UNA VOLTA MESSI AL MONDO, I FIGLI VANNO EDUCATI. SCONTATO? MICA É DETTO!

Ancora una volta il caso proposto evidenzia l”importanza educativa dei genitori nei riguardi dei figli e le conseguenze a cui essi vanno incontro nel caso che vengano meno a tale obbligo.

Una pietra scagliata contro un avversario per sfogare un presunto torto subito, durante una partita di calcio tra ragazzi, può rivelare l’inadeguata educazione dei genitori e ritenerli, quindi responsabili per il fatto accaduto e per il risarcimento del danno

Il caso
Il piccolo B., durante una partita di calcio, aveva compiuto un fallo di gioco ai danni di S. e, dopo aver ricevuto una spallata da questo, scagliò una pietra che andò a colpire il fratello di S., che identifichiamo con l’inziale R., estraneo al gioco.
Il Tribunale di Lecce condannò il B. e i suoi genitori al risarcimento dei danni in favore di S. e della sua famiglia, per le lesioni cagionate dal figlio minore dei primi al figlio minore di questi ultimi.
Il caso dopo l’appello fu sottoposto al giudizio della Suprema Corte.

Motivi della decisione
Deve essere innanzitutto ribadito il principio secondo cui l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso (art. 2048 c.c.), può essere desunta dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c. (tra le varie, cfr. Cass. 20 ottobre 2005, n. 20322).

A questo principio la sentenza impugnata si è adeguata, deducendo dalla stessa modalità del fatto l’inadeguatezza dell’educazione impartita dai genitori al giovane aggressore e condannando i suoi genitori al risarcimento dei danni subiti da R. (Suprema Corte di Cassazione, Sezione III Civile. Sentenza 15 luglio 2008, n. 19450).
Non c’è alcun dubbio che la Suprema Corte nel condannare i genitori per il danno causato dal loro figlio minore ha ritenuto che essi non hanno adempiuto l’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo al figlio l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari.

La reazione dal minore e quindi l’illecito da lui commesso consiste nel mancato rispetto delle regole di comportamento vigenti nel contesto sociale che manifestano oggettive carenze dell’attività educativa dei genitori.
La negligenza, l’indisciplina e l’irresponsabilità nella condotta del piccolo ha messo a rischio l’incolumità altrui, e costituiscono per l’appunto manifestazione di assenza di principini educativi che i genitori sono tenuti ad impartire ai propri figli.

LA RUBRICA

LA RIVOLUZIONE INDOLORE (MA NON INODORE…

In queste righe presentiamo gli elementi di una vera e propria rivoluzione indolore: la storia sociale dell”igiene e degli odori. Di Carmine CimminoA partire dal 1820 i farmacisti francesi crearono la cosmetica borghese e costruirono il sistema su cinque tipi di prodotto: pomate e creme nutrienti e protettive; acque odorose alle essenze vegetali; i dentifrici in pasta, in polvere e liquidi; lozioni e brillantine; le ciprie. La Provenza e la Borgogna divennero il centro di questa rivoluzione che investiva la storia sociale dell’igiene e degli odori e modificava radicalmente i modelli del decoro, del gusto e della bellezza femminile e maschile.

Gli Inglesi e gli Austriaci compresero immediatamente l’importanza del fenomeno, e in breve la loro “industria“ farmaceutica fu in grado di sottrarre al controllo francese una buona parte del mercato europeo. Anche l’Italia del Nord si mosse per tempo: del resto, Venezia, Bologna e Genova avevano controllato, per tutto il Settecento, la produzione della cipria e delle creme per la pelle. Nel 1822 una farmacia di Piacenza fabbricò “una pomata per ammorbidire i labbri“ mescolando olio di mandorle dolci, cera bianca purissima, radice di ancusa e olio essenziale profumato. Fiacca fu la risposta della debole borghesia di Napoli ai nuovi orientamenti della moda.

Nel 1840 i fratelli Migliorato, che tenevano negozio nel vicolo Marconiglio al Reclusorio, importavano dalla Lombardia e da Trieste dentifrici e creme; qualche anno dopo Giovanni Variale, il fioraio del vicolo Freddo a Chiaia, distillava in proprio profumi di rose. Le grandi dame dell’aristocrazia si rifornivano di cerusse e di saponi a Nizza e a Marsiglia, attraverso importatori genovesi; ma non disdegnavano gli austeri saponi prodotti dalle officine di conventi e di monasteri. Bisogna dire che le donne napoletane usarono sempre i belletti con lodevole sobrietà, anche quando, alla fine del secolo XIX, alcuni grandi sarti, e primo tra tutti Vincenzo Manna, che aveva l’atelier a Chiaia, lanciarono la moda francese che combinava il “trucco“ con l’abito.

Le signore usarono in abbondanza solo l’ acqua di Colonia e l’acqua di Sains-Pareille, protezioni indispensabili ai loro nasi contro i miasmi che venivano su dalle strade della città, dalla folla che riempiva ogni angolo di strada, dai fetori che violavano anche l’aria della campagna e ne soffocavano gli odori piacevoli. Nell’autunno del 1845 una signorina inglese, Elisabeth Russell, partì da Napoli in carrozza, per recarsi a Montevergine: ma nei pressi di Cimitile ordinò al cocchiere prima di fermarsi, e poi di tornare indietro, poiché non riusciva a sopportare il lezzo della canapa messa nell’acqua a macerare. L’acqua di Sains-Pareille, meno costosa dell’acqua di Colonia, veniva distillata dai fiori di lavanda, dal cedro e dal rosmarino, dal bergamotto e dalle radici dell’ireos fiorentino.

