, apparteneva a Francesco Schiavone, noto come "Sandokan", e sarebbe stato, verosimilmente, destinato alla realizzazione di chissĂ  quale mostro di cemento, più che a quella di un teatro-auditorium con 180 posti auto, con opere d’arte dei migliori artisti campani.
Casuale neanche la scelta dei brani, tratti da opere letterarie di Roberto Saviano e Peppe Lanzetta e liberamente rielaborati, che hanno fatto da sfondo al messaggio chiave della piece teatrale: cambiare è possibile, cambiare si può, cambiare si deve. Anche se a volte sembra impossibile.

L’intera rappresentazione ruota intorno alla figura di un usuraio, Don Gennaro, che spreme le sue vittime ad ogni costo, senza serbare la minima remora, stritolando i poveri malcapitati in un meccanismo che non riusciranno più a controllare.
Nessuno è in grado di sottrarsi alla morsa: imprenditori, istituzioni, killer, sindacalisti, onorevoli. Tutti in balia dei loro destini, desiderosi di trovare risposte alle proprie domande attraverso il vile denaro, padre di tutti i mali, sottile filo conduttore di esistenze tanto diverse tra loro.
Eppure, nel finale a sorpresa, saranno proprio quelle vittime a dare amore al loro aguzzino, riabilitandone l’abietta persona e lanciando, per tal via, un messaggio di speranza e di cambiamento, quasi a far nascere un fiore sul cemento.

Un plauso particolare va agli attori Agostino Chiummariello, Marianita Carfora, Antimo Casertano, Luca Ippolito, Franco Melone e Raffaele Parisi, giĂ  impegnati in importanti ruoli teatrali, che hanno saputo dare vita e spessore ai personaggi umani, tristi ma intensi, portati in scena simbolicamente sul palco, ma attori in realtĂ  nella vita di tutti i giorni. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

GLI ARGOMENTI TRATTATI DALL’AVV.CARANDENTE

INCENERITORI. NULLA SI DISTRUGGE, TUTTO SI TRASFORMA

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È utile conoscere, per larghe linee, cosa ci restituisce un inceneritore dei rifiuti. Dalla nostra vista scompare il pattume, ma la massa di cenere che si produce è molto tossica e pericolosa per la salute. Di Amato Lamberti

Dopo l’intervento di Tommaso Sodano, mio carissimo amico, con il quale abbiamo condiviso anche la lunga battaglia contro gli inceneritori, mi sembra opportuno intervenire su questa questione, specialmente dopo la disponibilitĂ  manifestata da molti sindaci, quello di Napoli, di Salerno, di Somma Vesuviana, ad ospitare sul proprio territorio un inceneritore, pomposamente chiamato termovalorizzatore.

La mia posizione è chiara e netta, come giĂ  ho avuto modo di scrivere sul quotidiano "Terra news": "l’incenerimento dei rifiuti, come dice il prof. Montanari, eminente nanodiagnostico, altro non è che un gioco di prestigio per farli scomparire dalla vista, mentre, in realtĂ , la massa dei rifiuti ne esce aumentata e dotata di maggiore tossicitĂ ".
Dovremmo tutti conoscere la legge di Lavoisier, il cosiddetto principio di conservazione della massa, visto che si studia in tutti gli Istituti superiori: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Quando si brucia qualcosa, legno, carta, plastica, rifiuti che sia, questo qualcosa non scompare se non alla vista, dato che la sua massa resta invariata.

Si trasforma in ceneri per una parte e in polveri grossolane, fini, finissime, ultrafini che si disperdono nell’atmosfera per ricadere sul terreno ad una distanza che è proporzionale alla loro grossezza: quelle grossolane molto vicine al luogo in cui si producono; quelle più fini possono arrivare a chilometri, a decine di chilometri, a migliaia di chilometri e dovunque, tutte, si fissano sul terreno, nei vegetali, negli alvei polmonari, nello stomaco, nel sangue di uomini e animali.
Ma la massa non resta invariata perché, quando sottoponiamo a combustione i rifiuti in un inceneritore, qualunque sia la tecnica utilizzata, bisogna aggiungere ossigeno atmosferico e sostanze come calce, ammoniaca, acqua, ecc., e questa massa aumentata sarĂ  ciò che esce dal processo. Bruciandoli, quindi,la massa dei rifiuti aumenta, non diminuisce.

