INTERVISTA ALL’AD DI GORI RISORSE. TUTTO QUELLO CHE BISOGNA SAPERE SULL’ACQUA POTABILE

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Intervista a Giovanni Marati, amministratore delegato di Gori risorse idriche. Monitorati i livelli di arsenico e fluoro nell”acqua potabile. Bloccata un”opera importante per migliorare la qualitĂ  dell”acqua. Di Luigi Jovino

Siamo contenti che Mara De Donato e Giovanni Marati, rispettivamente capo ufficio stampa e amministratore delegato di Gori risorse idriche, consociata di Acea abbiano scelto proprio il Mediano per chiarire i problemi dell’acqua ai floruri e all’arsenico che stanno creando non poche preoccupazioni ai cittadini dell’area vesuviana.

Il dottor Giovanni Marati, in replica all’articolo pubblicato sul Mediano sul problema dell’inquinamento di floruri, infatti ha affermato che «Solo per particolari periodi dell’anno e in quantitĂ  del 7 per cento del volume totale è stata distribuita acqua potabile con livelli di floruri in deroga (superiore al valore limite di 1,5 milligrammi litro)». A certificare questa affermazione ci sono più di 6500 analisi, eseguite nel laboratorio scientifico della Gori spa che è tra i più attrezzati d’Italia. Le Asl competenti e la Gori spa, così come prescrive la legge, hanno distribuito materiale informativo nelle scuole e nei comuni per informare i cittadini sulle precauzioni da prendere.

I comuni sono intervenuti con manifesti pubblici solo nel 2007, quando il flusso idrico è stato interrotto, a causa del superamento dei valori previsti dalla deroga. Ai cittadini spetta il compito di giudicare quanto questa campagna di informazione sia stata efficace. Il riscontro è molto semplice. Ogni lettore può verificare su sè stesso. Basta chiedere se le persone sono informate sul fatto che elevati contenuti di floruri possono creare problemi ai denti. Quanti ragazzi, per esempio, sanno che sotto ai quindici anni è sconsigliato di bere acqua dal rubinetto, di non usare fluoro-profilassi, dentifrici, integratori e perfino chewingum al fluoro? Io, anche perché vivo lontano da Napoli, non so dare una risposta.

Ai cittadini, dunque, il compito di verificare. Per quanto riguarda l’arsenico il dottor Marati, che dimostra anche ottime capacitĂ  di comunicazione, afferma che «Il problema arsenico esiste solo in due pozzi su dieci presenti a Somma Vesuviana che sono stati immediatamente sigillati». L’utilizzo di acqua di pozzi per integrare il flusso idrico, dunque, verrebbe garantita solo in quelle situazioni in cui non ci sono grandi concentrazioni di arsenico e con opportune diluizioni esterne. Gli amministratori della Gori risorse idriche ribadiscono che non esiste un problema arsenico anche perché le analisi vengono eseguite tre volte alla settimana. Ad una domanda, però, nè la dottoressa De Donato né il dottor Marati possono rispondere perché la competenza è delle Asl:

“È stato fatto un controllo sui pozzi privati? Ci sono attivitĂ  o laboratori artigianali di produzioni alimentari che utilizzano pozzi privati?”. L’arsenico infatti non precipita neanche a temperatura di ebollizione dell’acqua e non possono essere assolutamente usati pozzi inquinati per produrre alimenti. A Somma Vesuviana, specialmente in campagna, è molto diffuso l’utilizzo dei pozzi che prima erano presenti in ogni cortile. La gente sa che bevendo acqua dai pozzi si accumula arsenico che può provocare cancro alla vescica e ai polmoni? Infatti il problema vero è costituito dall’arsenico perché i floruri causano danni secondari e mai associabili a patologie gravi (danni ai denti e al sistema scheletrico).

Una battaglia però ci sentiamo di condividere con Gori risorse idriche.
L’area vesuviana è sostanzialmente servita da tre apporti idrici. Somma Sant’Anastasia e Ottaviano prendono acqua dal Serino, il cui contenuto minimo di sali assicura il gusto eccezionale di prodotti come il pane e il caffè. La zona del Basso Vesuviano (Pomigliano, Cisterna, Casalnuovo), invece, riceve acqua proveniente dal Biferno e nei periodi critici anche dal Sarno (che approvvigiona la zona di Scafati e paesi limitrofi). La cittĂ  di Nola, invece, si giova dell’apporto dell’acquedotto della Campania occidentale che preleva direttamente dalle falde di Cassino.

«Con il Sistema Alto – assicura il dottor Marati – porteremo l’acqua del Campania occidentale ad integrare il flusso idrico nella zona vesuviana e non avremo mai più problemi di deroghe». Questo progetto della Regione Campania non può essere completato perché dalle Ferrovie dello Stato, settore Alta velocitĂ  non viene concesso il permesso di costruire 7 chilometri di allacci. Infatti la settimana prossima è stata convocata una riunione in Prefettura a Napoli proprio per sbloccare questa incredibile situazione.

È giusto chiedersi come possa la burocrazia con un semplice cavillo, in una zona così ferita ecologicamente, bloccare un’opera che concede ai cittadini almeno il diritto all’utilizzo di un’acqua più sicura?

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LA REPLICA DELLA GORI

DISCARICA NELL’AREA NOLANA. ECCO LE IDEE PER EVITARLA

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In un convegno a Visciano, è stato ribadito il NO alla discarica nell”area nolana e avanzate proposte interessanti. La Chiesa in primalinea per difendere il territorio e la salute di ogni uomo. Di Don Aniello Tortora

La Federazione Assocampaniafelix lancia la sua proposta alternativa ed è contraria all’apertura dell’invaso nel territorio nolano annunciato sugli organi di stampa nel corso della riunione del Premier del 27 novembre scorso alla prefettura di Napoli e che dovrebbe ospitare ben 300 mila tonnellate di immondizia ‘tritovagliata’ proveniente dagli Stir. “Questa federazione – si sono tutti mostrati d’accordo – sostiene con forza la proposta alternativa di insediare un impianto di riciclo con produzione di sabbia sintetica del secco indifferenziato sul proprio territorio, oltre ad un impianto di compostaggio anaerobico, che permetterebbe a tutti i comuni dell’area nolana di chiudere il ciclo di smaltimento dei rifiuti senza fare ricorso a discariche ed inceneritore”.

La proposta di un impianto modello Vedelago, con produzione di sabbia sintetica per l’utilizzazione nel settore dell’edilizia come materia ‘prima-seconda’ per la costruzione di mattoni e cemento inerte è stata presentata durante il convegno al comune di Visciano ed è stata inviata, con tanto di progetto allegato, ai sindaci dell’area, al presidente Cesaro, al Presidente Caldoro e ai rispettivi assessori all’ambiente di Regione e Provincia di Napoli. L’impianto di riciclo, approvato anche dalla provincia di Benevento, tritura in pratica il secco indifferenziato e produce un’ottima sabbia inerte che può essere venduta come materia prima-seconda per costruire mattoni, banchetti, sedie, cordoli e fioriere. Tempi di costruzione: meno di sei mesi.