Le farmacie napoletane ancora agli inizi del sec. XX vendevano la polvere dentifricia bianca, fatta di carbonato di magnesio, di polvere di carbonato di calcio e di essenza di menta, e la polvere dentifricia nera, a base di foglie di salvia, di bergamotto e di olio di cinnamomo. Nel negozio dei fratelli Cannavale a Toledo dame e cavalieri trovavano dentifrici tedeschi e inglesi, la cipria prodotta a Venezia da Giovanni Arrigo e da Agostino Barbaro, e soprattutto una marca di saponi profumati, l’ Odalisca, la cui rèclame venne astutamente affidata alle ballerine e alle cantanti. L’Ottocento odiò la calvizie: la pubblicità dei rimedi contro la caduta dei capelli occuparono le pagine di quotidiani e di riviste illustrate.

L’acqua di china, preparata con tintura di china, acido salicilico e gallico, tintura di benzoino, alcool puro ed essenza di bergamotto, di lavanda e di garofano, veniva consigliata per la difesa dei capelli minacciati dalla forfora seborroica. Nel 1870 la Atkinson immise sul mercato il grasso d’orso, presentandolo come miracoloso per la crescita dei capelli. Avevano contribuito a crearne la leggenda i coloni americani, i quali raccontavano ai giornalisti dell’Ovest che proprio grazie al grasso d’orso i capelli degli Indiani erano perennemente lunghi e neri. E infatti anche nei film non si è mai visto un indiano calvo. Non dobbiamo meravigliarci. Anche gli almanacchi popolari stampati a Firenze a metà dell’Ottocento consigliavano per la difesa dei capelli cospicue unzioni di grasso di porco, aromatizzato con essenze di bergamotto e di fiori campestre: avvertivano, saggiamente, che il grasso di porco si irrancidisce rapidamente, e allora diventa pestilenziale.

Ma fu la pomata al midollo di bue a conquistarsi il favore di chi di sentiva minacciato dalla debolezza dei capelli. Non era facile prepararla, questa prodigiosa pomata, a voler seguire le indicazioni dell’antica farmacia Corvi di Piacenza:

“fondi gr.500 di midollo di bue depurato con gr.200 di olio di ricino, gr.100 di burro di cacao e altrettanti spermaceti e lanolina filante; passa per tela e lascia raffreddare. Polverizza poi in mortaio gr. 25 di acido borico, acido salicilico , acido gallico e magistero di zolfo, passa a setaccio fine e mescola in capsula con parte della pomata: ottenuto un tutto omogeneo aggiungi la restante pomata e agita, dopo aver aggiunto gr.25 di estratto di china, gr.6 di essenza di bergamotto e di eliotropia, gr.1 di cristalli di muschio artificiale”.

Questa pomata costava, alla fine dell’Ottocento, lire 3,50 al Kg. A Napoli la farmacia “ H.Roberts” di via Vittorio Emanuele, e il negozio “ C.e M. Fava” di via Chiaia avevano l’esclusiva di un prodotto inglese, il “Bay Rum”, in due versioni, una per i capelli secchi e asciutti, l’altra per i capelli umidi e grassi. La ditta Lancellotti di piazza Municipio fu la prima a importare il rasoio “di sicurezza “ Gillette “a lama curva“. Ai cultori dei baffi e della barba folta e lunga il negozio “Lombardi e Contardi“ di via Roma consigliava la ricinina, “prodotto razionale e scientifico, da non confondere con il segretume degli imbroglioni”.
(Foto: immagine tratta dal libro di A.Corvi: Officina farmaceutica)

L’OFFICINA DEI SENSI

“AMICI MIEI: COME TUTTO EBBE INIZIO”. ERA DAVVERO NECESSARIO SAPERLO?

È uscito nelle sale il nuovo film di Parenti che si ispira alla storica saga di Amici miei. E scoppia il dibattito tra chi si indigna per il modo in cui è stato usato il nome di un classico del nostro cinema e chi si mostra più flessibile:

Una premessa è d’obbligo: chi scrive non ha visto e non ha intenzione di andare a vedere il film di Parenti nelle sale dal 16 marzo, prequel di una saga che – cominciata nel 1975 con Amici miei diretto da Monicelli – risulta un punto di svolta dell’ultimo periodo della commedia all’italiana, genere del quale rappresenta uno degli episodi più maturi. E lo è nella misura in cui è riuscito a penetrare nel costume italiano, introducendo espressioni e comportamenti che occupano da allora un posto speciale nell’immaginario collettivo.

Questo è uno di quei casi nei quali avere dei preconcetti può rivelarsi cosa buona e giusta. I motivi del rifiuto sono essenzialmente due: non si può prendere in prestito, a cuor leggero, il nome di un cult e, soprattutto, non si può stravolgerne il senso, maltrattarlo e ridicolizzarlo.
I miti vanno ascoltati, osservati. Sono eterni perché non smettono mai di avere qualcosa da dire. Assecondare chi li tira giù dall’Olimpo per farne un frullato e “attualizzarli” dovrebbe essere considerato, nella maggior parte dei casi, un crimine contro l’umanità.
D’altronde le categorie dei prequel/sequel e dei remake, al cinema, sono tradizionalmente dei campi minati.

Il remake è un’operazione sempre complessa. Occorre rileggere il film di riferimento con personalità, affinché l’operazione possa avere un senso, ma senza stravolgere l’originale. Si tratta di un equilibrio difficile da raggiungere; un buon remake dovrebbe conservare il significato e la struttura del film di partenza, ma riproporlo con un linguaggio diverso che identifichi il regista. Molti autori, anche importanti, sono inciampati nella trappola del remake: da Solaris di Soderbergh (riproposizione riuscita a metà del capolavoro della fantascienza del russo Tarkovskij) a Ladykillers dei Coen (dal classico La signora omicidi), la lista di remake celebri è lunghissima e anche nei casi più riusciti raramente il rifacimento è risultato superiore all’originale.

