COS” É IL “PROGETTO VESUVIO”?

Con questo articolo entriamo nel vivo dell”idea di “Progetto Vesuvio”, l”Associazione presieduta dal prof. Vajatica, che mira a trasferire i 18 comuni del Vesuviano verso luoghi più sicuri. IL FORUM

Il sogno, solo all’apparenza utopico, di Girolamo Vajatica, professore di filosofia napoletano, ha giĂ  al suo attivo numerosi ed eccelsi sostenitori, come ad esempio lo scrittore Raffaele La Capria, che ha anche trattato a suo tempo l’argomento sulle pagine de Il Mattino; Gerardo Marotta che lo ha ospitato presso l’Istituto italiano di filosofia; la stessa Unione Europea che ha a sua volta risposto positivamente alle sue interpellanze, a testimonianza della validitĂ  del progetto e delegando al governo italiano la facoltĂ  di decidere a riguardo.

Allo stato attuale però, come sottolineato nei precedenti articoli, non v’è riscontro alcuno da parte delle autoritĂ  e permane la reale utopia di un piano d’evacuazione con funzioni più apotropaiche che pratiche.

Il professore, pur se di formazione umanistica, è però persona tutt’altro che teorica è fonda la sua pragmatica nel presupposto che, almeno al momento, l’unica cosa certa alla luce del sole, sembra essere la calma del gigante, che non lascia presagire alcun sussulto immediato.
Per ciò, sostiene il professore, è opportuno permettere, in maniera del tutto distinta dal piano d’evacuazione (che presuppone un rischio vulcanico imminente e che lui giudica complementare al progetto), un lento e regolare fluire della popolazione vesuviana e del suo mondo verso un’area più sicura e relativamente vicina.

L’area individuata è nel casertano, delimitata grosso modo a nord dal Volturno e a sud dai Regi Lagni, toccando i comuni di Castel Volturno, Cancello Arnone, Grazzanise, Santa Maria la Fossa, Casal di Principe, San Tammaro. Qui sarebbe possibile, seguendo le regole di una nuova urbanistica e dell’eco-compatibilitĂ , creare una nuova cittĂ , dove magari i quartieri possano avere i nomi dei paesi d’origine e dove i cittadini potrebbero mantenere il loro viscerale contatto con il luogo d’origine andandoci a lavorare. Sì, perché i diciotto comuni della zona rossa andrebbero a perdere il loro ruolo prevalentemente residenziale e acquisirebbero una ragion d’essere più produttiva, privilegiando finalmente una vocazione ricettiva e agricola fin troppo vituperata da un urbanizzazione selvaggia.

La visione generale, a detta dell’architetto Gerardo Perillo, membro anch’egli dell’associazione, vedrebbe l’abbattimento di quegli edifici che come bubboni infetti sono cresciuti in maniera spropositata, deformando i pregevoli centri storici del Vesuviano. Così facendo si creerebbe un circolo virtuoso tale da incentivare un’economia finalmente virtuosa ed esaltando un turismo che ormai, da tempo immemorabile, è in decadenza.
In realtĂ  bisogna dire che l’idea dell’Associazione “Progetto Vesuvio” non pretende il primato dell’originalitĂ  e dell’esclusiva, essendo, giĂ  in passato, stato teorizzato e attuato in tal senso.

Molti infatti ricorderanno i bonus, offerti dalla regione Campania per incentivare il deflusso dalla zona rossa, e che non hanno certo sortito l’effetto desiderato di decongestionare la zona.
Il semplice quanto fondamentale intento di “Progetto Vesuvio” e del prof. Vajatica è quello di spopolare, nel lungo periodo, tutta l’area vesuviana e non solo gli affittuari accompagnati dai loro magri 30.000 € di incentivo.

Altro progetto dal simile intento è quello della CONFINDUSTRIA di Caserta, che ha immaginato parimenti di evacuare il Vulcano, smistando però la popolazione in più zone della Campania. La pur lodevole iniziativa ha, secondo noi, la pecca di scindere definitivamente il legame tra i vesuviani e il loro territorio, disperdendo quei valori e tradizioni che ne caratterizzano l’essenza; il fatto poi che esista un’ovvia connessione tra progetto e mondo industriale, ci sembra essere un po’ troppo vincolante, perché promosso da un contesto, sì importante ma limitato rispetto alle tante parti che compongono la nostra societĂ .

Contrariamente, l’Associazione “Progetto Vesuvio”, oltre ad essere rappresentativa di tutte le forze positive del territorio all’ombra del Vesuvio, ha l’esclusiva caratteristica di terminare (sciogliersi) nel momento in cui vi sia il concreto passaggio alla fase esecutiva della creazione di una nuova cittĂ  vesuviana.
Il progetto è quello unico di smuovere le coscienze da quel torpore fatalistico e di sussidiarietĂ  che le caratterizza a queste latitudini e di indirizzarle verso quella pratica attuazione di intenti e di idee che ci distinguerebbe finalmente per le nostre qualitĂ  innate e non per il male che ci attanaglia e purtroppo ci precede su, ben oltre il Garigliano.

DISCUTIAMONE SUL FORUM

COSA NE PENSA RAFFAELE LA CAPRIA

LA “CULPA IN VIGILANDO” IN CAPO AGLI INSEGNANTI

La presunzione di Culpa in vigilando in capo agli insegnanti è superata quando è dimostrata la normalitĂ  del contesto in cui il sinistro si è verificato.

Il caso.
Il minore L.F., all’interno dell’aula dell’istituto, veniva colpito durante l’orario di lezione alla testa dallo zaino di altro allievo, riportando lesioni personali.
Da ciò, ossia dalla circostanza secondo cui il L. risulta essere stato fatto segno di una azione colposa di un compagno, consegue l’operativitĂ  dell’art. 2048, comma secondo, c.c., incombendo, in ragione della presunzione di colpa prevista da detta norma, sull’affidatario, privato o persona giuridica che sia, l’onere di provare il fatto impeditivo, cioè di non avere potuto evitare, pur avendo predisposto le necessarie cautele, il verificarsi del danno (v. ex multis Cass. Civ. n° 12966/05).

Ora, dall’istruttoria espletata è emerso che l’insegnante si trovava in aula quando è accaduto il fatto, circostanza invero non contestata dalle parti in causa.
L’insegnante ha riferito di non essersi accorta dell’episodio ma di esserne venuta a conoscenza solo a seguito del malore manifestato da L.. Inoltre, dalla stringata prospettazione offerta dalle parti emerge l’assoluta normalitĂ  del contesto entro cui il sinistro si è verificato, che come tale non poteva giustificare un intervento preventivo da parte dell’insegnante.