E costerebbe un terzo dell’inceneritore, arrivando a servire anche un bacino di utenza di 1 milione e duecentomila abitanti. “Per l’area nolana sarebbe il massimo – hanno osservato tutti i partecipanti – perché ci permetterebbe di gestire tutte le fasi dello smaltimento rifiuti, con recupero della materia dagli stessi e lauti guadagni e abbattimento dei costi da parte dei comuni consorziati”. La stessa Federazione propone di separare il ciclo di smaltimento/recupero dei Rifiuti Solidi Urbani da quello dei Rifiuti Tossici Industriali, che in questi anni ha devastato gran parte del territorio campano e in particolare le province di Napoli e Caserta.

Nel corso del convegno i convenuti hanno ritenuto necessaria una sinergia di intenti tra tutti gli attori della battaglia per la tutela ambientale (cittadini, comuni, enti sovracomunali) per conseguire l’obiettivo ‘Rifiuti Zero’ che potrĂ  risolvere definitivamente in un prossimo futuro l’annoso problema dello smaltimento dei rifiuti. I convenuti hanno ribadito, infatti, la strategia dell’incenerimento dei rifiuti pericolosa per la salute, non rispettosa dell’ambiente e improduttiva dal punto di vista industriale, perché necessitĂ  di una quantitĂ  di energia dispendiosa che non compensa gli introiti ricavati e, soprattutto, si fonda su un sistema di premialitĂ  (CIP6) non dovuta e che non promuove la raccolta differenziata.

Nel corso dell’assemblea è stata istituita, inoltre, una UnitĂ  di Crisi con compiti di supporto dei sindaci per la corretta applicazione di quanto convenuto e di vigilanza affinchè sul territorio dell’area nolana non venga aperto nessuno sversatoio di rifiuti ‘tal quale’ che aggraverebbe ulteriormente la giĂ  precaria situazione di inquinamento dell’area. Il sito di compostaggio anaerobico dell’umido, così come giĂ  indicato dal Comune di Tufino, consentirebbe di poter ridurre i costi di spedizione del conferito che attualmente viene inviato in altre regioni d’Italia.

L’assessore all’ambiente del Comune di Visciano ha insistito per far valere i protocolli d’intesa, mai attuati dall’Ente Regione, che prevedono opere di bonifica dell’intera area sede d’impianti di smaltimento e la chiusura dell’esistente Cava Marinelli, in quanto l’area suddetta è stata dichiarata ‘Zona Ad Alta Criticita’ (Zac)‘ e non più sfruttabile per ulteriori insediamenti inquinanti. Ha proposto, inoltre, un sistema di conferimento diretto dei materiali differenziati alle aziende di raccolta che permetta ai comuni stessi un ritorno economico più congruo e una più congrua riduzione dei costi di conferimento.

Su proposta del Consigliere Regionale On. Carmine Sommese, è stata rimarcata la necessitĂ  di dotare l’area nolana di un sito per lo stoccaggio dei residui inerti della lavorazione della sabbia sintetica che serva esclusivamente i comuni del comprensorio nolano. Infine si è integrato questo atto con il documento di Sua Eccellenza, Mons. Beniamino Depalma, Vescovo di Nola, che propone l’istituzione di un Comitato Permanente per la Tutela del Territorio e del Creato nel quale vi sia la compartecipazione di tutti i soggetti impegnati nella risoluzione di questa problematica.

La Chiesa, come sempre, sarĂ  in prima linea per difendere il territorio e per custodire, oltre al creato, la salute, bene preziosissimo di ogni uomo.

LA RUBRICA

IL CASO FEMIANO: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA?

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Emiliana Femiano, giovane e bella, è stata massacrata nelle settimane scorse dall”ex fidanzato, geloso. Sembra quasi che vi siano esistenze e destini ai quali non si può sfuggire. Di Simona Carandente

Non è facile spendere parole su un caso di cronaca, eclatante e clamoroso come quello di Emiliana, la giovane che qualche giorno fa ha perso la vita per mano del suo ex fidanzato, come da copione.
Purtroppo ogni giorno, ogni minuto, in ogni parte del mondo una donna muore di morte violenta, a causa della follia del presunto "sesso forte", che nonostante anni di conquiste e battaglie in rosa continua ad avere la meglio, nel lavoro, nella vita di tutti i giorni, addirittura nell’infliggere la più estrema delle punizioni.

L’unica colpa di Emiliana, quella di essere bella. La sua grande sfortuna, l’aver conosciuto il peggiore degli aguzzini, un essere senza scrupoli che l’ha massacrata con sessantasei coltellate, quasi a volerla punire di avergli inflitto chissĂ  quali sofferenze.
Una storia che apre scenari inquietanti e fa pensare. È simile a molte altre, ma con dei retroscena da brivido. GiĂ  una volta l’assassino aveva provato a porre fine alla vita della povera Emiliana, accoltellandola, non riuscendo a finirla solo per la tempestiva reazione della ragazza. Per questo terribile gesto, era stato condannato in primo grado ad otto anni di carcere.

Rimango fortemente convinta, grazie anche alla forma mentis acquisita con la professione, che i processi vadano fatti nelle aule di giustizia. Non nei reality, non negli show nazional-popolari della domenica pomeriggio, non sui social network. Mi fa male, da donna e giurista, vedere conduttrici che speculano sul dolore di una povera madre, elevandosi a paladine della giustizia, promettendo un interesse che durerĂ  solo fino ad un nuovo scoop e forse anche meno.

Nell’immenso dolore di questa brutta storia, un’intima speranza: non posso, e non voglio credere che Emiliana sia andata a trovare il suo assassino, ristretto agli arresti domiciliari, di sua volontĂ . Voglio pensare che sia stata costretta, obbligata a farlo, perché in caso contrario la sconfitta sarebbe doppia. La sconfitta del male che trionfa sul bene, la sconfitta della speranza, quella speranza che porta una ragazza, forse ancora innamorata, a cercare di recuperare l’uomo che amava, e che invece le ha distrutto la vita per sempre.

Quanto mi fa male poi vedere come, stimolata dai soliti noti, l’opinione pubblica si stia accanendo sul giudice che ha concesso i domiciliari a quel ragazzo, dipingendole come un mostro, in enorme contrasto con la sua immagine personale e professionale. Una persona umana e sensibile come pochi, sempre col sorriso, sempre pronto al dialogo con noi avvocati, giusto ed equilibrato nei suoi provvedimenti. A lui, protagonista ed artefice dei miei primi successi professionali, va la mia più sincera stima di sempre.