Ancora più complicata, se possibile, la costruzione di un buon prequel/sequel (un film che analizza gli antefatti o gli eventi successivi rispetto ad una pellicola realizzata in precedenza). Prendere un’opera e analizzare quanto è accaduto “prima” o “dopo”, da un lato offre al regista una maggiore libertà di movimento ma dall’altro lo espone al pericolo di stravolgere il senso dell’originale, facendo imbestialire fan e critici tendenzialmente attaccati ai loro capolavori come a dei feticci intoccabili. Anche in questo caso la lista sarebbe infinita e conterrebbe opere più o meno riuscite. Famoso, in negativo, 2010 l’anno del contatto, sequel di 2001 Odissea nello spazio: un film capace di annientare la filosofia e il mistero del capolavoro di Kubrick.

In queste operazioni il clamore è assicurato. Basti pensare al caos che si è scatenato in rete tra gli appassionati, con un misto di attesa e paura, alla notizia di un possibile sequel del cult della fantascienza Blade Runner. L’unico dato certo è che, economicamente, questi film in genere fanno tornare i conti: il nome dell’originale attira le folle.
Questo Amici miei: come tutto ebbe inizio conferma il successo dell’investimento economico: 2° al box office, senza fare sfracelli, ma con buoni risultati.
Purtroppo, c’è anche un contenuto con il quale confrontarsi. L’originale del 1975 era un ritratto amaro di un gruppo di amici cinquantenni, attaccati alla giovinezza perduta e per questo irrimediabilmente patetici.

Un film epocale, che introduceva nella commedia classica italiana un linguaggio più malinconico, sofisticato (nonostante l’apparenza scherzosa), sullo sfondo di un’Italia immortalata in un momento di forti criticità economiche e sociali.
Quanto di tutto questo sarà riproposto nel prequel, che trasporta le vicende dei protagonisti nella Firenze del Quattrocento? È davvero possibile immaginare che il tridente delle meraviglie De Laurentiis-Parenti-De Sica, fautore di tanti Natali in giro per il mondo all’insegna di una comicità tutta tette, sederi e parolacce inserite a caso, riesca a giustificare in qualche modo l’utilizzo di quel glorioso nome? La risposta è no. E per capirlo sono sufficienti due minuti di trailer.

Questo è l’ennesimo “Natale a…”, in versione primaverile, con l’aggravante di scomodare un mito a fini commerciali o – se non vogliamo essere maliziosi – di riproporlo in modo vergognoso.
Non è fondamentalismo, mancanza di elasticità o snobismo da cinefili. È sentirsi offesi per un’operazione che prende in prestito un momento straordinario del nostro cinema per sfornare un altro cinepanettone fuori stagione e richiamare qualche curioso in più attratto dalle sirene del nome.
E non si parli di “omaggio”. Come potrebbe una comicità trita e volgare recare omaggio alla sottile e amara ironia dell’originale? Semplicemente, non può.

Perché il mito sta in alto per antonomasia, è irraggiungibile. E mai dovrebbe essere trascinato nel fango dai comuni mortali.
(Fonte foto: Rete Internet

LA RUBRICA

LA CHIESA, LA LIBIA E LA PACE

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Come si sta muovendo la Chiesa sullo scenario di guerra della regione nordafricana. Ma davvero non si poteva evitare il conflitto? Di Don Aniello Tortora

“La nostra comunità, i lavoratori cristiani, sono ancora qui e non possiamo abbandonarli. Prego e spero che tutto questo finisca prima possibile”. È quanto ha detto mons. Martinelli, vescovo di Tripoli. Nel Paese la situazione resta drammatica e si teme per l’incolumità e la sicurezza di tanti civili. Accorato è stato l’appello del Santo Padre che, nell’assicurare «commossa vicinanza», ha chiesto «a Dio che un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nordafricana».

A Tripoli i religiosi aiutano come possono tutti quelli che si rivolgono a loro, in coordinamento con le organizzazioni locali di assistenza. Sono sostenuti da volontari, ex lavoratori immigrati che si sono messi a disposizione. Padre Sandro Depretis, sacerdote trentino rientrato in Libia poco prima che iniziasse la rivolta, continua ad occuparsi delle migliaia di rifugiati, soprattutto eritrei; che non possono rientrare in patria. «Alcuni sono stati derubati delle loro poche cose – dice padre Derpretis – altri sono stati invitati ad andarsene. Ora stanno nascosti ed è ancora più difficile aiutarli. Intanto crescono le difficoltà e i rischi per gli stessi libici».

Mentre, dopo l’intervento della coalizione internazionale, proseguono combattimenti e bombardamenti, sia a Tripoli che a Bengasi, la Chiesa resta attiva e i religiosi italiani sono accanto alla popolazione locale. A Bengasi ad esempio le suore italiane sono 14 in 4 comunità e continuano a lavorare negli ospedali pubblici e nelle istituzioni per disabili dove erano impegnate e apprezzate anche prima, e dove alloggiano. Nessuna ha lasciato il suo posto, nella speranza che questi luoghi siano rispettati e quindi la loro incolumità sia salvaguardata.

La Chiesa in Tunisia ha già installato un posto di accoglienza sul confine, in collaborazione con altre chiese nazionali e in particolare con il sostegno di operatori della Chiesa in Libano che parlano arabo. Svolgono attività di informazione, cura e smistamento dei casi più vulnerabili, oltre che di accoglienza fraterna, nella consapevolezza che si tratta di persone traumatizzate, non solo bisognose di viveri e sicurezza. Sul confine egiziano, un altro staff di volontari aiuta anche nella distribuzione di viveri. Inoltre nel Niger volontari cristiani si sono attivati, per facilitare il rientro a oltre tremila immigrati che sono riusciti ad attraversare il deserto del Sahara. Permangono infine preoccupanti interrogativi sulla sorte di molti libici, soprattutto quelli che fuggiranno da Bengasi.