Conseguentemente, non può ritenersi che l’insegnante nel caso esaminato sia venuta meno al dovere di adottare doverose modalitĂ  di vigilanza, misure organizzative o disciplinari idonee a evitare il verificarsi di condotte pericolose da parte degli allievi.
Tribunale di Palermo sent.19 mag.010 n.2665:culpa in vigilando

QUANDO SI MANGIANO I MACCHERONI LA MANO PARLA…

La filosofia dei maccheroni: la simbologia della mano che impugna la forchetta. Di Carmine Cimmino«Dal modo con quale mangi gli spaghetti un italiano ti conoscerĂ  per straniero, o per uno straniero che ha imparato; e una persona acuta scoprirĂ  anche qualche tratto del tuo carattere, avido, avaro, frettoloso, timoroso, impetuoso, meticoloso, cauto, disordinato, distratto vedendo il modo col quale tratterai gli spaghetti che il cameriere o l’ospite ti ha portato. Ci sono molti modi infatti di risolvere il problema d’un piatto di spaghetti, quello d’aggredirli a forchettate, quello di giocherellarci colla punta della forchetta, quello di iniziarli dalla parte destra, o dalla sinistra, o dalla cima, quello di lasciarli raffreddare (una colpa gravissima agli occhi d’un buongustaio)».

«E son sicuro che un giorno o l’altro i dottori di psicoanalisi non si contenteranno d’interrogare il paziente disteso sopra un sofĂ , ma vorran vederlo a tavola colla forchetta in mano davanti ad un piatto di spaghetti, e stabiliranno delle categorie e fisseranno delle differenze di comportamento».

Così scrisse Giuseppe Prezzolini, individuando nel gesto della mano che impugna la forchetta un nodo essenziale nella complessa trama di valori che si tesse intorno a un fumante piatto di maccheroni. Nella geniale divagazione di Prezzolini c’è l’influenza del neorealismo che, nel cinema e nella letteratura, e forse anche nella pittura, stava riscoprendo il valore del corpo e la silenziosa loquacitĂ  di movimenti e di gesti che raccontano sensibilmente, a chi li sa osservare, i segreti delle intenzioni.
Il tutto non era una novitĂ , per i Napoletani: il linguaggio della mimica è ancora oggi un cardine della nostra sapienza. Nei gesti noi siamo ancora in grado di vedere ciò che gli altri non vedono: un commento, un approfondimento, o la negazione, di ciò che stanno dicendo le parole.

Le mani hanno piena autonomia nel processo della comunicazione corporea: delimitano lo spazio, misurano il mondo, formano il segno della preghiera e della supplica, esprimono, nel pugno serrato, la forza residua della parte selvaggia della nostra natura, chiamano, respingono, condannano, invitano, accolgono, portano, per chi crede in queste cose, i segni premonitori del nostro destino di morte, spingono la penna a tracciare sul foglio sequenze di segni in una forma che potrebbe essere, per alcuni, la fotografia del nostro carattere, e certamente è un modo unico e inimitabile.

La mano benedice e maledice, la mano dei re medievali guarisce, la mano dei dittatori trasmette la forza del carisma. La storia della pittura potrebbe essere scritta raccontando i modi con cui i pittori stringevano tra le dita il pennello.

Nel quadro La famiglia Belleli, che correda questo articolo, Degas rappresenta sua zia Laura, le figlie, il marito. È una ricca famiglia borghese, vista nell’intimitĂ  della casa, secondo gli schemi soliti della conversation pièce. Nei quadri che rientrano in questo genere le mani dei personaggi si intrecciano, o si tendono l’una verso l’altra, a indicare concretamente i vincoli di affetto che stringono insieme i membri della famiglia. Ma i coniugi Belleli non vanno d’accordo, il loro matrimonio è andato in pezzi: e perciò Degas mette il marito di spalle, e affida alla ragazza seduta al centro il compito di separare lo spazio del marito da quello della moglie, la cui mano sinistra è in parte poggiata sul tavolo, mentre la destra esercita un’ affettuosa autorevole pressione sulla spalla dell’altra figlia.

Degas modifica più volte la mano sinistra: carica il colore, attenua le ombre, disegna le unghie con tocchi magistrali: alla fine, è così contento del risultato da farne una copia, che è quella riprodotta in cima all’articolo. In questo meraviglioso studio di mani c’è, prima di tutto, l’omaggio alla grazia e alla delicatezza della zia. Ma nel palmo rivolto verso il basso e nella pressione delle dita sulla superficie del tavolo c’è la rigida chiusura della donna nei confronti del marito. Nell’iconografia della pittura la mano aperta verso l’esterno indica l’amore, sia quello sacro che quello profano, mentre la mano che allo spettatore rivolge il dorso indica separazione, incertezza, sospetto.

Nel libro Il Mare non bagna Napoli Anna Maria Ortese ci racconta una sua visita improvvisa a Domenico Rea, nella casa di via Arenella. È ora di pranzo, e a capo di tavola c’è Vasco Pratolini che “in maniche di camicia sorrideva vagamente malinconico in mezzo al fumo che saliva da una grande zuppiera di pasta”. Il fumo rappresenta visibilmente la distanza che separa il mondo degli spaghetti da quello dello scrittore: li mangia, ma in modo così distratto, così anonimo da non attirare l’attenzione della Ortese. Anche Domenico Rea pare distratto, ma è solo apparenza: è sordamente attento, mentre spezza il pane con le sue piccole mani, e quando si siede, gomiti sul tavolo. È una posizione di difesa, che esprime fastidio, e forse rifiuto.

Rea sa che Anna Maria ha giĂ  fatto visita a Luigi Compagnone, ed è certo che Compagnone ha parlato male di lui, per invidia. Intanto la moglie gli sta mettendo gli spaghetti nel piatto, dalla zuppiera, e lui dice “basta“, “dopo due forchettate“. “Non mangiava molto –commenta la Ortese- , come tutti gli ambiziosi. Sapeva che il mangiare addormenta. “E pare una citazione di Marinetti. Rea non pensa agli spaghetti: vuole sapere dalla Ortese cosa ha detto di lui Compagnone. “Mi odia? Di’ la veritĂ . Mi odia?“. E prima che la Ortese, giĂ  intenta a risolvere il problema del suo piatto di spaghetti, possa rispondere, Rea butta “la forchetta con ira sulla tovaglia”.