Alla famiglia di Emiliana solo un virtuale abbraccio: ci sono esistenze che sono segnate, destini ai quali non si può sfuggire. Quello di Emiliana era di diventare un giovane angelo, il più bello del Paradiso. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

LA DURA CRONACA

LA RUBRICA

IL COLPO GROSSO DI POLITICA E AMMINISTRAZIONI: I RIFIUTI

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La gestione dei rifiuti è l”affare più succoso e duraturo della nostra societĂ . Dal business è nata la nuova mafia, fatta da piccoli imprenditori, autotrasportatori, pubblici amministratori e gruppi criminali. Di Amato Lamberti

L’ennesima emergenza rifiuti in Campania ha raggiunto finalmente il suo scopo: costruire altri due inceneritori subito, a Napoli e Salerno; costruirne un altro giĂ  programmato da tempo a Caserta; aprire almeno altre due grandi discariche ad Avellino e Salerno; aprire minidiscariche a livello comunale in attesa che siano completati gli inceneritori. Praticamente siamo tornati al 1994, al piano Rastrelli che di inceneritori ne prevedeva 6, 2 per Napoli e 1 per ciascuna delle altre province.

Un piano folle ma che almeno non barava: poiché gli inceneritori sono un grande affare per chi li costruisce e li gestisce, non si negava a nessuna provincia il business dell’incenerimento dei rifiuti. Poco importava se a province piccole come quelle di Benevento e Avellino un inceneritore dedicato non serviva per nulla: Benevento avrebbe potuto fare affari con i rifiuti del Molise e magari dell’Abruzzo; Avellino avrebbe potuto fare lo stesso con i rifiuti della Puglia e magari con quelli della Croazia o dell’Albania. I rifiuti sono oro, come disse quel collaboratore di giustizia, e non solo per le organizzazioni criminali. Anzi, sarebbe il caso di fare chiarezza anche su quelle che Legambiente chiama le ecomafie.

Il dato vero è che sulla gestione dei rifiuti sono nate nuove organizzazioni criminali composte da grandi imprenditori di tutta Italia, piccoli imprenditori del Nord come del Sud, autotrasportatori, singoli o in cooperativa, amministratori pubblici, gruppi criminali più o meno estesi, come dimostrano le tante operazioni realizzate da carabinieri, polizia e guardia di finanza.

Accreditare la convinzione, come si continua a fare ancora oggi, che le ecomafie sono le vecchie mafie che hanno allargato le loro attivitĂ  al comparto dei rifiuti, e non nuove mafie (ove con questo termine si definiscono semplicemente dei gruppi criminali con un certo livello di organizzazione) formatisi proprio per gestire quello che si è rivelato il business più succoso e duraturo della nostra societĂ , significa nascondere la veritĂ  dei fatti, e cioè che sui rifiuti si vanno costruendo business che riguardano innanzitutto la politica e le pubbliche amministrazioni.

Approfittano di tutto: anche la raccolta differenziata sta diventando uno sporco affare che consente alle amministrazioni di acquistare mezzi meccanici, magari con procedure di somma urgenza; di assumere operai e impiegati in quantitĂ  esorbitante; di affidare consulenze inutili sulla organizzazione del servizio, sul monitoraggio degli interventi, sulla soddisfazione degli utenti. Per tutto questo hanno bisogno di una quantitĂ  spropositata di soldi. Sanno solo chiedere soldi: basta sentire le loro dichiarazioni, a destra come a sinistra. Oggi come ieri. La raccolta differenziata ben organizzata dovrebbe produrre denaro da investire sul miglioramento del servizio e invece sembra che si possa fare solo con tanto e tanto denaro.

A nessuno, naturalmente, è dato sapere che fine fanno i soldi che i Comuni, o chi per esso, incassa dalla vendita delle frazioni differenziate alle industrie che le rigenerano. Eppure si tratta di tanti soldi, almeno a sentire il Conai, vale a dire il Consorzio nazionale imballaggi, e gli altri Consorzi, quello per il vetro, la plastica, l’alluminio e l’acciaio. Si tratta di centinaia di migliaia di euro che spariscono nel nuovo affare della raccolta differenziata senza che nessuno ne parli. L’opposizione a questo stato di cose è generica e inconcludente, quando non utopistica, come quella che punta sulla riduzione dei rifiuti prodotti. Di rifiuti a tutti i livelli se ne continueranno sempre a produrre e sempre in maggiore quantitĂ .

La stessa innovazione tecnologica non fa altro che spingere nella direzione della moltiplicazione dei rifiuti sia in termini di nuovi prodotti, sia in termini di rapiditĂ  dell’obsolescenza di ogni prodotto, sia per quanto riguarda la produzione di oggetti usa e getta. Ma alle innovazioni tecnologiche si accompagnano anche trasformazioni del costume e della cultura. Il fatto che, ad esempio, sempre meno persone consumino a casa pasti preparati in casa sta moltiplicando le confezioni usa e getta di alimenti pronti all’uso e solo da riscaldare. La produzione di rifiuti non diminuisce ma cresce con il cambiamento degli stili di vita sempre più consumistici. Il problema dello smaltimento dei rifiuti diventa sempre più gigantesco: per questo c’è bisogno di politiche serie e di tecnologie adeguate che abbiano come riferimento costante e imprescindibile la tutela e la salvaguardia della salute dei cittadini e dell’ambiente in cui vivono e lavorano.

Il rifiuto è una risorsa dalla quale non si può prescindere: va riutilizzato tutto ciò che può essere riutilizzato nelle forme che la tecnologia oggi consente. Il problema non è come sembra a molti il riuso puro e semplice; vetro dal vetro, alluminio dall’alluminio, filati plastici dalla plastica. Dai rifiuti ricchi di cellulosa, come le frazioni umide ma anche la carta, si può ricavare, tanto per fare un esempio concreto, acido levulinico, il quale ha molteplici applicazioni nel campo delle vernici, dei carburanti, dei solventi non cancerogeni. Dai residui della lavorazione dei latticini, che altrimenti vanno smaltiti come rifiuti speciali perché altamente inquinanti, si possono ricavare bioproteine sempre più richieste dal mercato. Il vetro che va in discarica può essere utilizzato nella produzione di mattonelle di altissima qualitĂ  per esterni e per interni.

Sono solo degli esempi delle infinite possibili applicazioni degli scarti del consumo e della produzione che finiscono nei rifiuti. Bruciare i rifiuti fa male alla terra, agli animali, agli uomini, ma anche all’economia perché con i rifiuti bruci anche una ricchezza di infinite possibilitĂ  produttive. Ma vallo a spiegare a politici e amministratori incolti e ignoranti che pensano non al benessere della comunitĂ  ma al proprio tornaconto personale e si circondano di tecnici e consulenti della loro stessa risma.