Siamo in guerra. I governi decidono di fare la guerra, ma non bisogna dirlo. In Libia bombe, morti, feriti. Tantissima paura e gente tra due fuochi. Quello del dittatore e quello della coalizione dei “volenterosi”. E poco interessa a tutti del Barhein e dello Yemen, come mai ci è importato del Darfur e del Congo. Perché esistono popoli di serie A e quelli di serie B! Alcune nazioni ci “stanno a cuore” di più, forse perché “emanano odore” di gas e di petrolio. Ma davvero non si poteva fare altro? Non eravamo noi italiani i più amici del dittatore? Non avevamo strumenti e parola e politica e diplomazia da adoperare per ridurre a ragione “l’esaltato”?

Prima si spara e poi, forse, si discute. Giustamente il vescovo Giovanni Giudici (presidente di Pax Christi) ha affermato che “le operazioni contro la Libia costituiscono un’uscita contro la razionalità. Mentre parlano solo le armi si resta senza parole, ammutoliti, sconcertati. Gheddafi era già in guerra con la sua gente quando era nostro alleato e amico. In questa vicenda si tocca con mano le fretta della guerra e l’assenza della politica”.

Nessuna guerra ha risolto mai nessun problema. Li moltiplica e li aggrava soltanto. È sempre opportuno ricordare, anche ai cattolici, che non esistono “guerre giuste”. Si vede che la storia non insegna proprio niente a noi uomini e donne del terzo millennio. Utilissimo e salutare, in questa circostanza, rispolverare il vecchio adagio latino: “Historia magistra vitae”.
(Fonte foto: Rete Internet)

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L’ERGASTOLO “BIANCO” DEI MANICOMI CRIMINALI

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Nel nostro Paese gli ospedali psichiatrici sono sei, nati per sostituire i manicomi criminali, ma riuscendo di fatto solo a trasformarli in veri e propri lager. Condizioni di vita disumane. Di Simona Carandente

Toccare con mano la sofferenza umana, profonda, concreta non può lasciare indifferenti. Vi sono volte in cui basta guardare un’immagine, un filmato, un volto per rimanere senza parole, sviluppando uno stato d’animo che è un misto tra un’amata tristezza ed un profondo, spesso ingestibile, senso di impotenza.

Solo con un tale groviglio di emozioni si può assistere alla visione di un filmato, quale quello diffuso sulle reti nazionali qualche giorno fa, sulle condizioni degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) di tutta Italia, legati tra loro da un filo sottile, quello della malattia mentale, che fa di loro dei "diversi" rispetto alla società civile, indegni di vivere una vita normale, finanche di ricevere un abbraccio.

Il video lascia poco spazio all’immaginazione: le strutture visitate appaiono disordinate e fatiscenti; ovunque regnano lo squallore, la scarsa igiene, l’estrema solitudine. Nel giro di pochi istanti, vengono ripresi un letto di contenzione, forato ed arrugginito per consentire le funzioni fisiologiche, internati che cercano umana pietà, personaggi lucidi ed in grado di dialogare con l’operatore, finiti in Opg per chissà quale reato e destinati a non uscirne mai più.

Grazie alla denuncia dell’apposita commissione di inchiesta del Senato, finalizzata a porre in risalto le falle del sistema sanitario nazionale, il problema delle condizioni degli ospedali psichiatrici torna alla ribalta: allo stato, in Italia, le strutture sono sei, destinate originariamente a sostituire i manicomi criminali, riuscendo di fatto solo a trasformarli in veri e propri lager.
Secondo i dati della Commissione, su circa 400 internati passibili di dimissione, solo 65 si sono spalancate le porte della libertà. Il futuro dei restanti è amaro e incerto: ritenuti ancora socialmente pericolosi, in mancanza di una famiglia che li accolga o di qualcuno che li prenda in cura, la tanto agognata libertà rischia di rimanere solo una chimera.

Del resto, chi si assume la responsabilità di rimetterli in libertà, assumendo che la pericolosità sociale è ridotta ai minimi termini e mettendolo nero su bianco? L’unica certezza però, allo stato, sono le condizioni di vita di questi "ergastolani bianchi": condizioni disumane, di profondo degrado, che non possono né devono continuare ad essere ignorate, nel pieno rispetto dei diritti umani e costituzionali, per i quali la pena non deve essere contraria al senso di umanità e tendere, sempre e comunque, alla rieducazione del condannato. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

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A NAPOLI IN TROPPI NON METTONO INSIEME IL PRANZO CON LA CENA

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Nella città una famiglia su quattro vive al di sotto della soglia di povertà. Per il cardinale Sepe “non ci sono più neppure pane e speranza”. Ma la politica non se ne rende conto. Di Amato Lamberti

Le statistiche parlano sempre chiaro e spesso non hanno neppure bisogno di interpretazioni. Sono anni, che le statistiche, appunto, ci avvertono che in Italia sono in aumento, al Sud come al Nord, le famiglie in condizioni di povertà. E non si tratta di nuove povertà, quelle legate all’aumento dei consumi e all’ampliarsi delle aspettative. Non si tratta di persone che non possono andare in vacanza, che non possono fare la settimana bianca, che non possono comprarsi un suv, che non possono andare a cinema e a ristorante ogni settimana, che non possono acquistare il motorino al figlio.

Si tratta di persone che hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, che non possono acquistare un nuovo paio di scarpe o un cappotto per ripararsi dal freddo. Molti sono anziani che con l’andata in pensione hanno dovuto rivedere completamente il loro stile di vita. L’altro dato che i ha colpito è quello che cresce il numero di giovani disoccupati che il lavoro non lo cercano neppure più. Le statistiche li chiamano "scoraggiati", ma sono quelli che magari dopo aver tentato tutte le strade possibili hanno perso ogni speranza e si sono messi in attesa magari di un colpo di fortuna. A Napoli, come era facile prevedere, almeno per chi ci vive in questa città, le statistiche registrano la situazione peggiore sia per quanto riguarda la povertà, che per quanto attiene alla disoccupazione e allo scoraggiamento di giovani e meno giovani.