Nel 1944 Man Ray assembla, su un telaio ovale, un coltello alla destra e una forchetta alla sinistra di un pezzo di rete, che contiene una manciata di piccole biglie di legno. DĂ  all’opera, che oggi appartiene alla Galleria d’arte moderna di Roma, il titolo Signor Coltello e Signorina Forchetta. Arturo Schwarz, che ha scritto una monografia su Ray (e ha donato l’opera alla Galleria), spiega perché la forchetta è un simbolo femminile: ed è una spiegazione complicata, su cui ritorneremo. Chiudo ricordando che, secondo la Ortese, la moglie di Rea fu tanto turbata dal gesto del marito, e dalla paura di perdere l’amicizia di Anita, moglie di Compagnone, che si mise a piangere, “con la testa sul tavolo.”.

E il marito, fuori di sé, la rimproverò: “Stupida, ora ti do uno schiaffo“. Forse il gesto di buttar via la forchetta fu autenticamente maschilista, un gesto da coltello, direbbero Man Ray e il suo cantore; e forse è possibile una filosofia dei maccheroni sia in presenza che in assenza.

L’OFFICINA DEI SENSI

FORUM DEI CATTOLICI SULL’UNITÁ D”ITALIA

0
L”UnitĂ  d”Italia non è conclusa ma quello che abbiamo è a rischio, per motivi che vanno oltre il contingente. Tra i temi del Forum, anche la necessitĂ  di dare più importanza alla famiglia, vero argine alle ricorrenti crisi. Di Don Aniello Tortora

Nei 150 anni dell’UnitĂ  d’Italia. Tradizione e progetto” è il titolo del X Forum del progetto culturale che si è tenuto a Roma dal 2 al 4 dicembre 2010. Si è aperto con il saluto del Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della CEI. Le tematiche affrontate hanno riguardato il rapporto tra la Chiesa e i cattolici in Italia, i cattolici e la cultura, le opere e la tradizione dei cattolici, i cattolici, la politica e le istituzioni. L’intervento del Card. Camillo Ruini, Presidente del Comitato per il progetto culturale ha concluso i lavori.

E l’ex Presidente della CEI ha sottolineato che “questo X Forum, che riflette sui 150 anni dell’unitĂ  d’Italia in uno dei momenti delicati della vita della nostra nazione, ha rappresentato l’occasione favorevole per far emergere tale valenza civile, sociale e politica del progetto culturale, sempre nel quadro e alla luce della sua primaria finalitĂ  di incontro tra fede e cultura”. Lo stesso card. Bagnasco aveva auspicato che gli incontri potessero dare il proprio contributo perchè “possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo”.

In concreto, l’obiettivo di queste tre giornate di lavoro e di confronto è stato quello di indicare delle prospettive sia per l’Italia come popolo e nazione, sia per la Chiesa in Italia, sia specificamente per i laici cattolici, nelle loro proprie responsabilitĂ  . Si tratta indubbiamente di un compito arduo, anzi un poco temerario, come sembra risultare dalle tante questioni aperte e di difficile soluzione che sono emerse dal dibattito.
Il forum si è concentrato principalmente sulla storia, l’identitĂ , la vocazione, il presente e il futuro dell’Italia. Il Prof. Scarpati ha messo in risalto l’identificazione culturale, letteraria e artistica dell’Italia, che ha preceduto di molti secoli lo Stato unitario, dando forma, sia pure incompiuta, all’unitĂ  della nostra nazione.

E il Prof. Ornaghi ha osservato che anche oggi l’itinerario verso l’unitĂ  sembra in qualche modo inconcluso e non esente da rischi. Nelle circostanze attuali è facile identificare le fonti di questi rischi da una parte nelle difficoltĂ  del momento politico e dall’altra nella crisi economico-finanziaria internazionale, che pesa naturalmente anche sull’Italia. Si tratterrebbe però di una valutazione troppo sbrigativa, che non risale alle cause più vere e profonde non solo dei pericoli per l’unitĂ  nazionale ma più ampiamente degli ostacoli al bene-essere (preso in un senso non solo materiale) e allo sviluppo dell’Italia. Alcune di queste cause possono essere individuate sul versante politico e istituzionale, quali la difficile riformabilitĂ  del nostro sistema, conseguenza della difficile governabilitĂ .

Si è affrontato anche la questione del federalismo: da una parte – è stato ribadito – esso corrisponde alla ricchezza pluriforme della realtĂ  storica, sociale e civile italiana e può contribuire a una più forte responsabilizzazione delle classi dirigenti locali; dall’altra parte, per non nuocere all’unitĂ  della nazione, il federalismo non solo deve essere solidale, ma va bilanciato con una più sicura funzionalitĂ  del governo centrale. Altro argomento su cui il forum ha riflettuto è stato quello della famiglia.

L’Italia – si è detto – dovrebbe valorizzare ben di più quello che rimane un suo grande punto di forza, e cioè la profonditĂ  e la tenacia dei legami familiari, che spesso vengono invece considerati come un nostro motivo di arretratezza: ma simili valutazioni hanno ricevuto una smentita concreta dalle capacitĂ  di resistere all’attuale crisi economica, capacitĂ  che per l’Italia dipendono in larga misura dal ruolo e dal risparmio delle famiglie. Nel corso del dibattito sono state individuate, inoltre, varie altre fragilitĂ  e zone d’ombra del nostro paese, ma si è anche messo l’accento sulle sue potenzialitĂ  e specifiche risorse. Soprattutto, si è tentato di configurare un progetto e una “missione” che indichino un cammino per l’Italia, e in essa per la Chiesa e per i cattolici.

Il card. Ruini, facendo riferimento a tal fine, ha riportato anzitutto quanto diceva Giovanni Paolo II agli inizi del 1994, in un momento di gravi difficoltĂ  per l’Italia e per i cattolici: “Sono convinto che l’Italia come Nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa. All’Italia, in conformitĂ  alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo”. E queste parole di Giovanni Paolo II mostrano un senso davvero alto della missione storica dell’Italia e legano questa missione all’anima cattolica del nostro paese e alla speciale presenza anche istituzionale che in essa ha la Chiesa. Il problema vero però, dal nostro punto di vista di cattolici italiani, riguarda l’esistenza, oggi, delle condizioni effettive per corrispondere a una simile missione.