Fatica sprecata, non ti capiscono neppure; l’ambiente, il territorio, la comunitĂ , il futuro delle generazioni a venire, la salvaguardia del pianeta, la salute dei cittadini, non sono cose che si mangiano: e loro solo quello sanno fare; si ingozzano a morire e non scoppiano neppure.
(Fonte foto: Rete Internet)

CAMORRA E POLITICA

TRA PORTICI E SAN GIOVANNI: LA CAMORRA NELLA SECONDA METÁ DELL’OTTOCENTO

Il polo industriale favorì il costituirsi di un clan di camorra dalla struttura moderna. Il gruppo era presente nell”economia del Vesuviano costiero e interno; e controllava dogana e porto. Ma non solo. Di Carmine Cimmino

Ferdinando II di Borbone favorì la costituzione di un importante polo industriale tra Portici e San Giovanni a Teduccio. Al centro del polo c’era l’industria meccanica, con gli stabilimenti dei Granili, aperti nel 1833, e quelli di Pietrarsa, che incominciarono a produrre nel ‘48. Nel ’64 i due impianti, giĂ  in crisi, vennero amministrati dalla SocietĂ  Nazionale, che tuttavia non riuscì a risollevarne le sorti, sebbene l’apparato produttivo comprendesse macchine modernissime. Risultò sempre più difficile sostenere la concorrenza dell’Ansaldo di Genova, favorita dai finanziamenti e dalle commesse del Governo.

A Pietrarsa si costruivano locomotive, materiale ferroviario, e motori per le navi, di cui restò alta l’esportazione all’estero. Nel 1872 vi lavoravano, tra operai e impiegati, circa 1100 persone. Gli aggiustatori percepivano, al giorno, lire 2,60, i forgiatori lire 2,63, i falegnami lire 2,58, i fonditori lire 3,09, i calderai 2, 90, gli scalpellini 3,21, i verniciatori 2,28, muratori e facchini lire 1,75. Un chilo di carne di vitella costava lire 1,15. Tra il ponte della Maddalena e il Pasconcello, accanto alla Taverna della Carcioffola, lo stabilimento Guppy produceva macchine a vapore, mulini, torchi idraulici, trebbiatrici e macchine agrarie. Vi lavoravano 350 operai, il cui salario medio era di lire 2,50 al giorno.

Una societĂ  fondata da Deluy Granier, i cui soci azionari erano Iuply, Mathieu e il Banco coloniale di Genova, impiantò a San Giovanni una fonderia di rame nuovo e vecchio, che dava lavoro a 150 operai. Sul confine di San Giovanni a Teduccio c’era anche la fabbrica di carboni agglomerati di Firmino Fischer, belga: venne fondata nel ’69, nel momento più nero della crisi dell’industria vesuviana, e i 30 operai, che lavoravano tra 10 e 12 ore al giorno, guadagnavano in media lire 3,30. Nel 1867 a Barra il francese Emilio Belz avviò la produzione di zolfanelli: la fabbrica si chiamava Stella d’Italia. Vi lavoravano 180 operai, due terzi erano donne e fanciulle, un terzo metĂ  ragazzi e metĂ  adulti. Le donne ricevevano 70 centesimi, i fanciulli 40 centesimi, gli adulti lire 2,50, i meccanici e coloro che facevano lavori nocivi, come il bagno nello zolfo, prendevano qualcosa in più.

A San Giovanni a Teduccio c’erano i più importanti mulini a vapore della provincia di Napoli: due di essi appartenevano al sig. Petriccione, consigliere provinciale e poi onorevole, che nel 1880 non disdegnò di raccomandare alla Questura di Napoli Pasquale Cafiero, ufficialmente caposquadra della Carovana dei facchini alla Grande Dogana: la storia di questo “famoso contrabbandiere e facinoroso camorrista”, che controllava un settore fondamentale per l’economia della camorra, è stata descritta da Marcella Marmo e da Olimpia Casarino.

Il polo industriale favorì il costituirsi di un clan di camorra, che grazie all’intelligenza criminale di Pasquale Cafiero si diede una struttura più moderna, diciamo così, dei clan di cittĂ . Il gruppo occupava un territorio che faceva da cerniera tra l’economia industriale del Vesuviano costiero e l’economia agricola del Vesuviano interno, e, attraverso la carovana dei facchini e il controllo totale della dogana, del porto e dei mercati prossimi al Ponte della Maddalena, taglieggiava imprenditori e trasportatori, e regolava i flussi del contrabbando.

Faceva parte del gruppo di Cafiero Nicola Barracano, di cui l’ispettore di Portici scrisse, nel 1874: “lo si può trovare alla porta della Grande Dogana, vestito con blusa blu, fingendo di fare il facchino”. Ma i veri capi del gruppo, insieme a Cafiero, erano Luigi Napoletano, che i carabinieri consideravano caposocietĂ  di Barra, Pietro Carpinelli, detto, non a caso, l’ ispettore, sorvegliante nel deposito degli omnibus di Portici, e Carlo Borrelli, membro, scrisse Marc Monnier “di un lungo parentado di oltre nove individui, stretti insieme con vincoli di sangue, quale domiciliato a Pazzigni, e quale a Sant’ Anastasia, e tutti concordi a tenersi bordone delle loro criminose avventure, le quali non sono soltanto di aggirarsi per i contrabbandi e sulle barriere doganali, ma sono ancora di furti, e di ogni specie di grassazioni violente”.

Due clan famigliari, i Borrelli e gli Scarpati di San Sebastiano, fecero da modello, tra il 1858 e il 1875, ai gruppi camorristi del Vesuviano interno, che da quel modello ricavarono suggerimenti per la strategia e per la tattica dell’ azione criminale. I camorristi Scarpati, per esempio, contribuirono a metter fine all’avventura del brigante Vincenzo Barone, e i camorristi ottajanesi consegnarono ai pugnali della polizia il brigante Antonio Cozzolino Pilone.

L’8 agosto 1861 uno sconosciuto contadino portò a un ricco galantuomo di Sant’ Anastasia, Giacomo de’ Liguori, del fu Antonio, il biglietto fatale, in cui Vincenzo Barone chiedeva "un prestito" di mille ducati e garantiva regolare ricevuta a nome di Francesco II, e rapido saldo del debito. Don Giacomo la mattina dopo caricò su una carretta la parte più preziosa delle sue masserizie e partì per Napoli, ove, in via Scassacocchi, teneva casa. Ma scampato ai briganti incappò nella camorra dei facchini che controllavano i traslochi. Quattro facchini, che lo avevano seguito dall’Ospedale dell’Annunziata, vollero "forzatamente e anche in via di minaccia scaricare la roba" e pretesero e ottennero 40 carlini," mentre giĂ  sarebbero stati troppi 12 carlini".