Ad aggravare la situazione, c’è il fatto che la maggior parte del materiale bruciato si trasforma in sostanze molto più tossiche di quelle iniziali, la produzione di polveri è enorme e le tecnologie di filtrazione dei fumi, come dicono tutti gli scienziati, sono di fatto inefficaci. Per quanto riguarda le polveri, una frazione si forma immediatamente a livello della sorgente, e questa frazione viene chiamata "particolato primario filtrabile". Un’altra frazione viene espulsa in fase gassosa, ma condensa in pochi secondi: questa si chiama "particolato primario condensabile". Infine, ogni combustione provoca la formazione di diversi gas, come ossidi di azoto, biossido di zolfo, ammoniaca e molti composti organici gassosi diversi a seconda di quello che si brucia: questa frazione è detta "particolato secondario".

I filtri di cui sono dotati gli inceneritori, anche i più tecnologicamente avanzati, agiscono solo, e neppure totalmente, sul particolato primario filtrabile, che costituisce la parte minoritaria di tutte le polveri prodotte. Comunque anche le polveri filtrate, in un modo o nell’altro, finiranno in atmosfera.
Resta ancora il problema delle ceneri cariche di metalli pesanti che si formano nella combustione e che costituiscono una frazione importante del rifiuto. Dovrebbero essere portate in apposite discariche per essere vetrificate, in modo da evitare la dispersione in atmosfera e il conseguente inquinamento. Per legge queste ceneri sono definite inerti e quindi generalmente finiscono mescolate al cemento rendendolo, di fatto, non proprio innocuo per chi debba maneggiarlo e per chi se lo ritrova nelle pareti domestiche.

Ogni inceneritore è, quindi, come scrivono gli scienziati del Laboratorio di Biomateriali dell’UniversitĂ  di Modena, una gigantesca fonte di inquinamento dell’ambiente e dell’atmosfera e una mostruosa fonte di patologie per gli esseri umani. Le malattie da particelle comprendono una gamma vastissima: quelle cardiovascolari sono probabilmente le prevalenti; poi ci sono le malattie infiammatorie, quelle allergiche, quelle tumorali, quelle dell’apparato respiratorio, quelle su base endocrina, come, ad esempio, il diabete, le malformazioni fetali e quelle, sempre più indiziate, su base neurologica, come il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer. Esistono, inoltre, disturbi del sonno, della memoria, dell’apprendimento e del carattere, oltre ad una patologia sempre più diffusa come la stanchezza cronica.

Una domanda viene spontanea: il corpo umano può liberarsi di queste presenze estranee, una volta assorbite? La risposta, per ora, è negativa.
Per questo non solo non va costruito nessun nuovo inceneritore ma anche quelli giĂ  in funzione andrebbero spenti il prima possibile, con buona pace dei Sindaci che tentano di salire sul grande affare degli inceneritori nel nostro Paese. Se l’Italia di oggi vorrĂ  lasciare alle generazioni che verranno un Paese meno invivibile, tutti gli impianti che prevedono la combustione di petrolio,nafta, rifiuti, biomasse, vanno spenti nel più breve tempo possibile. L’energia elettrica produciamola con il sole, il vento, le maree, l’acqua, che sono le uniche fonti pulite e sempre rinnovabili.