Convinzione di Giovanni Paolo II era comunque che non si trattasse di mera utopia: “la Chiesa in Italia – diceva, ancora, Giovanni Paolo II – è una grande forza sociale che unisce gli abitanti dell’Italia, dal Nord al Sud. Una forza che ha superato la prova della storia”. E nell’ottobre 2006, parlando al Convegno di Verona, Benedetto XVI ha detto, a sua volta, che “L’Italia… costituisce… un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtĂ  molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni etĂ  e condizione”.

E allora sorge una necessitĂ , per i cattolici italiani, di essere, nel loro impegno per il paese, anzitutto, genuinamente e concretamente “cattolici”, oggi. E, vorrei sottolineare, semplicemente cattolici. Mi sembra, questa, la premessa essenziale per un impegno che sia storicamente efficace e che possa contribuire a tenere unita un’Italia che qualcuno per “egoismo locale” vorrebbe dividere e in un momento epocale della nostra storia così delicato e complesso. Tocca ai cattolici “rimboccarsi le maniche” e spargere semi di solidarietĂ .
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

IL NATALE DI UNA VOLTA:

0
Tra angosce, frenesie e rimpianti si consuma il rito dell”attesa. In un periodo magico dell”anno cambiano i comportamenti delle diverse generazioni. Di Luigi Jovino

“Il futuro non è più quello di una volta” ha scritto la mano di un poeta di strada su un muro di Milano. La frase di una semplicitĂ  disarmante ha fatto rapidamente il giro del mondo ed è diventata la metafora di una gioventù inquieta che non trova nel domani certezze, speranze e considerazioni. Il difetto di futuro accusato dai giovani nella societĂ  odierna, descritta con realismo impressionante dall’ultimo rapporto del Censis, sembra sommarsi al difetto di passato, mai rimosso dalle generazioni dei non più giovani.

Se i quarantenni o i cinquantenni di oggi avessero la stessa sfrontatezza e la stessa voglia di libertĂ  dei giovani writers sono sicuro che sui muri di tutta Italia comparirebbero centinaia di scritte “Natale non è quello di una volta”. Mi chiedo perché tante persone della mia generazione siano convinte di questa accezione. In fondo le atmosfere sono migliorate. Il Natale moderno è il Natale degli architetti. Sono state costruite ambientazioni suggestive nelle strade e nei vicoli di tante cittĂ . I villaggi di Babbo Natale spuntano in ogni dove. Le renne sono di casa. Le luci accecano, sfavillando in mille bagliori. Neanche a parlare del cibo! Confezioni della tradizione, presidi isolati del gusto, riscoperta della semplicitĂ  e dei sapori forti.

E ancora: inni alla gioia, Te Deum e ogni anno una nuova canzone. Di regali, poi, ce ne è a iosa. Anche la tredicesima più asfittica può servire a comperare un peluche e a fare, nel contempo, adozioni a distanza. La solidarietĂ  di Natale è a basso prezzo: un euro dal telefonino. Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti. Mancano un po’ le famiglie matriarcali o forse manchiamo noi. Il Natale non è più quello di una volta perché siamo cambiati noi. È un’equazione banale, ma l’unica che serve a giustificare. Non siamo più quelli che rimpiangiamo di essere stati, ma neanche per un momento, credo, penseremmo di tornare indietro. Certo l’affetto delle persone che non ci sono più è un vuoto incolmabile che si ripresenta, tal quale, nell’occasione del Natale.

Oltre a questo non c’è più niente! Forse la gioventù che tra l’altro possiamo vivere di riflesso nei nostri figli. Nei nostri nipoti. Molti pensano che il consumismo abbia confuso i significati più profondi della Festa. L’attesa è diventata frenesia. Il desiderio di offrire all’altro una sindrome convulsiva. Ma non si può imputare al ritmo incalzante la trasfigurazione di un evento che ha così profondamente segnato le nostre impressioni giovanili. Per non vivere il consumismo della Festa basterebbe fermarsi. In giro ci sono anche Natali proletari, vissuti accanto ad una tenda di operai in cassa integrazione. Il modernismo non basta a giustificare la malinconia per il tempo andato che si ricopre di angoscia. Monumenti di nostalgia.

Quello che dovremmo rimpiangere, invece, sono le compagnie. Un mio amico barista mi faceva notare che sono sparite le comitive. Al giorno d’oggi la convivenza, anche quella semplice nelle occasioni di una festa, è diventata difficile. Materiale da museo sociologico. Ci provano i cenoni a raggruppare. O le mille feste di piazza in attesa dell’anno nuovo. Anche il Capodanno, però, non è più quello di una volta. Si sta in migliaia. A contatto di gomito tra sconosciuti in attesa del primo rintocco, ma a giudicare dai fatti non sembra ci sia tanta socialitĂ . E dopo mezzanotte attenti alle bottiglie che volano. Pochissimi sono i cinquantenni che festeggiano in piazza. Meglio le crociere, i cenoni presso amici o in famiglia; chi non può permettersi altro.

Accanto ad un camino elettrico con il caldo soffuso da climatizzatori split, i non più giovani preferiscono narrare agli amici e parenti com’era diverso il Natale di tanto tempo fa. In pratica si diffonde la patologia delle cose sparite. Di quelle irrimediabilmente perse. E i moderni psicologi giĂ  stanno pensando di aggiungere sui biglietti da visita e sulle targhette degli studi la scritta: “Progettista del passato”.

LA RUBRICA

BRUCIARE I RIFIUTI NON CONVIENE: DA NESSUN PUNTO DI VISTA

0
Bruciare i rifiuti avvelena la terra, l”aria e l”acqua, provocando seri danni alla salute. Invece, i rifiuti differenziati potrebbero essere fonte di notevoli vantaggi economici, nel rispetto degli esseri viventi. Di Amato Lamberti

Forse, sui rifiuti si è scritto e detto fin troppo. Da anni non facciamo che ripetere le stesse cose ma non riusciamo ad avere interlocuzione con coloro che decidono sulla testa dei cittadini senza mai sognarsi neppure di consultarli. Non si tratta di essere pessimisti o catastrofisti, tantomeno per partito preso. D’altra parte solo chi ha interessi da difendere prende partito per questa o quella soluzione. Il mio è un discorso semplice: bruciare i rifiuti non conviene né da un punto di vista ambientale, né da un punto di vista della salute della gente e degli animali, né, tantomeno, da un punto di vista economico.