Ma quando due di essi tornarono e chiesero altri 10 ducati, don Giacomo "ebbe un moto di coraggio", che sorprese lui, sorprese, quando gliene parlò, Francesco Miglietta ispettore di questura della sezione Pendino, ma non sorprese i facchini, i quali immediatamente "si disposero in attitudine di voler offendere". La fiammata di coraggio si spense subito e don Giacomo tornò ad indossare la veste abituale dell’uomo di pace. Si piegò a pagare, per amore di quiete, 20 carlini, ma "l’attrito" aveva riempito di clamori il vicolo; chiamate dai clamori delle donne, giunsero sul posto le guardie di P.S. Uno dei facchini, Giovanni De Maria, che era un noto camorrista, fu arrestato.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA STORIA MAGRA

NE” PESSIMISTI NE” DEPRESSI

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Il dialogo che segue suggerisce, in modo non comune, libri e musiche di sicuro interesse. E ci aiuta a capire anche il significato di nuove parole. Non sfuggono alla tagliola, le “novitĂ ” politiche degli ultimi mesi. Di Giovanni Ariola

– L’altro ieri mi hai fatto preoccupare – chiede affettuoso e premuroso il prof. Eligio rivolto al collega Carlo – Cosa ti era successo?
– Niente di particolare…una sorta di malessere generale che si è aggiunto alle paturnie abituali della nostra etĂ …lo potremmo definire una tonalitĂ  pessimistica di fondo…immagina un paio di occhiali a lenti scure che ti azzurrano le cose che guardi…o un film a colori che puoi vedere solo in bianco e nero…

– Anche a me capita qualche giornata così…
– La sera poi è stato terribile…ho provato a immergermi nella lettura…prima ho aperto “Il Cimitero di Praga”, l’ultimo romanzo di Umberto Eco, un dotto e intelligente tentativo, di marca decisamente postmoderna, di scrivere un romanzo del genere feuilleton alla maniera di Sue, di Dumas ….non ti dico la noia mortale…Sono passato a Montale, ho appena acquistato il bel volume appena pubblicato negli Oscar Mondadori, una ristampa del “Diario del 71 e del 72”, a cura di Massimo Gezzi, con un saggio di Angelo Jacomuzzi e uno scritto di Andrea Zanzotto. Niente da fare.

Dopo la lettura di alcune composizioni tra le mie preferite, mi sentivo ancora più depresso…Ho cercato di tirarmi su con la musica… intanto era passata la mezzanotte da un bel pezzo e per non disturbare chi stava dormendo, ho dovuto ricorrere alle cuffie che odio…Straviski, Prokoviev… alla fine mi ha salvato Pergolesi… il suo “Stabat Mater” mi è capitato per caso tra le mani, l’avevo comprato nella versione pubblicata proprio qualche giorno fa, in occasione del trecentesimo anniversario della sua nascita… un musicista straordinario, non so se sei d’accordo… e pensare che è morto a soli ventisei anni…

– Anch’io ho intenzione di acquistarlo…ne ho una versione in vinile ma è piuttosto malridotta, oltre al fatto che dovrei tirar giù dallo scaffale del mio studio il mio vecchio giradischi che mi ha servito fedelmente in veritĂ  ma ho capito dall’ultima volta che l’ho utilizzato, che preferisce starsene tranquillamente in pensione. Considero quello del Pergolesi il migliore degli Stabat Mater tra quelli esistenti, da Scarlatti a Rossini a Dvorak…quando lo ascolto, mi commuove fino alle lacrime…
– Quella musica dolcissima mi ha calmato e sono riuscito a prendere sonno.

– Ora stai meglio…
– Diciamo che ho ripreso in mano il timone…Sai bene che c’è un pensiero che mi sostiene, è che non ci possiamo permettere di essere né pessimisti né depressi perché offriremmo un esempio negativo e deleterio ai nostri figli e nipoti…Lo stesso pensiero che ha espresso Abraham B. Yehoshua in una recente intervista: “Non ho scelta. Ho tre figli e sei nipoti. Meritano un futuro in cui possano vivere in pace e sicurezza. No, non posso permettermi di essere pessimista” (La Repubblica, 18/11/2010, p.50).
– Pienamente d’accordo con te…

– Insomma mi sento simile, alla lontana si intende e in dimensioni decisamente ridotte, all’angelo beniaminiano con le ali spiegate che non può chiudere, spinto da una tempesta che viene dal paradiso “irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo” (Walter Benjamin, “Angelus Novus”, Einaudi, Torino, 1962, p. 77).
– A proposito di Benjamin, hai visto il libro curato da Carlo Saletti per Ombre Corte “Fine Terra. Benjamin a Portbou
– … sì, che contiene la ricostruzione attraverso le testimonianze di coloro che lo conobbero e gli vissero vicino, degli ultimi tragici giorni del filosofo ebreo-tedesco trascorsi nel paesino della Catalogna dal quale cercò di partire per gli Stati Uniti, senza riuscirci, per sfuggire alla persecuzione nazista.

Sono entrati intanto, preceduti dal suono delle loro voci insolitamente pacato, i proff. Geremia (Fantasia) e Piermario (L’incendiario).
– Dicevo a Geremia – dice quest’ultimo rivolto ai colleghi – che mi sono letto in treno questo gustosissimo libretto di Gustavo Zagrebelsky, “Sulla lingua del tempo presente” pubblicato nelle “Vele” di Einaudi, e l’ho trovato interessante perché svela la strumentalizzazione di un certo linguaggio da parte di noti personaggi politici “per plasmare le menti del pubblico ascoltatore” (p. 4) e mantenere così il potere… Vi sono passi davvero esilaranti come questo, a proposito della parola “scendere”(in politica):

“La legittimitĂ  dell’aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa…Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione…Chi in questo modo si «incarna» in una figura politica, «descendit de coelis propter nos homines» (ci si inginocchia a queste parole, dice la liturgia) e viene ad «abitare in nobis propter nostra salutem». Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle societĂ , è la sempiterna figura della missione redentrice che «un salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù…”

– Non nuova in veritĂ  – precisa don Carlo (il Tarlo) che, tornato ad uno stato d’animo più sereno, riacquista subito la sua naturale propensione alla puntualizzazione rigorosa e talvolta pignolesca – l’espressione “scendere in politica”, formatasi per similitudine con altre simili tratte dal settore sportivo e militaresco, ma bisogna riconoscere che quella usata da alcuni nostri governanti ha acquisito una nuova valenza semantica…D’altra parte vi ricordo che nel linguaggio popolare spesso si usa la parola salire per essere eletto… anche nel dialetto napoletano si possono udire frasi come “Nun è sagliuto nisciuno de’ candidate c’avimmo vutate…” (= “Non è stato eletto nessuno dei candidati che abbiamo votato).

Parole che si risemantizzano e parole nuove che nascono. Tra le prime annovererei rottamatore e futuristi. La prima, come sapete, è una metafora molto efficace usata dai giovani esponenti del PD, affetti di audace rampantismo, che vorrebbero mandare in pensione i maggiorenti del partito. La seconda invece, che è usata per nominare gli adepti al nuovo partito di Fini, “Futuro e LibertĂ ”, si configura come una vera e propria usurpazione lessicale, in quanto “il termine è giĂ  saldamente occupato, sarebbe una beffa del destino che proprio in coda al centenario di Marinetti si spendesse il nome del suo movimento, non dico per una causa indegna ma comunque rivolta ad altri scopi”.
(Renato Barilli, “Tuttolibri”, n.1741, A. XXXIV, 20/11/2010).