Il cardinale Sepe, con quell’acume che gli va riconosciuto, ha messo non molto tempo addietro il dito nelle piaghe di Napoli e con una sola frase di grande effetto, "a Napoli non ci sono più neppure pane e speranza", ha fotografato una situazione drammatica di cui la politica e gli amministratori sembra che non si rendano neppure conto. Non c’è più pane: a Napoli una famiglia su quattro vive al di sotto della soglia di povertà; una famiglia su quattro galleggia appena al di sopra dell’abisso della povertà. Vale a dire che metà della popolazione vive, tutti i giorni, in una condizione drammatica di penuria e di assenza di prospettive. Non c’è più speranza: i giovani a Napoli terminano gli studi e se ne vanno a cercare lavoro fuori, al Nord, all’estero, in qualsiasi posto che non sia Napoli e il Mezzogiorno.

Non cercano neppure lavoro a Napoli; in questa città non vogliono restare un giorno in più del necessario. Perché non hanno più speranza; perché rifiutano i percorsi della raccomandazione, del lavoro nero, dello sfruttamento pieno solo di promesse. A Napoli anche negli studi professionali l’offerta di lavoro è sempre in nero, sfruttati e sottopagati. Nelle imprese artigianali il lavoro è sempre in nero e senza nemmeno le più elementari garanzie assicurative. Nel commercio, che è il comparto produttivo che regge l’economia della città, il nero è la regola. In pratica un pezzo di città ingrassa, l’altra tira la cinghia e riesce appena a sopravvivere. In una situazione di questo tipo non ci si può meravigliare della diffusione di comportamenti di scoraggiamento rispetto alla ricerca del lavoro.

Il risultato è che sono molti i giovani che si rintanano nelle opportunità che la famiglia riesce comunque ad assicurare e finiscono per avere come riferimento il gruppo dei coetanei egualmente scoraggiati o che si arrangiano nelle pizzerie, nei pub, nei ristoranti. Ma in una situazione dove il lavoro stabile diventa irraggiungibile non ci si può meravigliare, come qualcuno pure continua a fare con la spocchia dell’intellettuale, della diffusione di comportamenti illegali e di fenomeni di degrado civile e morale. Quando si è alla fame e alla disperazione valgono solo le esigenze della sopravvivenza e le leggi della giungla. Meraviglia, anzi, che a Napoli, con una tale condizione di miseria economica, culturale e civile, i tassi di criminalità siano più bassi di quelli di città ricche, come Milano o Bruxelles.

C’è un tessuto morale e familiare che nonostante tutto ancora tiene ma che se non viene sostenuto ed aiutato rischia di sfaldarsi e di decomporsi liberando rabbia e sentimenti di rivalsa. All’allarme del cardinale spetta alle istituzioni cittadine di Napoli rispondere, senza ancora una volta minimizzare, ma prendendo finalmente in carico il dolore della città dei deboli, degli emarginati, dei senza lavoro: per dargli se non il pane, almeno la speranza. All’allarme delle statistiche nazionali spetta al governo rispondere, non perché non possono restare insensibili al grido di dolore di tante famiglie in povertà e di tanti giovani in difficoltà economiche e psicologiche, ma perché, molto più cinicamente, in queste condizioni l’economia del Paese entra in crisi, il motore produzione-consumo si inceppa, la recessione si affaccia prepotentemente e diventa difficile fermarla.

La povertà è un problema di tutti, la disoccupazione dei giovani è un problema di tutti.
Una società povera e scoraggiata è una società nella quale si spengono le energie vitali e si avvia un processo di decadimento. I nostri politici, pur nella loro ignoranza, dovrebbero sempre tener d’occhio le statistiche imparare magari a leggerle.
(Foto: “La Pendolare” di Valentina Vetturi)

GLI APPROFONDIMENTI

ARRIVATI AI 150 ANNI, RICORDIAMO COME FURONO I 100 ANNI DELL’ITALIA UNITA

1961: i cento anni dell”Italia unita e le calze nere delle Kessler. 2011: I valori del Risorgimento difesi dal Presidente Napolitano. Il fascino dell”Inno di Mameli. Di Carmine Cimmino

Per il Centenario dell’Unità d’Italia non si fece tanto fracasso: eppure, nella graduatoria delle ricorrenze, un centenario vale più di un centenario e mezzo. La festa si concentrò tutta a Torino, sotto la sigla di Italia 61. Il Presidente del Consiglio era Amintore Fanfani, la DC teneva saldamente in pugno le cose italiane, e il PCI, impegnato a liberarsi dallo stalinismo, faceva un’opposizione feroce eppur costruttiva, diciamo così. Il 24 settembre Aldo Capitini guidò la prima marcia della pace da Perugia ad Assisi: i manifestanti gridarono, tra gli altri slogan, anche questo: Se la patria chiama, lasciala chiamare.

Gli intellettuali di sinistra furono poco teneri con i Savoia; Cavour si salvò, perché era Cavour, e Garibaldi, perché era Garibaldi e mangiapreti. Molti comunisti di allora erano ancora mangiapreti. Anche molti democristiani, in fondo, frequentavano, nelle chiese, soprattutto le sacrestie. Agli inizi degli anni ’50 gli alunni delle elementari portavano colletti ornati di nastri tricolori e ogni mattina, all’inizio delle lezioni, intonavano Fratelli d’Italia. Ma sul finire del decennio il rito e i nastri vennero cancellati. Pochi anni dopo, la D.C. e la Sinistra, per completare lo smantellamento della mitologia dell’identità nazionale, bandirono il latino dalla scuola media, spiegando, comicamente, che l’insegnamento del latino era classista e reazionario. Nel 1961 il ministro Falchi, cattolico praticante, dichiarò che se fosse dipeso da lui, il film Rocco e i suoi fratelli non sarebbe mai arrivato nelle sale cinematografiche. Era troppo scandaloso.