Bruciare i rifiuti avvelena la terra, l’aria, le acque superficiali e sotterranee: l’ho giĂ  detto e scritto e non ci ritorno sopra. Bruciare i rifiuti danneggia però anche la salute degli animali e delle persone. Quindi, danneggia la salute delle persone, direttamente, perché le fa ammalare più o meno gravemente; ma le danneggia anche indirettamente, perché molti animali entrano nella catena alimentare umana, come avviene anche per cereali, ortaggi e frutta, e ci si può ammalare anche mangiando carni o cereali, ortaggi e frutta inquinati da metalli pesanti o da altre sostanze organiche.

I giapponesi non vengono più a pescare nel Mediterraneo perché il pesce, come il tonno e il pesce spada, ha percentuali troppo alte di mercurio, che pare sia responsabile di molte malattie mentali e alterazioni del comportamento. Da noi nessuno si preoccupa e quindi va bene così. Anche su questo tema, quello dei danni alla salute, c’è una letteratura abbondante in tutte le lingue, compreso arabo, cinese, russo, e non solo inglese, francese, tedesco, spagnolo, danese e norvegese. Oggi Google permette di avere la traduzione, certo molto letterale, di tutti i testi presenti in internet e quindi anche chi non padroneggia molte lingue e nemmeno l’inglese può facilmente almeno orientarsi.

Certo, i danni alla salute non sempre, anzi quasi mai, sono immediatamente visibili, ma quando su un territorio delimitato si registrano tassi di mortalitĂ  per tumori che sono 10, 20, 30 volte superiori alla media regionale e nazionale viene il dubbio che ci sia su quel territorio qualcosa che produce quei risultati catastrofici. SarĂ  una fabbrica di veleni, o qualcosa d’altro, ma se su un territorio definito trovo percentuali troppo alte di sostanze nocive nel sangue delle persone o, addirittura, nel latte materno, è da irresponsabili non cercare la fonte di questo avvelenamento collettivo. Poi, una volta individuata la fonte che avvelena terra, aria, uomini , animali e piante, si può anche decidere, come generalmente avviene, di continuare a farla funzionare ma non si dovrebbe farlo senza avvisare i cittadini dei pericoli che corrono.

È da delinquenti, da processare per procurata strage, arrivare al punto di nascondere i risultati delle analisi e far girare notizie false solo per tranquillizzare la situazione. Ma le notizie vere circolano, basta cercarle dove si trovano. Per fortuna oggi c’è la rete dove si può trovare anche un film come "Biutiful cauntri" (scritto come si pronuncia) o un sito come "La terra dei fuochi". Nessuno, neppure il più ignorante degli amministratori, può più dire: non sapevo. Infine, bruciare i rifiuti non è la soluzione economicamente più remunerativa, anche in Italia, dove il contributo CP6 fa notevolmente aumentare il rendimento economico dell’energia elettrica prodotta.

Le frazioni differenziate vendute separatamente alle aziende che le riutilizzano hanno una resa economica notevolmente superiore e comunque permetterebbero di abbattere significativamente, a vantaggio dei cittadini, la tassa sui rifiuti urbani. In tutto il mondo si stanno sperimentando utilizzazioni innovative delle frazioni differenziate. In Giappone, ad esempio, sono giĂ  in produzione apparecchiature che dalla plastica ricavano benzina, nafta e kerosene, con un rendimento particolarmente significativo e con scarso consumo di energia. Dai rifiuti ricchi di cellulosa, come la carta, ma anche gli scarti di cartiera, o i residui della lavorazione del tabacco, si può produrre acido levulinico, utilizzabile nella produzione di benzine come antidetonatore non cancerogeno, ma anche nella produzione di vernici e di solventi non cancerogeni.

Gli scarti della produzione di formaggi e latticini possono essere utilizzati per la produzione di bioproteine, con altissimo valore aggiunto. Gli esempi potrebbero essere tanti, ma l’importante è che in tutto il mondo si ragiona considerando il rifiuto come una risorsa da utilizzare ricorrendo anche alle tecnologie più avanzate. Solo in Italia si continua a pensare ai rifiuti, che comunque sono prodotti da uno stile di vita e di consumo che potrebbe anche essere modificato per limitarne la produzione ormai diventata parossistica, come un problema da seppellire e da incenerire, per nasconderlo alla vista, senza neppure pensare alle ricadute in termini di inquinamento e di malattie, né tanto meno ai vantaggi economici di una intelligente utilizzazione.

Potremmo anche dire che è la riproposizione di un vecchio dilemma: è meglio l’uovo oggi o la gallina domani? Con una modifica abbastanza significativa: è meglio l’uovo avvelenato oggi o la gallina dalle uova d’oro domani? I nostri amministratori, per fortuna non tutti, sembrano oggi preferire l’uovo avvelenato, perché la salute delle piante, degli animali e delle persone non li riguarda.
(Fonte foto: Rete Internet)

L’ORIGINE DEI “FAMOSI” ODORI DI NAPOLI

E la spazzatura di Napoli generò la Malora di Chiaia, la febbre napoletana e l” igiene omicida. Di Carmine Cimmino

Prima del 1840 -scrisse Pasquale Villari nelle Lettere Meridionali– in molti quartieri di Napoli mancavano le fogne, e in molte case “mancavano veri e propri cessi. Alla fine di Chiaia era un luogo, in cui, al cader della sera, s’andava a versar nel mare tutto ciò che non si poteva gettar nelle latrine, che ivi mancavano. Quell’ora si chiamava la Malora di Chiaia, che, personificata dalla leggenda, divenne poi una specie di strega, messa in commedia al San Carlino ed in altri teatri popolari”.

Per secoli il teatro ha esorcizzato tutti i guai della cittĂ : era fatale che cercasse di mettere in maschera anche questo appuntamento serale con la puzza. Alla Malora di Chiaia Francesco Mastriani diede il volto di una vecchia stregaccia, personaggio del romanzo I vermi: “la sua faccia era quanto si può immaginare di più orribile e mostruoso: gli occhi erano due fossi orlati di rosso: la cornea, la pupilla, tutto era perduto tra le caccole e gli afflussi sanguigni. Pure nel mezzo di quei bulbi schifosi un punto di luce d’inferno rilevava la ferocia della megera”.

Poi Ferdinando II ordinò di fare le fogne. Le fogne furono fatte “poco larghe, poco profonde, senza la necessaria inclinazione, e sboccarono nel mare, sotto le finestre delle case”. Nelle fogne confluirono l’ acqua delle piogge e gli scarichi delle latrine e dei pozzi neri: questa fetida proluvie correva giù rapida lungo i tratti collinari dei condotti, ma arrivata in pianura, si fermava, bloccata dalla scarsa pendenza dei canali sotterranei e dallo scirocco che soffiava dal mare, controcorrente. Questa i palude sommersa impregnava il suolo, sprigionava pestifere esalazioni fin nelle case, ammorbava i quartieri del litorale, che erano stati i luoghi di delizie della cittĂ . Ma il putridume attaccava e corrodeva anche gli acquedotti, si infiltrava nell’acqua potabile e avvelenava i napoletani.