E per i rifiuti? Trituratori domestici, impianti di compostaggio, biodigestori anaerobici per le frazioni organiche e indifferenziate. Tutto il resto, le frazioni secche, vanno semplicemente riutilizzate, per trasformare i rifiuti in risorsa. Ne guadagnerĂ  l’ambiente, ne guadagnerĂ  la salute dei cittadini, ne guadagnerĂ  l’economia del Paese.
(Foto: Inceneritore di Brescia. Fonte: Internet)

GLI ALTRI INTERVENTI DEL PROF. LAMBERTI

I CAPRI ESPIATORI IN TERRA DI CAMORRA E MONNEZZA

Le speranze di Bertolaso, che auspica il risveglio del Vesuvio per fare piazza pulita della gente vesuviana, hanno radici antiche. Cercavano un capro espiatorio, hanno trovato La dignitĂ  di un popolo. Di Carmine Cimmino

Poiché noi cittadini del Vesuvio siamo stati scelti come capri espiatori di questa diabolica macchinazione dei rifiuti, di questa Peste, come giustamente l’ha chiamata Tommaso Sodano giĂ  nel titolo del suo amarissimo libro, e poiché non è la prima volta che i vesuviani fanno da capri espiatori, voglio ricordare a me stesso cos’è un capro espiatorio.

È una figura che si trova in tutte le societĂ , di ieri e di oggi, perché nasce dal connubio tra un bisogno primario della natura umana, l’aggressivitĂ , e un bisogno storico della convivenza sociale: la purificazione della colpa. Nel Levitico si racconta che Aronne, il sacerdote fratello di Mosé, celebrò il rito della purificazione collettiva con il sacrificio di due capri: ne sgozzò uno, e con il suo sangue asperse tutti gli oggetti sacri; scaricò sull’altro, attraverso l’imposizione delle mani, tutti i peccati della gente di Israele, elencati in modo chiaro e distinto. Poi una guida trascinò l’animale nel deserto e ve lo lasciò morire consacrandolo ad Azazel, il demone infuriato.

Ma gli uomini non si accontentarono, e non si accontentano, di essere purificati da un capro. Hanno cercato assai spesso il sangue di donne e uomini, scegliendo i maledetti tra i deboli – i deboli nel corpo, i deboli di mente -, tra i prigionieri di guerra, tra i potenti che perdono il loro potere, tra coloro che si sono macchiati di colpe nefande, come Edipo che uccise il padre e si unì con la propria madre: insomma tra i segnati, ‘e signalate: la storia delle catastrofi naturali, delle guerre e delle epidemie ruota intorno ai capri espiatori.

Cristo fu il capro espiatorio per eccellenza, l’Agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo. Pilato, che vide la Sua innocenza, stornò dalle proprie mani il Suo Sangue, mentre gli Ebrei chiedevano a gran voce che cadesse su di loro e sui loro figli. Nel pubblico sacrificio delle streghe la societĂ  medioevale scaricò, attraverso l’assunzione collettiva delle responsabilitĂ , la violenza della superstizione, e il terrore delle epidemie inventò gli untori. Il mondo slavo e i nazisti scelsero gli Ebrei come vittime di una follia smisurata e totale, e da Nerone in poi – ci limitiamo alla storia dell’ Occidente – i tiranni e i tirannelli di tutte le taglie sanno che le stesse folle che li santificano saranno capaci di sgozzarli, di appenderli ai pali nelle piazze, di cacciarli via a scrosci di monetine in faccia, e di profanare anche le loro tombe.

Nella societĂ  dei consumi la folla ha bisogno del capro ancora più di ieri. Benjamin Malaussène, il memorabile personaggio inventato da Daniel Pennac, fa, di professione, il capro espiatorio: responsabile dell’ufficio reclami di un grande magazzino, sopporta ogni giorno di essere trafitto, moderno San Sebastiano, da nugoli di reclami proteste ingiurie che clienti inviperiti gli scagliano addosso.

Nel 1631 il Vesuvio, dopo secoli di sonno, si risvegliò e fu una catastrofe: di tali proporzioni e così inattesa, che i pensatori di professione, laici e ecclesiastici, si sentirono obbligati a dare un senso a quel cataclisma, a trovargli una logica. E la trovarono, partendo dal presupposto che tutto ciò che accade, accade perché Dio vuole che accada. E dunque se Dio ha scatenato sui Vesuviani questo inferno, vuol dire che i Vesuviani se lo meritano. E cosa scatena l’ira del Signore? I peccati, quando superano, per quantitĂ  e per qualitĂ , il limite della decenza. Giuristi, teologi, cronisti e predicatori, essendosi convinti, alla fine di tale ragionamento, che solo colpe innumerevoli, collettive e innominabili, potevano avere scatenato una punizione così terrificante, rovesciarono sui Vesuviani tutto il fango di tutti i peccati nefandi: lussuria secondo natura e contro natura, infanticidi, stupri, magia nera, bestemmie, sacrilegio.

