E Cristo in croce gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”?

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1912

Il “Cristo crocifisso” che venne dipinto da Van Dyck (o da un suo imitatore) tra il 1621 e il 1625 e che è conservato nel Museo di Capodimonte rappresenta, secondo gli studiosi, il momento drammatico in cui Cristo si accinge a gridare, a voce alta, lo sconforto nel vedersi “abbandonato” dal Padre. Il senso profondo di questo sconforto, di cui parlano i Vangeli di Marco e di Matteo. Le ragioni che convalidano l’attribuzione del quadro a Van Dyck.

 

Racconta l’evangelista Marco (XV, 34- 36) che Cristo crocifisso, all’ora nona – nel buio che già dall’ora sesta aveva incominciato a ricoprire la Terra- a gran voce gridò, citando i primi versi del Salmo 21, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Uno dei presenti “andò in fretta a prendere una spugna inzuppata nell’aceto e, postala in cima a una canna, gli porgeva da bere. Ma gli altri dicevano: “Lascia stare, vediamo se viene Elia a liberarlo”.Ma Gesù, dopo aver di nuovo gridato, spirò. Il racconto di Marco è sostanzialmente confermato dal Vangelo di Matteo(XXVII, 46-50). Il Vangelo di Luca (XXIII, 44-47) conferma che il sole si eclissò tra l’ora sesta e l’ora nona, ma dice che Cristo gridò a gran voce “Padre, alle tue mani affido lo spirito mio”. “E detto questo, spirò. Allora il centurione, vedendo quello che accadeva, glorificava Dio dicendo: “Quest’ uomo era veramente giusto”. Nel racconto di Marco e di Matteo il grido di Cristo Crocifisso è un momento profondamente significativo della storia terrena del Salvatore. San Giovanni della Croce osservava che “nel momento della morte Gesù era annichilito anche nell’anima senza alcun sollievo e conforto, in un’aridità così intensa che fu costretto a gridare”.  Da sponde opposte, Hans Kung e Jean Galot, il teologo ammirato da Papa Wojtyla, ci ricordano che il Cristo che viene crocifisso e muore in croce è il Cristo uomo, e come tutti gli uomini anche Lui cerca di allontanare da sé il dolore, il “calice della sofferenza” (Luca, XXII, 42). Nota il salesiano Sabino Palumbieri che Cristo non ha mai detto agli infermi e ai sofferenti “rassegnatevi al dolore”, ma ha guarito e ha consolato. “Gesù non è uno stoico super-uomo, è un uomo vero. Socrate davanti alla morte cantò, Gesù davanti alla morte tremò… Gesù è stato profetizzato come “l’uomo dei dolori che ben conosce il soffrire” (Isaia, 53). Un Dio non può morire in croce, ma può risorgere dalla morte: Cristo è stato prima di tutto uomo, in tutta la sua vita, ha sperimentato minacce, pericoli, avversità, tradimenti: e questa dimensione umana e questa vita di sofferenze rendono ancora più credibile il Suo Vangelo e più affascinante la Sua figura, anche tra chi non si professa cristiano. Antooon Van Dyck fu quasi certamente l’autore del “Cristo crocifisso” che si conserva a al Museo di Capodimonte, e che qualche studioso attribuisce ancora a un imitatore del grande pittore fiammingo. I sostenitori della paternità di Van Dyck ritengono che l’artista abbia dipinto il quadro tra il 1621 e il 1625. L’analisi tecnica conforta l’attribuzione al Maestro. I colori sono i suoi: il bianco di piombo, il rosso lacca organico, che nel colore della carne viene mescolato, in varia misura, con il giallo ossido di piombo. Ma è di Van Dyck soprattutto il bruno che da lui prese il nome, una “terra” corretta da una “punta” di vermiglione e usata per l’ imprimitura della tela, perché capace di “accendere” i colori stesi su di essa. Di Van Dyck è la variazione sagace degli strati di pittura: dalle delicate velature usate per il fondo del quadro e per il lampo che attraversa il nero cielo, agli strati più densi che costituiscono la croce  e, infine, alle “generose” pennellate che “tirano fuori” dal fondo il corpo di Cristo. Sul panno grumi di bianco di piombo, “corretti” da “gocce” di azzurrite vennero stesi con piccoli e ruvidi pennelli. Di Van Dyck è il geniale disegno del volto di Cristo, che tormentato dalla sofferenza e dalla disperazione, si torce verso l’alto, nel momento del grido di cui parlano Marco e Matteo. E l’abitudine del pittore fiammingo di allungare i corpi qui trova giustificazione artistica nel fatto che il corpo del Salvatore si tende nell’ultimo spasimo..