L’Ufficio Municipale di Igiene cercò di nascondere i dati sull’epidemia di colera del 1873, e su quella di dermotifo del 1875 e del 1876, ma poi fu costretto a pubblicarli, incalzato dall’ingegnere Giulio Melisurgo e da Marino Turchi, Rettore dell’UniversitĂ . I dati dimostrarono che ogni volta uno dei focolai dell’epidemia si era acceso tra gli abitanti di via Mezzocannone, dove l’acqua potabile dell’acquedotto della Bolla veniva senza ombra di dubbio contaminata dai pozzi neri collegati a certi cessi posti nei compresi non ventilati del porticato dell’UniversitĂ .

Durante la lunga, aspra polemica che ci fu tra lui e i responsabili dell’Ufficio Municipale d’Igiene, Giulio Melisurgo notò che tra il 1871 e il 1881 il flusso dei viaggiatori in arrivo alla stazione ferroviaria di Napoli si era ridotto di 400.000 unitĂ , con un danno complessivo di circa 350 milioni di lire. Che, per l’epoca, era un danno gigantesco.
“Da Napoli si fugge per il dermotifo, per la febbricola tifosa descritta dall’illustre prof. Tommasi, per la febbre atipica riconosciuta dal dott. Franco, per la febbre aciclica narrata dal dott. Cozzolino, per l’ avvelenamento da idrogeno solforato constatato dal dottor Davide Borrelli: in una parola, per quel malanno che in Europa è conosciuto sotto il nome di febbre napoletana, e che il dotto prof. Schron fu uno dei primi, quattordici anni fa, a segnalare e definire malaria tifoide napoletana”.

Nel 1881 Melisurgo notò che le tre discariche della cittĂ , alla strada di Poggioreale, al Pasconcello e a ridosso della dogana di Piedigrotta, ricevevano ogni giorno solo una parte della spazzatura raccolta: il resto, gli spazzini, i portinai e le donne dei bassi lo versavano nella fitta rete di 16000 chiusini e caditoie, così che “ogni 20 metri nelle strade, e in ogni cortile c’è una fossa in continuo stato di putrefazione”.

Questi sono i famosi odori di Napoli. Alla lista bisognava aggiungere i miasmi che sulla via di Poggioreale, proprio accanto al deposito della spazzatura, e presso il cimitero ebraico, si sprigionavano da orrende officine in cui si riducevano a concime lì le feci, qui le carcasse degli animali ammassate in vasti fossi. Non bisognava dimenticare la putrefazione permanente prodotta dall’abitudine di “cambiare le lettiere sotto i cavalli solo ogni tre mesi”: e a Napoli c’erano stalle in ogni strada, per i cavalli delle tramvie, dell’esercito e dei privati.

Nel 1872, il regolamento dell’igiene pubblica aveva ordinato: “dalle stalle situate nell’interno della cittĂ  il letame dovrĂ  essere asportato giorno per giorno nelle ore dalla mezzanotte all’alba. Di giorno potrĂ  essere permesso con speciale licenza dell’autoritĂ  municipale, solamente in carri o recipienti chiusi, da nascondere del tutto la vista e la cattiva esalazione al pubblico”. Ma le regole, osservò Melisurgo, sono scritte per gli imbecilli.

Nel marzo del 1881 la Giunta Comunale di Napoli autorizzò il conte Fiume a trasformare in concime “le carni malsane, scartate nel macello, e che di solito vengono bruciate o in altro modo distrutte”. Gli amministratori non tennero in alcun conto le preoccupazioni del Klebs e di Corrado Tommaso Crudeli, i quali, dopo meticolosi studi, non se la sentivano di escludere che il concime ricavato da carni malsane potesse infettare le campagne, i polli e gli uomini. Melisurgo commentò, sarcasticamente, che la Giunta del Comune di Napoli si era data alla “coltivazione di veleni morbosi, come se non bastassero le cause d’infezioni esistenti”.

“Acqua al senso dei cadaveri. Acqua al senso di latrine. Acqua al senso di spazzatura. Pare uno scherzo, ma questo è quello che ci si fa bere. L’ufficio d’igiene chiama ciò igiene nazionale; io preferisco chiamarla igiene omicida”. Così scrisse, nel 1882, Giulio Melisurgo, coadiutore alla Cattedra e Gabinetto d’igiene dell’UniversitĂ  di Napoli, membro del Consiglio dell’ Istituto Sanitario della Gran Bretagna, ecc.ecc.ecc.
(Nella foto: “L’attesa”. Riproduzione di Vincenzo Migliaro, ambientato al porto)

LA STORIA MAGRA

UNA GIORNATA DIVERSA:MENTE

L”11 dicembre, a San Giorgio a Cremano, si discuterĂ  del pregiudizio sociale verso la malattia psichica. Saranno presentati lavori realizzati da giovani pazienti psichiatrici. Di Annamaria Franzoni

Sabato prossimo, 11 dicembre 2010, presso Villa Bruno a S. Giorgio a Cremano, dalle ore 16.00 alle ore 20.00 verrĂ  presentata un’iniziativa di grande impatto sociale il cui obiettivo principale è quello di sensibilizzare il territorio e soprattutto gli adolescenti sulla malattia mentale, mostrando che, al di lĂ  della patologia, esiste un mondo fatto di creativitĂ , produzione, modi di vivere e “saper fare”: Una giornata diversa…mente.

L’obiettivo è quello di coinvolgere i giovani studenti delle scuole che hanno aderito all’iniziativa a lavorare sul pregiudizio, perché molte delle difficoltĂ  d’integrazione dei sofferenti psichici dipende dalla mancanza di conoscenza di questa malattia. Il progetto è infatti consistito nell’incontrare i ragazzi, confrontarsi con loro sulla malattia psichica e coinvolgerli attivamente nell’iniziativa.

Il progetto è stato realizzato dalla Cooperativa sociale “Litografi Vesuviani – servizi, salute, lavoro”, che nasce nel 2000 con la collaborazione dell’UnitĂ  Operativa di Salute Mentale dell’ASL NA 3 sud, per dare un’opportunitĂ  lavorativa a giovani sofferenti psichici , nell’ambito della grafica pubblicitaria, fotografia e della serigrafia. La Cooperativa, inoltre, si impegna anche in servizi di assistenza domiciliare a pazienti psichiatrici e alle loro famiglie.