Dalla stessa fonte viene un ottimo suggerimento: invece di futuristi molto meglio dire futurliberisti, che è un termine non proprio bello né perfettamente calzante, ma almeno ha sapore e anche consistenza di nuovo. (Continua)

LA RUBRICA

LA “SETTIMANA EUROPEA PER LA RIDUZIONE DEI RIFIUTI” E I GIOVANI NAPOLETANI

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Per una beffarda coincidenza, l’edizione 2010 della “Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti” (20-28 novembre) ricade in un ennesimo momento di emergenza per la cittĂ  di Napoli. Di Annamaria Franzoni

All’inizio della scorsa settimana, la prof.ssa Laura Saffiotti, docente di materie letterarie della classe I i del Liceo Scientifico “G. Mercalli” di Napoli, mentre per raggiungere l’edificio scolastico, che si trova alla Riviera di Chiaia, era costretta a schivare cumuli indecorosi di rifiuti non rimossi da giorni, rivolgeva la mente ai due piccoli contenitori di raccolta di carta e plastica in classe: due bustine che l’alunno responsabile del mese si occupa di svuotare nei contenitori di “differenziata” che si trovano in strada…..una goccia in un mare…. quei giovani alunni di prima i avevano accolto questa proposta con tanto entusiasmo, ed in fondo, con questo gesto, si stavano giĂ  abituando alle cosiddette "buone pratiche".

Giunta in classe la professoressa Saffiotti lancia un’idea, non osa nemmeno formulare una vera e propria proposta, perchè ragazzi, esasperati dalle montagne di rifiuti che invadono ormai ogni quartiere, non rimosse da giorni e certo non per colpa loro, avrebbero potuto giustamente non volere accogliere quest’ altro suggerimento, oppure, chissĂ ….

"Ragazzi, in questa settimana a tutti i cittadini europei viene chiesto di inventarsi dei modi non più solo per riciclare i rifiuti separandoli, ma addirittura per produrne di meno. Se riempiamo di meno i sacchetti, differenziati e indifferenziati, ce ne troveremo di meno per strada.
C’è un piccolo semplice gesto che vi sentite di realizzare?"

I ragazzi, ancora una volta accolgono il suggerimento e formulano, in breve e con l’entusiasmo che spesso caratterizza gli adolescente la seguente ipotesi: "Prof, nell’elenco dei "si e no" che abbiamo segnato sui nostri contenitori di carta e plastica in aula, abbiamo registrato che il rifiuto che produciamo di più qui a scuola, cioè gli involucri di merendine, non sono differenziabili e quindi finora li mettiamo nel sacco nero. Allora, potremmo evitare le merendine in questa settimana!"

Entusiasta la professoressa racconta di aver letto, sul sito web della SERR, che una scuola ha proposto proprio la stessa loro idea: mangiare un sano frutto invece delle merendine confezionate.
A quel punto si percepisce che l’entusiasmo si affievolisce. Fabrizio interviene: "Oppure, prof, potremmo portare ogni giorno a turno una torta fatta da noi e mangiarne le fette!". L’entusiasmo si riaccende.

In quel momento emerge che l’ecologia è forse una bilancia tra "ciò che potrei" e "ciò che posso, perchè non mi costa troppo realizzare" e che, forse, se non è vissuta con senso di sacrificio, riesce molto meglio.

La classe sostiene, così, l’ipotesi della "merenda salvarifiuti", così come io stessa l’ho ribattezzata quando in qualitĂ  di fiduciaria della Sede Succursale, sono stata chiamata in causa per approvare tale loro proposta divenuta immediatamente operativa: è scattata un’allegra organizzazione e i giovani cuochi si sono informati di gusti e eventuali allergie dei compagni. Nei giorni successivi sono infatti arrivate in classe la torta al cioccolato, la crostata alla nutella, i muffin (uno, più grande, ha la candelina perché giovedì è anche il compleanno di Laura), il torrone al cioccolato.

I giovani chef, Valeria, Sonia, Eleonora, Edoardo, Luigi, Sara, Cristina e Fabrizio, hanno brillantemente superato, per i loro compagni, “la prova del cuoco” e, per i loro professori, una prova da cittadini responsabili e consapevoli.
E chissĂ , forse, leggendo le idee inserite da altri cittadini sul sito web della SERR, con le loro famiglie potrebbero aver trovato anche altre idee "possibili e praticabili" di buone pratiche per la riduzione dei rifiuti.
(Fonte foto: Rete Internet)

OSSERVATORIO ADOLESCENTI

LE LECITE DOMANDE DI CHI VIVE ALL’OMBRA DEL VESUVIO

Siamo al secondo appuntamento quindicinale sulla CittĂ  Vesuviana, sagacemente stimolati dal professor Girolamo Vajatica. Tema centrale: l”esistenza e la fattibilitĂ  del piano d”evacuazione connesso al rischio Vesuvio. Il Forum

In genere, quando dalle nostre parti si propone un qualcosa che va ben oltre la punta del nostro naso, qualcosa che sconvolga le nostra certezze, va a finire che ci si ritrova di fronte a un secolare e ormai innato senso comune, pronto a sguainare, con le affilate armi di una dialettica saccente, un ammiccante dissenso, che non contempla nulla di tutto ciò che è nuovo e inusitato.
È molto facile cascare in questo facile tranello della nostra presunzione; i mezzi di comunicazione di massa poi ci sussurrano lenonicamente le nostre qualitĂ  di uomini moderni, emancipati a suon di informatica e dintorni.

Accantonato il buon senso, ci sentiamo quindi in diritto, e, peggio ancora, in grado di commentare tutto e tutti, senza quella sostanziosa nozione di causa che ci eviterebbe, quanto meno, brutte e indegne figure.
Mezzi plagiati da un contesto per niente elevato e drogato da un oblio condizionato solo dalle scadenze commerciali, dimentichiamo, anche noi, uomini e donne del vesuviano, la peculiare realtĂ  che ci circonda. Mettiamo da parte un qualcosa per la quale non siamo capaci di dare risposta e che tentiamo di esorcizzare nei modi più disparati possibile.
SarĂ  capitato di accorgervi, magari stimolati da una cronaca affine, di vivere sotto un vulcano e di commentare a riguardo, e imbattervi magari in nolani, napoletani, anastasiani e addirittura sommesi, che minimizzano il reale rischio vulcanico.

– Ma nuje tenimmo o Somma ca ce prutegge –
– AccĂ  a lava nun c’è maje arrivata –
– Jo tengo a n’amico all’osservatorio, chillo m’avverte –
– E quanno vene ‘o mumento c’amma fa –

Novelli vulcanologi, forti di qualche documentario, forgiamo l’impalcatura politica di un problema che stenta a essere affrontato in maniera fattiva, quello appunto del rischio Vesuvio.
Molti obietteranno, con la summenzionata presunzione, che esiste un piano d’evacuazione, e che, al momento dovuto, questo ci metterĂ  tutti in salvo e, tra una grattata e l’altra, indicheremo, con la pedanteria che ci contraddistingue, dove andremo a sostare allo scoccare dell’eventuale ira vesuviana.
La leggerezza con la quale affrontiamo l’argomento è seconda solo a quella di chi gestisce un piano d’evacuazione che lascia molti dubbi in sospeso, tra questi, ad esempio, quelli relativi alle voci contrastanti sui tempi di preavviso per l’evacuazione.