Per non parlare del contorno di atti di brigantaggio, rapine, assassini. E per fortuna non erano state ancora inventate né la minigonna né le scollature audaci. Insomma i Vesuviani vennero pittati come ‘a schifezza d’’a schifezza ‘e ll’uommene e de’ ffemmene. Per donne e uomini così, un Vesuvio solo non bastava. Ce ne volevano almeno due. La Chiesa pensò bene di inviare nel territorio squadroni di missionari, anche perché i sacerdoti locali si erano sporcati, diciamo così, con molti e densi schizzi di quel fango.
La storia si ripete. La peste della monnezza è la giusta punizione per il popolo vesuviano che è due volte camorrista: una volta, perché è camorrista a priori, l’altra, perché non vuole fare la differenziata e non vuole la discarica, e protesta, si ribella, e minaccia di scarrupare dalle fondamenta il castello delle chiacchiere.

Dietro la protesta c’è la camorra, si dice, si dichiara e si ribadisce. E non è vero. Perché la camorra le discariche le vuole, la camorra, che in questo primo decennio del sec. XXI appare come un mostro nuovo, costruito assemblando parti e pezzi e congegni dei modelli antichi, sulle discariche, e sulla differenziata, e sulle crisi cicliche della raccolta dei rifiuti ha costruito l’affare più gigantesco della sua storia. Non appena le montagne di monnezza incominciano a sollevarsi dalle strade di Napoli, qualcuno se la ride, e si stropiccia le mani: dal 2001 al 2009 sono stati spesi in regime d’emergenza tre miliardi e mezzo di euro.

Era facile prevedere che la rivolta contro la discarica di cava Vitiello avrebbe appiccato il fuoco alla disperazione del popolo vesuviano, giĂ  messo in ginocchio da una crisi economica, che parte dal terremoto del 1980 e che si è aggravata di anno in anno. La bandiera italiana bruciata è il segno di un sistema sociale che si sgretola, e travolge via, nella frana, il presente, il futuro, la speranza, e spezza gli ultimi lacci, giĂ  da tempo corrosi e sfibrati, delle relazioni sociali. Siamo mosche intrappolate in un bicchiere capovolto, e ci sembra che qualcuno al di lĂ  si diverta a vederci mentre sbattiamo sul vetro.

Non esagero. Ogni giorno sento nelle parole degli amici una rabbia cieca, il dubbio, una stanchezza estrema, e anche il bilancio del nostro passato appare la presa d’atto di un fallimento.

LA STORIA MAGRA

“ASINO CHI LEGGE”

Leggere è un verbo che viene coniugato sempre di meno. Ne ha parlato con competenza Antonella Cilento, autrice del libro “Asino chi legge”.

Il 22 ottobre scorso, presso la Libreria Fnac di via Luca Giordano a Napoli, Antonella Cilento, in occasione della pubblicazione del suo nuovo libro “Asino chi legge” – I giovani, i libri, la scrittura (Guanda ed.), ha raccontato ad un vasto pubblico, attento e interessato, la sua esperienza di insegnamento di scrittura creativa “in luoghi dove la passione per la pagina non è mai nata o si scontra con difficoltĂ  insormontabili”.

In questa sua ultima opera racconta, infatti, la sua esperienza di docente esperto esterno, nelle più svariate realtĂ  scolastiche della nostra penisola: nelle complesse periferie della nostra cittĂ , dal Rione Luzzatti, la cui realtĂ  mi è ben nota per aver insegnato per oltre un decennio presso la S. M. S. “Ruggiero Bonghi”, al Liceo scientifico “G.Mercalli”, dove attualmente insegno, dalle scuole del Trentino Alto Adige a quelle della Sicilia, in un paese che legge sempre meno e dove è in calo il valore dello studio perché “non ti porterĂ  da nessuna parte, non ti aprirĂ  le porte del mondo del lavoro, non farĂ  di te una persona migliore, tanto vale trovare false scorciatoie”.

