“La figlia maschio”, lo splendido romanzo “cubista” di Patrizia Rinaldi.

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I quattro protagonisti raccontano le loro esperienze variando senza sosta punti di vista e prospettive, e appropriandosi ciascuno anche il modo di vedere degli altri tre. L’intera storia si scompone, continuamente, in fasci di frammenti densi di significato: Patrizia Rinaldi, con una raffinata operazione di montaggio, li sistema ogni volta in un ordine nuovo e complesso, e ogni volta precario. Da qui la “struttura” cubista dello splendido romanzo.

 

A prima vista, pare un romanzo verista. Marino, un imprenditore senza scrupoli, torna dalla Cina con il bottino di una ragazza, Na, che ha acceso in lui un sentimento simile all’amore: la vicenda e le sue conseguenze vengono raccontate, dal loro punto di vista, oltre che dall’imprenditore, da sua moglie Felicita, da Sergio amico e dipendente di Marino, da Anna, che è la moglie di Sergio, e infine da Na. A prima vista, nella storia raccontata da Patrizia Rinaldi pare che ogni esperienza vada avanti per tornare al punto di partenza. Sotto questo aspetto “La figlia maschio” è un romanzo “napoletano”, e va a collocarsi nella grande tradizione delle storie “circolari” scritte da Francesco Mastriani, dalla Serao, da Domenico Rea, ma aggiunge qualcosa di nuovo, un principio non a caso formulato dalla ragazza cinese: “…il caos e il caso partenopei non hanno a cuore l’appartenenza, la deridono e allo stesso tempo la allettano con un suono di bellezza scomposta e eccessiva”. La scomposizione di questa bellezza eccessiva è una delle chiavi dell’opera.

Ogni personaggio racconta la sua interpretazione dei fatti variando senza sosta le prospettive temporali e i punti di vista spaziali, e appropriandosi spesso i modi di vedere e di sentire degli altri tre: da qui un caos ordinato come un quadro “cubista” di Fernand Léger e di Pablo Picasso, da qui una ininterrotta scomposizione della vicenda in frammenti densi di significato che la Rinaldi poi sistema, ogni volta, con un raffinato montaggio, in un ordine che è, ogni volta, precario.

L’intreccio spasmodico dei punti di vista lo sperimentò Julio Cortàzar in un racconto lungo a cui diede il titolo “Divertimento”, per chiarire fin dalla prima parola che nel suo esperimento c’era una intenzione ludica. La Rinaldi invece fa in modo che nei passaggi fondamentali del romanzo l’amarezza conferisca all’ironia le note di un sarcasmo lieve, elegante. E così la trappola organizzata da Anna e da Na per “mandare in galera Marino e per guadagnarci” è un “imbuto”, alla cui costruzione contribuisce l’imprenditore stesso: egli farà la fine di un pollo, e a Na vengono in mente “i polli del mercato di Wangfujing”. Il sarcasmo nasce dalla corrispondenza con l’inizio del racconto di Marino, che è anche l’incipit dell’opera: “Quando vedo i polli appesi ai ganci di macelleria, ti penso.”.In questo passo d’apertura l’imprenditore rivela la natura del suo rapporto con il colore rosso: lo eccitavano perfino le unghie dei piedi delle donne, le unghie “dipinte male, con pezzi di rosso scrostato”: “mi facevano immaginare che pure dentro un letto o sopra il cofano di una macchina o dentro un riparo di frasche le proprietarie avrebbero avuto gesti selvatici e osceni, adatti al sesso che mi piaceva.”.

Il passo ci spiega concretamente in che cosa consiste quella variazione incalzante dei punti di vista di cui prima si parlava, e ci dà la misura dell’arte della scrittrice che àncora la sequenza di cose, di luoghi e di modi- le unghie, il letto, il cofano dell’auto, il riparo di frasche- alla nitida evidenza di un’immagine cromatica, il colore rosso. La potenza “visiva” della scrittura di Patrizia Rinaldi è straordinaria. Il primo incontro tra Na e Marino è segnato dalla corsa. Na fugge e Marino la insegue: lui che è stato sempre inseguito dalle donne, “mi inseguivano e sbagliavano, perché quando mai un uomo come me poteva essere inseguito e conservare la voglia”. Marino  raggiunge Na, l’afferra, e la descrizione della Rinaldi diventa una scena rallentata, composta di cinque fotogrammi: “Raggiunsi la tua schiena e la spinsi. Cademmo, ti feci girare sul dorso. Ti fermai le braccia.”.

Poi c’è il primo “incontro” tra i due. La mano di Marino “scivolava troppo rapida” sulla pelle di Na che “aveva la consistenza e il profumo della cipria”: e subito segue l’immagine che rovescia la prospettiva e ne dilata i confini: “Niente mi salvava dalla fuga veloce delle tue parti da me, lo avevi fatto apposta. Come accidenti facevi a scappare stando ferma lo sai solo tu.”. Questa è geniale sapienza narrativa. Questa donna che scappa stando ferma è una donna “cubista”, e di una donna di Lèger sono i piedi della ragazza cinese, “grandi, malfatti, con la pianta larga”. Però stanno saldi nello spazio, per bilanciare il complicato rapporto di Na con il tempo: per Na gli orologi sono inutili, non le servono le misure del tempo che la civiltà dell’Occidente segna dovunque, sui telefoni, sui frullatori, sui forni: lei ha imparato “a riconoscere il tempo e il suo passaggio nella campagna cinese”. Lei ha imparato a leggere e a rispettare il paesaggio. A Marino, invece, “piaceva camminare”, “mi piaceva di più se ero seguito da passi rassegnati. E’ un esercizio educativo ricordare al paesaggio che sei tu a decidere direzione e velocità.”. Marino è destinato alla sconfitta: ma nessuno degli altri tre è vincitore. La scomposizione dei punti di vista non è solo una tecnica narrativa, è il segno della disgregazione della “persona”, che Patrizia Rinaldi “rappresenta”, nei momenti cruciali, con il raffinato ritmo “inverso” dei periodi: “Sbrigasti un orgasmo/ quando ti tornò la noia/ per me, per te e pure per la coroncina/ che era scivolata dai capelli lisci/ durante gli spasimi menzogneri”. Rileggerò questo romanzo. Nasconde certamente altre pietre preziose, soprattutto nel lessico e nel corredo delle immagini. I suoi “disegni” mi ricordano la pittura di Armando Di Stefano.