Secondo il professor Benedetto De Vivo, Ordinario di Geochimica alla Federico II, il piano d’evacuazione dovrebbe tener conto di uno «scenario più pessimistico», che preveda non solo tempi di preavviso lunghi, come quelli ipotizzati dalla protezione civile ma anche quelli assai più brevi di Montserrat nel 1995 o di Saint Vincent nel 1979, quando, con sole 24 ore di preavviso, furono evacuate le popolazioni di quelle isole caraibiche, di gran lunga meno popolate dell’area vesuviana.
Altra cosa eclatante è quella che concerne poi l’identificazione di una “zona rossa” che segue i confini amministrativi e non quelli fisici, con l’assurdo di enclaves comunali che, nella mente degli ideatori delle tre zone, dovrebbero essere risparmiate dalla furia del Vulcano.

Assai opinabile risulta poi l’identificazione di un’eruzione di tipo sub-pliniana, come quella disastrosa del 1631, che interesserebbe, tra l’altro, un’area orientale rispetto al vulcano e che, stranamente, così come per i venti dominanti, escluderebbero Napoli e tutte quelle zone poste a est del capoluogo, cosa questa tutt’altro che sicura.
Autorevoli studiosi come Giuseppe Mastrolorenzo e Michael Sheridan, consigliano di non sottovalutare «gli scenari estremi delle catastrofi naturali», ritenendo possibili scenari anche peggiori di quelli verificatisi circa 400 anni orsono.

Risulta evidente quindi il fatto che la politica abbia messo il suo zampino in un contesto così tanto delicato e che una parte del mondo accademico abbia ceduto purtroppo alle sue lusinghe. Cosicché veniamo a trovarci in una zona in piena espansione urbanistica, con l’ospedale più grande del meridione ormai prossimo ad essere ultimato, una centrale termoelettrica a gas e un costruendo inceneritore, il tutto in una pseudo zona gialla, ma che dista a soli sette chilometri dal cratere (Pompei ne dista dodici!).

Il tutto poi cadrebbe qualora si prestasse minimamente attenzione anche alle infrastrutture, ridicole come la SS 268, costruita ad hoc per un eventuale evacuazione in caso d’emergenza, ma, di questo passo, vista l’alta pericolositĂ  della strada e la quiescenza del vulcano ci chiederemmo quale possa essere il male minore tra i due in questione. Da escludere ovviamente treni e navi per l’alto rischio sismico e i maremoti consequenziali a un evento eruttivo.
Ma tornando al piano d’evacuazione, ammettendo che questo fosse realmente fattibile, come ci si porrebbe davanti a un mancato allarme? E soprattutto chi si prenderebbe una tale responsabilitĂ  dalle così evidenti e gravi ripercussioni politiche?

Risulta chiaro quindi che davanti a una tale possibilitĂ  e a una scienza, che quando non è partigiana, stenta a dare risposte deterministiche ci si affidi a quanto di più verosimile si ha a portata di mano.
«AutoritĂ  e scienza sarebbero altri San Gennaro ai quali offrire ceri senza passare per fessi e senza darsi la pena di organizzare, addestrare, pianificare e razionalizzare il territorio. Purtroppo, in Italia, e solo in Italia, essere criminali è più onorevole che essere presi per fessi». Questo scriveva nel novembre 2007 il generale Fabio Mini, ex direttore dell’istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze, delineando prospettive che ci conducono a ciò che la moderna sociologia descrive come cry wolf syndrome, ovvero una sindrome di “al lupo al lupo” che mina una fiducia nelle istituzioni, di per sé giĂ  scarsa e non lascia scampo per niente e per nessuno.

Altre domande scaturiscono dall’effettiva costatazione di un problema esistente solo sulla carta; quando e dove si svolgono con periodicitĂ  le prove d’evacuazione, in quali edifici pubblici si svolgono queste importanti simulazioni che potrebbero salvarci la vita? Vorremmo coinvolgere i nostri lettori con questi interrogativi, come vorremmo sapere se le regioni predisposte ad ospitare i 18 comuni della cosiddetta zona rossa siano giĂ  pronte per accoglierci. Si stanno organizzando? Ne sanno qualcosa? E poi? Quando l’eruzione terminerĂ  che farĂ  il Popolo Vesuviano?

In questo annullamento generale del senso critico e del sano scetticismo, ci si chiede dunque se sia tanto peregrina l’ipotesi proposta (giĂ  da qualche anno) dal professore Vajatica e del suo progetto di delocalizzare la CittĂ  Vesuviana verso sponde più tranquille.
Il prossimo appuntamento affronterĂ  il Progetto Vesuvio nella sua interezza e si arricchirĂ  degli interventi che i lettori vorranno proporre nel forum (CLICCA) per rendere stimolante e costruttiva la discussione.
(Fonte foto: rivistahydepark.org)

IL PIANO DI EVACUAZIONE

IL PRIMO APPUNTAMENTO

QUANDO LE COLPE SONO DELL’INSEGNANTE

Quest”oggi, la nostra rubrica si sofferma sulle responsabilitĂ  dell”insegnante. Ragioniamo sulla cosiddetta culpa in vigilando, presentando il caso di un alunno che ha subito danni a causa di una gomitata.

Duro è il compito di chi insegna! Dalla situazione che di seguito andiamo a presentare, è evidente come chi è preposto al delicato compito di educare ed insegnare in ambito scolastico, debba non solo programmare gli interventi didattici, ma anche pensare ad eventuali danni o conseguenze che nel corso dello svolgimento delle attivitĂ  possono verificarsi.

Il caso. Danni subiti dall’ alunno a causa di una gomitata. Cass. Civ.sent. 22 aprile 2009, n. 9542: culpa in vigilando.
La Corte territoriale osservava per quanto interessa: il B., mentre teneva il flauto tra le labbra apprestandosi a suonarlo, era stato colpito, con un movimento del tutto anomalo ed estraneo alla normalitĂ , da un compagno con una gomitata che gli aveva procurato la rottura di due incisivi; alla condotta quanto meno colposa dell’allievo che aveva tenuto il comportamento descritto conseguiva la responsabilitĂ  degli insegnanti e, quindi, della pubblica amministrazione per culpa in vigilando ex art. 2048 c.c.; la prova liberatoria era risultata carente essendo venuta meno l’inammissibile prova testimoniale resa dai due insegnati.

Motivi della decisione.
È orientamento giurisprudenziale costante che, in tema di responsabilitĂ  dell’amministrazione scolastica "ex" L. n. 312 del 1980, art. 61, sul danneggiato incombe l’onere di provare soltanto che il danno è stato cagionato al minore durante il tempo in cui lo stesso era sottoposto alla vigilanza del personale scolastico, il che è sufficiente a rendere operante la presunzione di colpa per inosservanza dell’obbligo di sorveglianza, mentre spetta all’amministrazione scolastica dimostrare di aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con diligenza idonea ad impedire il fatto.

