Le ricette di Biagio: trippa al pomodoro. La filosofia della trippa e il genio di Totò…..

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Lo chef cerca di rendere più nobile “un piatto ordinario” (Artusi) con l’aiuto del vino, del peperoncino e del pecorino grattugiato. Al poco nobile significato metaforico della parola “trippa” Scarpetta e Totò hanno dedicato scene immortali, ma Napoli ha ingentilito anche la trippa vera, grazie all’arte di Sgruttendio e di Marotta.

 

Ingredienti: gr. 400 di trippa già pulita e bollita; gr. 400 di pomodori tagliati in pezzi; olio, 1 cipolla piccola, 1 carota, 1 gambo di sedano, uno spicchio d’aglio, 1 bicchiere di vino rosso, peperoncino, sale, pecorino grattugiato. In una casseruola, in 5 cucchiai d’olio, fate rosolare un trito di sedano, aglio, cipolla e carota e, dopo aver eliminato l’aglio, calate la trippa e fate cuocere per una decina di minuti, rimestando di tanto in tanto. Asciugata l’acqua, versate un bicchiere di vino, lasciate “sfumare”, aggiungete il peperoncino, i pezzi di pomodoro, due bicchieri d’acqua e portate ad ebollizione. A questo punto, abbassate la fiamma e fate cuocere per una mezzora, con la casseruola solo parzialmente coperta. Quando la cottura sarà completa, cospargete la trippa di pecorino e servitela calda (www.l’hofattoio).

 

Pochi alimenti hanno la carica metaforica della trippa, che per la sua “origine”, indica in ogni regione italiana il dominio del ventre, la tirannia del campare ad ogni costo, la cultura dell’egoismo primordiale, “a me interessa che sia piena solo la pancia mia”. E il grande Totò, candidatosi nel film “Gli Onorevoli” con il Partito Nazionale per la Restaurazione, scelse per il suo personaggio il nome di “Antonio La Trippa”. E la cosa grande è che uno che si chiama Antonio La Trippa accusa (vedi immagine in appendice) i suoi compagni di lista e i capi del partito di aver progettato di servirsi dei suoi voti per entrare in Parlamento e potersi vendere al migliore offerente. “Vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio”. Questo motto di propaganda, la scena di “Miseria e Nobiltà” in cui Totò mangia spaghetti in piedi sulla tavola e ne infila “parecchie forchettate” nella tasca, e la figura dell’on. Cocchetelli nel “Turco Napoletano” sono straordinari sigilli che Scarpetta e Totò hanno impresso sul costume politico locale e nazionale. I Napoletani hanno creato un detto, “T’a faje cu ll’ove ‘a trippa”, riferito a quelle persone che si sono cacciate in una situazione difficile e che cercano in ogni modo di aggiustarla, di renderla meno dannosa: così, chi è costretto a mangiare trippa, che Artusi giudicava un piatto  poco adatto allo “stomaco debole”, cerca di migliorare aspetto, sapori e profumi, aggiungendo le uova. Ma Napoli ha cercato anche di ingentilire l’immagine della trippa. A metà del ‘600 Filippo Sgruttendio dedicò un’ode a una bella “trippaiola” che faceva la “mariola”, la ladra, perché vendendo trippa “rubava coratella”, il cuore dei clienti. E nell’ “Oro di Napoli” Giuseppe Marotta scrive che la trippa nella città di Partenope non è alimento di soli “spiantati”, poiché “nei mesi caldi, nel tardo pomeriggio, perfino le strade principali accolgono bottegucce portatili di trippa bollita…” e anche “ i signori si fermano a queste bottegucce e ne acquistano una fetta, spruzzata di sale e di limone: una coccarda, un nastrino che dura tre passi, un cotillon dell’appetito, un capriccio. Quante volte gustai così, quasi all’alba, una buccola della trippa, più tumida e fresca, sotto un quarto di luna che aveva lo stesso lontano e arguto sapore”. I tesori della letteratura napoletana….