È emerso in modo manifesto che i protagonisti del libro sono gli adolescenti, non solo perché ad essi è rivolto il lavoro che la Cilento svolge con loro e con i docenti, ma perché l’autrice ha riportato le loro pagine scritte in sede di laboratorio, le loro storie, i loro racconti intessuti di umanitĂ  profonda e che svelano mondi troppo spesso sopiti e messi a tacere da un frenetico operare che impedisce la riflessione sul ricco mondo che i giovani posseggono e di cui gli adulti hanno il dovere di facilitarne espressione e sviluppo.

La creativitĂ  non è una dote infusa negli esseri umani, ma una abilitĂ  che va insegnata per favorirne la crescita, così come l’abitudine alla lettura e alla scrittura va incoraggiata inseguendo il “piacere del leggere e dello scrivere”, nel rispetto di una progressione guidata, assistita, sostenuta e autonomamente conquistata: tale percorso ci racconta Antonella nel suo libro, nel quale alle storie degli adolescenti fa da sfondo il suo instancabile operare di docente che si fonde e si confonde con quello di scrittrice gradevole e appassionante per la spiccata capacitĂ  di far immergere il suo lettore nelle trame più strette e profonde dei luoghi, dei tempi, degli spazi e dei personaggi che descrive e che diventano ben presto noti e familiari.

Il Laboratorio di Scrittura Creativa Lalineascritta (www.lalineascritta.it), fondato nel ‘93 ha consentito e consente a tanti, giovani e meno giovani, di tuffarsi appunto nel mondo della linea scritta, dando vita a tante piccole e grandi “creature letterarie” che sarebbero rimaste in un limbo ignoto e che grazie al suo contributo prendono forma, spessore e vita.

OSSERVATORIO ADOLESCENTI

L’ETERNA BATTAGLIA TRA LA GRAMMATICA E L’USO DELLE PAROLE

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Il prof. Giovanni Ariola risponde ai lettori che gli sottopongono curiositĂ  e dubbi circa l”uso delle lingua italiana. Dalle domande viene fuori il disagio per i troppi forestierismi.

Salvatore M. da Nola scrive: “Vorrei sottolineare ancora una volta la cattiva abitudine di noi italiani di usare le parole straniere anche quando esistono parole della nostra lingua corrispondenti. Ieri ad una conferenza sul tema dell’intercultura l’oratore di turno ha esordito: «Vi mostrerò alcune slide che potranno più efficacemente ecc. ecc.» Perché non usare la parola italiana diapositiva?

Risposta – Più volte i linguisti hanno consigliato di evitare i forestierismi (barbarismi) quando è possibile, ossia proprio quando si possono utilizzare termini italiani di significato uguale o affine. Nel caso di slide tuttavia vanno fatte alcune considerazioni. È pur vero che slide si traduce in italiano, tra l’altro, con diapositiva ma questa non indica propriamente un’immagine documentaria originata da un computer ma genericamente un’immagine fotografica proiettata con un apparecchio chiamato diaproiettore. È pertinente perciò l’uso del termine slide che attualmente, e non solo in Italia, si intende come una particolare schermata (o videata) di computer proiettata su un apposito telo.

C’è da dire piuttosto che, nel trasporre e nell’innestare il termine dall’inglese nella lingua nostra, forse proprio condizionati dal lemma italiano diapositiva che è sostantivo femminile, gli si è arbitrariamente attribuito il genere femminile da neutro che era nella lingua originaria. Quindi the slide è diventato la slide. Errore o se si vuole un’anomalia. A fronte di esempi di diverso impiego per parole come the week – end = il week end. (= il fine settimana. Si considerino anche il fine mese, il fine corsa o finecorsa, il fine partita, ma … la fine stagione).