Il presidente, dott.ssa Ornella Scognamiglio, ha coniugato nell’ambito della manifestazione di sabato prossimo, la presenza di personaggi del mondo scientifico, della comunicazione, dell’arte e dello spettacolo, favorendo un dibattito tra il mondo scientifico e quello intellettuale soprattutto con la presenza degli addetti ai lavori del mondo della comunicazione allo scopo di far emergere il fenomeno del “Pregiudizio Sociale”, rispetto alla salute mentale.

SarĂ  inoltre l’occasione per presentare un libro di Fotografie e Poesie, con la prefazione della scrittrice napoletana, di fama nazionale, Antonella Cilento, intitolato “Life Around”, realizzato interamente dai pazienti psichiatrici del Centro Diurno di Via Sandriana a San Giorgio a Cremano.

Infine gli adolescenti sfileranno indossando capi di abbigliamento realizzati interamente dalla cooperativa, con un brand originale denominato “DiversaMente” e verrĂ  premiato il ragazzo e la ragazza che più sarĂ  rappresentativo del concetto “solidarietĂ ”.
Il premio di Miss e il Mister Solidale consisterĂ  in corso a scelta tra grafica pubblicitaria, fotografia digitale, di serigrafia, oppure di webmaster. Questo per coniugare il look e la moda giovanile all’anima sociale.

Ci auguriamo che tale manifestazione possa contribuire ad abbattere il luogo comune di ricordarci della problematica legata alle patologie psichiatriche solo quando tragici fatti di cronaca ne portano alla ribalta il dramma in tutta la sua complessitĂ : infatti il sostegno sociale, fattore primario di prevenzione dello stesso disagio, costituisce uno dei principali fattori predittivi positivi per il decorso della malattia mentale, scardinando lo stigma sociale che aggrava la patologia psichiatrica allontanando il soggetto in stato di bisogno e alimentando la marginalizzazione.

LA RUBRICA

LE RESPONSABILITÁ DELL’INSEGNANTE

La disamina settimanale sulle vicende che accadono a scuola e che hanno rilevanza giuridica, anche oggi si sofferma sulla culpa in vigilando a carico dell”insegnante.

La sentenze che prendiamo in esane e e che vi sottoponiamo questa domenica, è la sentenza 1 marzo – 26 aprile 2010, n. 9906: culpa in vigilando. Essa riguarda i danni subiti da un’alunna di scuola dell’infanzia, a causa di una cordicella dello scarico del water il cui gancio si era rotto.

Caso
C. P. ed A. N., in proprio e quali esercenti la potestĂ  genitoriale sulla minore S. P., hanno chiesto al Tribunale di Lecce la condanna al risarcimento dei danni dell’insegnante M.M. e del Ministero della Pubblica Istruzione, per i danni subiti dalla minore in occasione di un incidente occorsole all’interno della scuola materna frequentata dalla bambina.

I genitori asserivano che verso le ore 10 del **** la bimba era stata accompagnata dalla maestra M. M., che poi era ritornata in classe, in bagno; che la bimba aveva tirato la cordicella dello scarico, il cui gancio si era rotto e, cadendo, le aveva colpito l’occhio sinistro procurandole gravi lesioni.

Il tribunale, con sentenza del 14.9.2001, accoglieva la domanda sul presupposto che l’incidente si era verificato per culpa in vigilando dell’insegnante, condannando il Ministero della Pubblica Istruzione al risarcimento dei danni
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d’Appello e la corte di Cassazione.

Motivi della decisione
La Corte di merito, nel riconoscere la responsabilitĂ  dell’insegnante per culpa in vigilando, ha, a tal fine, precisato che “… La piccola S. dell’etĂ  di **** anni, accompagnata in bagno dalla maestra che è ritornata immediatamente in classe ove aveva lasciato incustoditi altri 26 bambini, non doveva essere lasciata sola”, avvalendosi eventualmente dell’ausilio e l’intervento del personale non docente, “ma sempre su interessamento della maestra che aveva la responsabilitĂ  di vigilare sui bimbi ad essa affidati”; concludendo che, al di lĂ  della circostanza che la rottura della catenella del W.C. era circostanza imprevedibile, “resta comunque la mancata sorveglianza necessitata in considerazione dell’etĂ  della bambina che non era in grado di valutare le conseguenze di un gesto apparentemente innocuo…”.

La Corte di merito ha, quindi, puntualmente individuato nella mancata sorveglianza, anche tramite l’ausilio di terzi (il personale non docente della scuola materna), il titolo della responsabilitĂ  (definita comunque “non colpa grave o dolo”) a carico dell’insegnante.

LA RUBRICA

COSA MANGIAVANO I VESUVIANI, ALL’ARRIVO DI GARIBALDI

I vesuviani, nel periodo precedente l”arrivo di Garibaldi, erano talmente poveri che non potevano permetersi nemmeno i maccheroni. E per forza di cose erano mangiafoglie. Di Carmine CimminoCosa mangiavano i vesuviani all’arrivo di Garibaldi? Andiamo a leggerlo nelle relazioni degli Ufficiali Sanitari. La spietata chiarezza dei numeri dimostra che per molti vesuviani l’epiteto di mangia maccheroni suonava come una presa in giro: avrebbero voluto esserlo, ma la tasca non consentiva nemmeno questo. Un operaio specializzato della Guppy guadagnava 2 lire al giorno, una tessitrice meno di una lira. Un chilo di maccheroni costava poco meno di mezza lira.

Nei paesi non c’erano i maccaronari, che invece in cittĂ  piazzavano le loro marmitte ribollenti all’aperto, e vendevano a due o tre soldi piattelli di pasta appena macchiata di sugo di pomodoro e toccata qua e lĂ  da una timidissima spruzzatina di cacio piccante di Crotone.

I giornalieri vesuviani erano condannati a restare mangiafoglie, e, per loro fortuna, gli orti del Vesuvio e la piana del Sarno fornivano a sufficienza erbe di ogni tipo per saziare la fame: radici di rapa, broccoli, broccoli di rapa, che costituivano uno dei piatti tipici del Natale, cavoli cappuccio, cavoli sverzi, che i napoletani chiamano virzi, a foglie crespe e a foglie lisce; i cavoli torzo, detti anche torzelle, il cavolfiore marzotico e quello natalino, i carciofi, la scarola cicoregna, la scarola ricciuta, la scarola schiana, che si raccoglieva tutto l’anno e nutriva anche i cavalli.