Luchino Visconti gli rispose con una lettera aperta: le sue parole, signor ministro, “mi confermano nella già in me radicata convinzione che ogni briciolo di libertà di cui si riesce a godere nel nostro Paese non lo si deve ai governanti e tanto meno ai governanti della sua mentalità (che francamente ci si chiede come mai si trovino a occupare posti di così grande responsabilità), ma alla vigilanza, alla resistenza e alla lotta dell’opposizione e dell’opinione pubblica democratica”.

Pare scritto oggi. La televisione dedicò ampi spazi alle manifestazioni per il centenario che vennero organizzate nei capoluoghi di provincia. In una famosa trasmissione in diretta dall’Auditorium di Torino il Va’ pensiero venne consacrato inno nazionale, diciamo così, collaterale – come esistono i patroni e i compatroni- e Nando Gazzolo, Ilaria Occhini, Renzo Ricci e Elena Zareschi lessero versi e prose di poeti, di intellettuali e di politici che avevano fatto l’Italia. Proprio quell’anno la televisione contribuì – fu un contributo sostanzioso- a “ fare “ gli Italiani: con uno spettacolo, Studio Uno, che entrò nel mito grazie alla regia di Antonello Falqui e all’arte di Mina, di Milly, di Luciano Salce, di Nicola Arigliano, di Paolo Panelli. E grazie al genio comico di Walter Chiari. E al dadaumpa delle gemelle Kessler. E alle loro calze. Le rivoluzionarie calze delle Kessler.

Infatti, dopo un lungo braccio di ferro tra la direzione artistica dello spettacolo, da una parte, e dall’altra i cattolici praticanti e non praticanti che amministravano la Rai, bombardati quotidianamente dalle proteste di parroci abati e vescovi, le Kessler furono autorizzate a esibirsi fasciando le lunghe e tornite gambe non con le consentite calze bianche ( il bianco, come si sa, è un antidoto ai peccaminosi pruriti del sesso), ma con calze nere di un nero d’inferno. E dopo le calze nere arrivarono anche le calze a rete. Il 4 novembre del ‘61 si inaugurò il secondo canale della TV. Proprio in quell’anno il calcio confermò di essere sempre la più tenace delle colle per gli sparsi lacerti dell’identità nazionale.

Rinforzata dagli oriundi Sivori, Angelillo, Loajcono e Altafini, la Nazionale si qualificò per i Mondiali del Cile e travolse in amichevole l’Argentina dell’immenso Sanfilippo. Nel 1961 Fiorentina e Roma furono le prime squadre italiane a vincere un torneo europeo. La Fiorentina aprì il libro d’oro della Coppa delle Coppe battendo i Rangers sia a Glasgow che a Firenze: era la Fiorentina di Albertosi, di Da Costa e di Hamrin. In definitiva, furono festeggiamenti sobri, quelli per il centenario: in sordina e con la mordacchia. La Sinistra soffriva ancora di orticaria da nazionalismo, e la DC non aveva alcun interesse a irritare, per un compleanno, la Curia romana.

Dopo cinquanta anni, è toccato a un Presidente della Repubblica che è stato autorevolissimo rappresentante della cultura laica e marxista, difendere i valori del Risorgimento e i principi dell’identità nazionale. E il Presidente li sta difendendo con un vigore che viene dalla passione profonda e dalla ricchezza delle idee. La fortuna ha voluto che l’Italia avesse un Presidente di tale tempra e di così elevato carisma in queste ore drammatiche, in cui francesi e inglesi, scatenando l’attacco aereo sulla Libia, fanno a pezzi la nostra politica mediterranea e rivelano, chiaramente e, credo, volutamente, quanto sia appannato il prestigio internazionale del nostro Paese.

Si combatte a pochi chilometri delle nostre coste, bombardieri e caccia partono da aeroporti italiani, Napoli è il centro strategico dell’attacco, Gheddafi minaccia di trasformare il Mediterraneo in un mare di fuoco: e intanto un membro del governo italiano accusa un suo collega, favorevole all’ impiego delle armi, di “parlare a vanvera“, e vota contro l’intervento militare. E non si dimette. Credo che una cosa del genere non si sia mai vista.

Non mi meraviglio, invece, che la Curia romana ricordi il ruolo che i cattolici svolsero nel Risorgimento, e che due illustri cardinali cantino l’Inno di Mameli. Tra cinquanta anni qualcuno scriverà che fu Pio IX a volere il ’59, i Mille, l’unità d’Italia, mentre Garibaldi, Cavour, Mazzini e compagni facevano combriccola con i Borbone. Il passato indossa sempre i panni che gli presta il presente. Spadolini inserì tra i padri della patria Leopardi e Foscolo, Giuseppe Bedeschi, sul Corriere della Sera, ha messo nell’elenco anche Machiavelli, ma nessuno si è ricordato di Francesco Guicciardini. Credo che in cima all’elenco meriti di stare, per sempre, Goffredo Mameli, in nome di tutti i giovani che sacrificarono la loro vita per una bandiera, per un mito, per un’idea.

Scrisse Jules Michelet, uno dei più grandi storici francesi, che l’Inno di Mameli è “un canto di fraternità. È soprattutto una canzone viva, gaia, ardente, che esprime, con un carattere singolare di ingenuità e di giovinezza, la gioia di combattere insieme, il fascino dell’amicizia nuova fra tutti i popoli d’Italia, stupefatti dalla sorte di trovarsi riuniti.“. Chi canta l’Inno di Mameli, si sente rischiarato dalla luce di quella nobile giovinezza. Chi non lo canta, sono affari suoi. Chi non lo canta, sa di non essere degno di cantarlo.
(Foto: Tempera di H. Toulouse, Jane Avril)

LA STORIA MAGRA

DIVISI SULL’UNITÁ

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Nei dialoghi dei personaggi del prof. Giovanni Ariola ritroviamo i temi politici di queste ultime settimane. Ma anche le domande fondamentali circa il rapporto tra uomo e natura.