In veritĂ , correttamente i vari dizionari di lingua italiana qualificano grammaticalmente il lemma definendolo s.m. inv. = sostantivo maschile invariabile. Quindi propongono di dire e scrivere lo slide e quindi gli slide.
Che fare? Chi vincerĂ  alla fine, o chi ha giĂ  vinto, la grammatica o l’uso? Intanto, non so quale reazione avrebbero avuto gli ascoltatori, se l’oratore di cui sopra avesse detto: Vi mostrerò alcuni slide illustrativi ….

Carlo L. da Dugenta scrive: “La nostra lingua avrebbe bisogno di una bella ripulita …dalle frasi fatte…Mi è capitato di udire persone che continuano ad usare espressioni come ‘a spron battuto’ quando di sproni ormai non se ne vedono più in giro, ‘a tamburo battente’…. figuriamoci!, ‘levata di scudi’ o ‘a spada tratta’, veramente da ridere!”

Risposta – Sì, perdurano nella nostra lingua molte frasi fatte o modi di dire che all’origine erano traslati, per lo più metafore, efficaci che vivacizzavano il linguaggio. Tali frasi, spesso di sapore militaresco o persino guerresco, con il mutare delle situazioni storiche e culturali, sono in seguito collassate, ossia si sono svuotate della loro funzione trasfigurativa, perdendo la freschezza e la efficacia comparativa dell’inizio, e sono rimaste incistate nella lingua, conservando tuttavia la valenza semantica generale. A riprova della pervicace sopravvivenza di queste larve lessicali, propongo una esilarante conversazione tra due politici:

A – Sono rimasto di stucco di fronte a tanta arroganza…
B – E io di sasso a vedere quel pallone gonfiato spadroneggiare liberamente…
A – Quella volta ho dovuto fare marcia indietro e mi sono ritirato in buon ordine ma ora basta, resisterò fino all’ultimo respiro…
B – L’importante è non restarsene con le mani in mano
A – E quando mai? Dimentichi che ho sudato sette camicie
B – Per questo, anch’io mi sono fatto un cuore così…
A – Purtroppo non ho cavato un ragno dal buco…il servilismo e la pecoraggine sono dure a morire…mi sono sgolato ma non sono riuscito a smuovere di un millimetro tutti quei battilocchi (nel dialetto napoletano = persone stupide e servili), quelle mazze di scopa che pendono dalle labbra del loro capo e sono pronti, allineati e coperti, ad applaudirlo qualsiasi cosa dica o faccia…

B – E io? Mi sono arrampicato sugli specchi, e mi sono ritrovato con il sedere per terra, sembra di essere tornato a usi e costumi medievali…
A – Ma io non mi faccio passare la mosca per il naso
B – Non mi prenderanno per i fondelli
A – Li tallonerò…
B – Gli starò con il fiato sul collo
A – Certo che la vita politica è diventato un campo minato
B – Bisogna forse imparare l’arte di fare buon viso a cattivo gioco
A – Tu sai che non ho peli sulla lingua
B – Non ce la farai con quelle facce di bronzo

A – Non fingerò…
B – Non ti sto invitando a menare il can per l’aia né a fare il gioco delle tre carte ma ad essere cauto ad adottare una strategia efficace…quando si fiuta la sconfitta, meglio levare le tende
A – Ho sempre combattuto a viso aperto mi piace l’arma bianca e ho sempre vinto…
B – Non sedere sugli allori con questi ci vuole altro che l’arma bianca…
A – Sono un osso duro
B – Nun te fa’ masto (= non farti maestro). non cantare vittoria troppo presto…
A – Deve aver paura chi ha scheletri nell’armadio
B – Ti rivolteranno come un calzino, faranno le carte false e ce lo metteranno loro uno scheletro nel tuo armadio…

A – Ma non getterò la spugna
B – Non ti conviene fare il braccio di ferro…A fare il bastian contrario, ci lascerai le penne
A – Chi vivrĂ , vedrĂ 
B – Buon pro ti faccia!

Doveroso, anche se decisamente superfluo, precisare che ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.
Ma qualcuno, alquanto malizioso, dice che spesso questa frase cautelativa risulta chiaramente una antifrasi.

LINGUA IN LABORATORIO