È, altresì, pacifico (Cass. Sez. 3^, n. 2657 del 2003) che, per superare la presunzione di responsabilitĂ  che ex art. 2048 c.c., grava sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale.

In linea di diritto la sentenza in questione si è attenuta ai principi sopra enunciati. In punto di fatto ha ritenuto che le deduzioni attinenti all’asserita repentinitĂ  dell’evento si risolvessero, per un verso, in mere petizioni di principio e, per altro verso, risultassero insufficienti, considerata la latitudine della prova incombente sul Ministero, prova che avrebbe dovuto dimostrare l’avvenuta adozione di misure preventive necessarie a consentire sia la libertĂ  dei movimenti degli allievi, sia l’ordinato svolgimento della lezione.

LA RUBRICA

A CAPERA. DAI CAPELLI ALLO NCIUCIO

Fin dall”800 le donne napoletane hanno sempre dato grande importanza alla forma della chioma. Nasce così la capera, che per difendersi dalle clienti bizzose raccontava i fatti degli altri. Di Carmine CimminoLe donne sanno da sempre che una parte consistente del loro fascino sta nella forma della chioma, e sanno anche che chi sa leggere questa forma vi coglie gli indizi del loro temperamento, e dello stato d’animo. E dunque da sempre le donne hanno dedicato attenzione puntigliosa ai capelli, a tal punto che la storia della pettinatura è un capitolo importante della storia sociale della femminilitĂ . Le napoletane dell’Ottocento, quelle dei bassi e quelle dei palazzi, portavano i capelli lunghi: li scioglievano in morbida onda sulle spalle, li arricciavano, li stringevano in corpose e lunghe trecce, li avvolgevano nei tupé eretti sul capo.

Il tupé costruito in testa alle donne napoletane era una torre di avvistamento, un periscopio, un ammonimento: chi lo portava – ci voleva un’arte particolare per portare degnamente ‘ o tuppo, ci voleva un certo modo di camminare, altero ma non superbo, autorevole ma non sprezzante -, chi portava ‘o tuppo, era ‘na maesta: intraducibile parola napoletana, che pare corrispondere all’italiano maestra, ma in realtĂ  ne è lontano mille miglia. ‘A maesta era l’ultima variante della matrona romana.

Queste complicazioni capillari fecero sì che signore e popolane benestanti ricorressero ogni giorno all’intervento della capera, che girava per le case a mettere a posto la testa delle clienti. Dopo aver messo a posto la propria. Perché la chioma della capera era la prova oggettiva della sua arte: e dunque testa a posto, modi aggraziati, e pazienza: queste erano le qualitĂ  indispensabili per una pettinatrice. Se il culto dell’intimitĂ  Ă  stato, secondo gli storici, uno dei segni distintivi della societĂ  dell’Ottocento, farebbero bene gli storici a ricordare che Napoli anche in questo fu un’ eccezione: i propri sentimenti i napoletani non solo non li nascondevano, e non li nascondono, ma li cantavano, a tutta voce.

Scrisse Gregorovius di non aver mai visto gente così pronta a piangere in pubblico, come le donne e gli uomini di Napoli: piangere a ogni ora del giorno, e per qualsiasi cosa. Ora, immaginate quale duello si svolgesse, ogni mattina, tra la capera e la cliente, che sentiva le mani dell’altra muoversi tra i suoi capelli, e scioglierli o annodarli, sformarli e acconciarli: li voglio più alti, no, più bassi, no, più stretti. La capera paziente ascoltava, obbediva, eseguiva: la cliente si irritava, si lamentava, si alterava. In fondo, non sopportava che una donna immettesse le dita nella sua chioma: si sentiva violata, smascherata, messa a nudo. E non per sua scelta, ma costretta: e per di più, da un’altra donna.

Oi Rosa, statte attenta a sta capera / ca te pettina ‘ a capa a fantasia,
scrisse Salvatore Di Giacomo. La donna napoletana sotto le mani della capera diventava così gelosa della propria intimitĂ  da costringerci a pensare che quella sua facilitĂ  ad aprirsi fosse solo finzione e dissimulazione, fosse una leggenda. La capera si difendeva distraendo le bizzose clienti: e per distrarle, incominciava a raccontare i fatti del quartiere, i fatti delle altre: ed erano quasi sempre notizie inedite di innamoramenti, di tradimenti, di debiti. La cliente ascoltava, e si illudeva: si illudeva che la capera, di lei, non avrebbe parlato a quelle altre i cui segreti stava raccontando a lei.

Era un gioco strano e complicato, che le capere esperte conducevano con straordinaria malizia: nel disegno che correda questo articolo, Palizzi ha espresso la malizia della pettinatrice con alcuni dettagli: il taglio della bocca, lo scarpino che esce di sotto la gonna, l’inclinazione del capo, e, nota indiretta, le lunghe fasce di capelli che nascondono la testa della cliente. La cliente riavrĂ  la sua testa quando la capera avrĂ  finito di modellarla. Queste pettinatrici acquisivano a poco a poco una profonda capacitĂ  di analisi psicologica: non ne potevano fare a meno: senza quella capacitĂ , si sarebbero impigliate da sole nella vasta rete delle trame che esse tessevano intorno alle clienti, in un mondo in cui non c’era segreto che restasse segreto e non c’era veritĂ  che non dovesse sopportare le aggiunte della fantasia maldicente.

E dunque Raffaele Viviani fa dire alla sua capera:
D’’e capere d’’o Mercato songo ‘ a masta / e nisciuno dint’’o stritto me ‘ncatasta.
Sono la prima tra le capere di piazza Mercato, e nessuno riesce a mettermi spalle al muro, a incastrarmi.

C’era anche un mercato dei capelli. Spesso nei vicoli risuonava il grido capillòoo: era il compratore di capelli di donna, il capillò, ingaggiato dai fabbricanti di parrucche. Intorno a questa figura Salvatore Di Giacomo costruì, in una sua poesia, la melodrammatica storia di una prostituta che vende i suoi capelli per mandare qualche soldo al suo uomo che sta in carcere:
s’ha tagliate ‘e ttrezze d’oro fino/ pe ne mannĂ  denaro a ‘o carcerato.

Il mercante la sente piangere, ma non si commuove:
L’aggio sentita chiagnere scennenno/ ma ‘nteneruto no, no, nun me so’/
Sti trezze d’oro mm’’e voglio i’ vennenno.
Come si vede, le lacrime napoletane spesso inquinarono anche la vena di poeti valenti.

Per un facile passaggio analogico ‘a capera divenne sinonimo di pettegola, e di pettegolo, al maschile, e il suo campo semantico si intrecciò con quello di un altro cardine della linguistica psicologica napoletana, ‘o nciucio, l’inciucio. Nel prossimo articolo parleremo delle varianti contemporanee della capera. Femminile. E maschile: il mostruoso ‘o capero.
(Fonte foto: C.C.)

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