Le lattughe, a cappuccio, a palla, ricciute, costituivano la base delle insalate che erano un piatto fisso sulla tavola dei poveri: molti usavano mangiarne crude le foglie, ben conoscendo le virtù rinfrescanti e calmanti di quell’erba. Ma ogni erba aveva la sua virtù, e la trasmetteva all’insalata: la cicoria vesuviana e la cicoria selvaggiuola depuravano il sangue, il finocchio aiutava a digerire, l’appio, l’ alaccia, era diuretico, mentre la menta, l’origano, arecheta, e il prezzemolo insaporivano il piatto. Chi se lo poteva permettere, aggiungeva alla lattuga anche i cardoncelli, la ruchetta, la porcellana, che il popolino chiamava porchiacchella. Le insalate di urticanti foglie della stracciacannarone, e cioè di crescione a foglie larghe e di crescione riccio, e di acetosella, venivano consigliate dai medici per le loro virtù diuretiche e antiscorbutiche.

Era largo il consumo, nelle zuppe col pane e nelle minestre con pasta corta, dei fagioli bianchi, e dei fagiolilli. Le fave a semi piccolissimi servivano da nutrimento dei cavalli: agli uomini erano riservate le mezze fave e le fave dette volgarmente schiane, che sono le più grandi e quando erano verdi e tenere si mangiavano crude, ed erano cibo devozionale per la Pasqua. Fresche, si usavano nelle zuppe con le cipolle; ma in inverno si facevano secche e amare, così che il popolo minuto chiamava le zuppe di fave secche cibo dei detenuti. I piselli si consumavano sempre freschi: erano un cibo per ricchi, a causa del costo elevato, ma a Pasqua anche i poveri facevano in modo che fossero presenti sulla loro tavola.

Anche i ceci si mangiavano solo secchi e in minestra, e non molto spesso, e non perché fossero poco digeribili, ma perché disturbavano le visceri. Non era frequente l’uso delle lenticchie e delle cicerchie siciliane. Le barbabietole che i napoletani chiamavano carote venivano arrostite, o bollite, o congiunte con le cipolle in sapide insalate. Le radici delle carote, le pastenache, trattate a lungo con l’ aceto, e con l’aggiunta di aglio, peperoni, menta e altre erbe aromatiche formavano quel piatto speciale che si chiama scapece.
Scrive nel 1863 un sanitario dell’ Amministrazione Provinciale:

“Quattro sono le specie del ravanello: rosso, bianco, quello a radice lunghissima, l’altro detto rapesta, che è molto carnosa, e spesso è grossa tanto da pesare una libbra. Il nostro volgo ne mangia a fine pasto, e fa bene, perché hanno sapore e odore speciali, e favoriscono la digestione, essendo una pianta crucifera; le sue foglie di sapore amaretto sono antiscorbutiche. Le cipolle sono assai usate, specie quelle con il bulbo grosso, che si chiamano agostegne e si conservano per tutto l’inverno: la povera gente le mangia crude col pane. I Napoletani sono ghiotti delle cipollette mangiaiaole, col bulbo piccolo, le quali seminate in settembre si mangiano a maggio o a giugno con le minestre di fave e di piselli, o crude con diverse insalate. Fanno bene i campagnoli a mangiarla insieme al pane di mais: ma sbagliano i napoletani a farne abuso, soprattutto la sera, perché contiene “un olio bianco acre volatile” che in larga dose inasprisce il tubo digerente”.

La carne di bue e di vitello costa tanto che se la possono permettere solo gli agiati. Il popolo minuto mangia in estate carne di agnello, raramente di castrato, e in inverno carne di porco. Il pollo é considerato un cibo leggero, da infermi, mentre largo, a Natale, è il consumo di capponi. Più delle alici e più dei maccheroni, è stato il porco nero a nutrire il popolo minuto del Vesuviano. Le salsicce e le costatelle si vendevano fritte per strada, “al vilissimo prezzo di 3 centesimi ciascuna”. Il grasso del porco veniva liquefatto in sugna, e i residui carnosi, i cicoli, erano una prelibatezza per i poveri. Era largo il consumo del fegato di porco diviso in pezzi, e di zoffritto: un misto di pezzi di fegato, milza, rognoni, cuore e polmoni del porco, cotti nel grasso e conditi con pepe e foglie di lauro.

I bettolieri lo esponevano all’ingresso della taverna, in zuppiere di terracotta dipinta: in inverno ‘o zoffritto serviva da esca ai bevitori. Zampe, muso, intestini del bue e del porco, e in particolare lo stomaco di bue, formavano la trippa o capezzale, che però non costava poco. In inverno i beccai vesuviani vendevano, a 2 centesimi la ciotola, anche zuppe di cotiche di maiale: i sanguinacci di porco, trattati con zucchero, aromi e cioccolata, erano cibo per agiati. Dopo il 1862, le commissioni sanitarie consigliarono di diffondere l’uso del castrato, perché “in paragone all’agnello è molto più ricco di masse muscolari, e quando non è molto grasso dĂ  buona carne, a un prezzo molto più mite di quella del bue”. Non fu facile rimuovere dai banchi dei beccai il fegato di porco con cisticerchi e la carne di agnello affetto da schiavina.

Operai e contadini facevano un largo consumo di stocco e di baccalari: non potevano permettersi le anguille del Sarno e del Garigliano, e nemmeno le alici, che nel 1867, nel mercato di Torre del Greco, costavano anche 30 centesimi il chilo. I pescivendoli locali si rifornivano a Torre di ruonchi, marvizzi, pesce palumbo, sauri, sarde, fiche e suace, che erano i nomi napoletani di un tipo di platessa e del gado minuto. Il grido, fiche sarde suace, risuonando nei quartieri del popolo minuto, annunciava l’arrivo del carrettino colmo di spaselle di pesce: anche la pescatrice costava poco. Allora.

Dal mercato di Castellammare veniva il pesce dei ricchi: triglie, calamari e seppie. Tra il 1875 e il 1880 i ristoranti di Portici e di Torre del Greco, in cui la media borghesia festeggiava i matrimoni, incominciarono a introdurre nel menù anche la frittura di pesce, accanto ai piatti rituali di carne: il pollo, la braciola, e, per gli sposi più ricchi, l’arrosto di vitella.
(Foto: Ragazzo napoletano, da un quadro di Joachim Sorolla)

L’OFFICINA DEI SENSI