Il prof. Carlo ha davanti i giornali appena portati da Annella, guarda i titoli ma non ha il coraggio di cominciare la lettura. Sulle prime pagine oltre le notizie delle stragi in Libia (un bagno di sangue come amano metaforizzare i mass-media), perpetrate da uomini contro altri uomini, per giunta fratelli, che si spera siano presto fermate dall’intervento deciso ma pacifico degli Istituti sovranazionali (ONU, UE, LEGA ARABA), anche le parole e le immagini di altra strage, provocata dalla natura, ossia dal sisma avvenuto in Giappone il 3 marzo scorso e dal conseguente tsunami (in giapponese “onda sul porto”), “mare mostro”, come lo ha definito un giornale (“Il Manifesto” del 4 marzo scorso).

Si riaffacciano sentimenti e pensieri già esperiti in occasione di altri eventi del genere. Si riformano nella mente drammatici interrogativi purtroppo senza risposta. Chi sarà vincitore nella lotta tra l’uomo e la natura? Quale sarà il destino dell’uomo su un pianeta che rischia di collassare da un momento all’altro? C’è qualcuno o qualcosa (ad esempio una nuova parola miracolosa, dato che quelle esistenti sono ormai inascoltate) che possa convincere tutti gli uomini ad unire i loro sforzi per salvarsi, insieme, dalla catastrofe?

A scuotere il prof. l’arrivo dei colleghi che entrano discutendo animatamente ma una volta tanto concordi sul no al nucleare, almeno fino a quando non sarà assicurata la mancanza assoluta di rischi per la salute dei cittadini. Ma verrà mai quel momento?

– È necessario – sottolinea il prof. Eligio – trovare un’energia alternativa: questa è l’unica certezza…
– Ce n’è un’altra di certezze – sbotta il prof. Piermario – è che, se continuiamo a mortificare la ricerca, non riusciremo mai a trovare una soluzione a questa urgenza e ad altre simili…
– In proposito, sono molto pessimista – osserva il prof. Fantasia – non ce la faremo e alla fine la natura avrà il sopravvento…e ci distruggerà…sapete che sono un leopardiano… “un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia…”(da G. Leopardi, “Operette morali – Dialogo della natura e di un Islandese”).

– Perché continuare – ribatte accendendosi in volto il prof. Piermario – ad evidenziare solo questo aspetto del pensiero del recanatese che, tra l’altro, è improprio definire pessimistico dato che si tratta di una analisi lucida, realistica e razionale della nostra condizione esistenziale…ma Leopardi è ben altro…

“E tu, lenta ginestra,/ – recita con aria ispirata – che di selve odorate/ queste campagne dispogliate adorni,/ anche tu presto alla crudel possanza/ soccomberai del sotterraneo foco,…E piegherai/ sotto il fascio mortal non renitente/ il tuo capo innocente:/ ma non piegato insino allora indarno/ codardamente supplicando…/ ma non eretto/ con forsennato orgoglio inver le stelle/…/ma più saggia, ma tanto/ meno inferma dell’uom, quanto le frali/ tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali.”(da G. Leopardi, “La ginestra”). Quanto coraggio, ma senza sciocca superbia, in questo guardare in faccia la verità!

– A me – interviene il prof. Eligio – sembrano più significativi in questa stessa poesia i versi che invitano gli uomini a non combattersi tra loro ma ad unirsi nella lotta comune contro la natura “matrigna” e auspica con un afflato che definirei cristiano una umanità concorde e solidale… “Nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato, e che con franca lingua,/ nulla al ver detraendo,/ confessa il mal che ci fu dato in sorte,/ e il basso stato e frale;/ quella che grande e forte/ mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire/ fraterne, ancor più gravi/ d’ogni altro danno, accresce/ alle miserie sue, /… / tutti fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune…”.

– Mai come in questo momento – osserva il prof. Carlo – le parole del poeta fanno bene al cuore e alla mente…Permettete che vi legga questi stessi versi in una versione, diciamo, napoletana,…. si tratta della traduzione che ne ha fatta il compianto amico nonché esimio studioso del nostro dialetto, il prof. Francesco D’Ascoli…

“Perzona strissema è chella ca piglia ‘e pietto ’o destino ’e ll’umanità, e ca cu sciurdezza, senza affuca’ ’a rialtà, azzetta ’a scaienza ca nce fuie assegnata, e chesta vita gnobbele e scellata; chella ca dinto e patemiente fiura anemosa e tosta, e ca nun aggrannisce ’e stierne suoie cu ’e ’mpicche e ’e scigne tra frate e frate, ca so’ cchiù ammare ’e ll’ate gliannule,…., penza ca tutte ll’uommene so’ accucchiate ’nfra lloro e abbraccia tutte cu granne affezione, danno e aspettannese assecurzo forte e listo ’nfaccia e^ campiseme d’ ’a guerra anneverzale.” (da Francesco D’Ascoli, “ I nuovi credenti e La ginestra” di G. Leopardi, Traduzione in dialetto napoletano, Edizioni Del Delfino, Napoli, 2006, pp. 49 e 51).

– Come si può continuare a coltivare una tale illusione? Gli uomini sono divisi e discordi su tutto – commenta amaro il prof. Piermario.
– In modo particolare gli Italiani… – concorda il prof Eligio.
– Figuriamoci se potevano essere concordi – continua sarcastico il prof. Piermario – sulla festa da celebrare per l’anniversario dell’Unità d’Italia…

– Ecco – interviene il prof. Carlo – una bella situazione ossimorica: divisi sull’unità… Intanto noi andiamo avanti per la nostra strada e attuiamo il programma che abbiamo deciso per dare un senso a questa ricorrenza.

Finita la festa, nel complesso riuscita, appena appena guastata dal comportamento infantile di alcuni gruppi di contestatori (secessionisti? Perché non hanno il coraggio di sostenerlo apertamente e di essere coerenti fino in fondo, accettando di subirne tutte le conseguenze?) ma anche dalla protesta dei lampedusani che vedono la loro luminosa isola invasa da una massa di disperati, riposte le bandiere o lasciatele sui pennoni e sui veroni a sventolare per i giorni a venire, testimoni di un sentire non superficiale, cessati i canti, i concerti, i discorsi, insomma le celebrazioni ufficiali,

finita anche la baldoria euforica delle pubblicazioni di saggi, articoli, libri, alcuni dei quali pregevoli, ma spesso opera di storici improvvisati che la storia l’hanno appresa (credono di saperla) da letture parziali e superficiali o addirittura per sentito dire, iniziamo, anzi continuiamo la nostra riflessione e il nostro studio sulle tematiche che avevamo scelte per preparare il convegno di Giugno su questo 150° compleanno della nostra nazione…

– Per parte mia – conferma il prof. Eligio – porterò avanti, come d’accordo, la ricerca già iniziata sul concetto/sentimento di patria (la patria-città) nell’antichità greco-romana…
– Io raccoglierò – dichiara il prof. Fantasia – un florilegio di testi poetici che preconizzano l’Italia unita dal Medioevo al Risorgimento (la patria nazione)…
– Io mi assumo – continua il prof. Piermario – il compito di documentare l’evolvere dello stesso concetto/sentimento di patria dal Risorgimento ai giorni nostri (da patria-Stato a patria-Europa)…

– A me la parte più amara – conclude il prof. Carlo –, quella di documentare l’affievolirsi e quasi il disgregarsi di questo valore, la patria, che tanti cuori ha scaldato e tante menti esaltate in passato e che ora lascia i più indifferenti…Mi auguro di sbagliarmi, ma ho netta la sensazione che quasi più nessuno, scrittori compresi, osi pronunziare o scrivere la parola patria… è come la parola amore… a pronunziarla, si grida subito allo scandalo e si lancia l’accusa infamante di fare della retorica…Ripeto, mi auguro e auguro agli Italiani di sbagliarmi!

Intanto, coraggioso il poeta Mario Luzi che osa intitolare una sua lirica Italia ritrovata e la chiude con questi versi che sono quasi un gemito d’amore:
O Italia ininterrotto agone,
ininterrotta pena
.”

LA RUBRICA

“I TREGIORNIPERL’UNITÁ” PER I GIOVANI DEL MERCALLI

Tutti i gruppi classe dell”Istituto hanno condiviso percorsi di riflessione e studio sui temi dell”Unità d”Italia. Offerti contributi di alto livello di cittadinanza attiva. Di Annamaria Franzoni

In occasione del terzo Giubileo dell’Unità d’Italia, il Dirigente Scolastico del liceo Mercalli di Napoli, prof. Luigi Romano, nel corso della settimana delle celebrazioni del Cento cinquantenario, ha istituito i “3giorniperl’unità” invitando docenti ed alunni a condividere percorsi di riflessione e studio sui temi dell’unità, della consapevolezza storica, della coesione, dell’integrazione e dei valori che sgorgano dalla nostra carta costituzionale.

Le celebrazioni delle tre giornate di studio e riflessione sono giunte al culmine mercoledì 16, anche se il cattivo tempo ha impedito la solenne manifestazione che si sarebbe dovuta svolgere nel cortile della scuola e che prevedeva l’alzabandiera del tricolore ricevuto, nel corso della precedente settimana, da una delegazione di allievi presso il Circolo Sottufficiali: si è dovuto optare così per la “soluzione b”. I gruppi classe, all’interno delle proprie aule, a porte aperte, con i docenti della prima ora, hanno innalzato all’unisono l’inno di Mameli a gran voce mentre nei corridoi ne risuonavano le note.

La colonna sonora della nostra unità nazionale ha così inaugurato la giornata conclusiva di questo percorso che ha visto impegnati, in modo vario i gruppi classe dell’istituto con modalità e strumenti diversificati, offrendo contributi disciplinari e trasversali, di alto livello, di cittadinanza attiva, nella direzione di una crescita umana e culturale della nostra Città e della Nazione intera.
Il momento di maggiore aggregazione è stato così rinviato alla sera, alle ore 20.00 quando si è svolto un concerto di musica live, ad opera di un gruppo di studenti che hanno intrattenuto piacevolmente allievi, docenti e genitori che hanno partecipato all’evento.

È stata anche l’occasione per presentare ufficialmente il prossimo Certamen Nazionale di matematica “Renato Caccioppoli” I Edizione che si svolgerà presso il nostro istituto nel prossimo mese di aprile in collaborazione con Mathesis Sezione di Napoli, il Dipartimento di Matematica e applicazioni “R. Caccioppoli”, Università degli studi di Napoli, con il Patrocinio della Provincia e del Comune di Napoli e dell’Ufficio scolastico Regionale della Campania.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

LE FONTI D”ENERGIA – IL SOLARE FOTOVOLTAICO

Nell”articolo che segue si fa una disamina delle potenzialità dell”energia fotovoltaica, analizzando i materiali occorrenti per la costruzione di un impianto. Continua il nostro studio sulle fonti di energia.

Sono illustrate le caratteristiche del materiale utilizzato per la costruzione dei moduli fotovoltaici che convertono l’energia solare in energia elettrica.
Un esempio fornisce l’entità di questa conversione che si aggira intorno al 10% circa dell’energia solare incidente.

In un’altra rappresentazione a colori dell’Italia, è riportata l’energia elettrica che può produrre annualmente un impianto fotovoltaico della potenza di 1 kW in funzione della sua dislocazione sul territorio.

LE FONTI D’ENERGIA – IL SOLARE FOTOVOLTAICO

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