Per gli antichi la triglia aveva poteri di prodigi erotici. Questo pesce ha suggerito anche simboli incerti e contrastanti: il vigore lussurioso ma anche la spossatezza dei nervi. Fare “l”occhio di triglia” è tutto un romanzo! Di Carmine CimminoIl sapore della carne e la speranza o l’illusione che la carne, oltre che essere di assai delicato sapore, avesse anche poteri di taumaturgia erotica resero assai costose le triglie, nel mondo antico: a leggere Svetonio e Plinio, pare che i ricconi romani cercassero di superarsi l’un l’altro nella gara a chi le pagava di più. Negli anni di Caligola, Asinio Celere, che era stato console, acquistò una triglia per 8000 sesterzi, che era un bel mucchietto d’oro. Marziale non sopportava i pranzi a casa di Ligurino, che aveva la mania di scrivere versi e pretendeva di recitarli ai suoi ospiti: Non voglio che tu metta in tavola rombi e triglie di due libbre, non voglio funghi, non voglio ostriche: voglio una cosa sola: che tu taccia.
E tuttavia un vero amico era, per il poeta, solo chi offriva carne di cinghiale, ostriche e triglie. Il termine triglia viene dal greco, da un verbo che significa cigolare, crepitare, e forse anche, per analogia rattrappirsi: e da questo verbo uno scrittore greco ne cavò un altro, che significa sghignazzare. È probabile che i Greci abbiano associato il pesce e i verbi osservando la faccia che fa la triglia quando la tirano fuori dall’acqua: una faccia rappresa in uno stupore che si trasmette a tutto il corpo corrugandolo in vistose contrazioni. I Romani la chiamarono mullus dal suo rosso cangiante, e attribuirono ad Apicio anche il merito di aver insegnato a trarre dal loro fegato una salsa preziosa, l’allec, la quintessenza del garum, e cioè del condimento che si cavava dalla fermentazione di interiora e di pezzi di pesci, ridotti gradualmente in poltiglia.
Il liquido che filtrava dal ribollio di questa massa collosa era il garum. Un particolare tipo di garum, che Plinio e Marziale chiamano garum degli alleati, si otteneva, dice Marziale, dal primo sangue dello sgombro che, colpito a morte, sta per spirare. E in siffatta salsa Apicio consigliava di affogare le triglie. Non dobbiamo meravigliarci se questo pesce in livrea di varie sfumature di rosso abbia suggerito simboli incerti e contrastanti, il vigore lussurioso, ma anche la spossatezza dei nervi. Da Galeno qualche scrittore del nostro Cinquecento attinse la notizia che chi beve il vino in cui un attimo prima sia stata affogata una triglia fa disseccare i suoi “ umori venerei “: e mi pare cosa ovvia: un vino così conciato è peggio di una purga.
Ma la triglia ispirò ai buongustai romani comportamenti di disgustosa crudeltà. Le triglie, scrive Seneca, sono giudicate fresche solo se muoiono sotto gli occhi dei commensali. Vengono portate in tavola chiuse in globi di vetro, e gli sguardi si concentrano tutti sulle mille sfumature che la morte lenta trae dal loro colore, quando questo “ va “ da un tono all’altro, come se non sapesse se “prendere il tono della vita o quello della morte.”. Finora, continua Seneca, non c’era niente di meglio che una triglia di scoglio; ora, invece, gli intenditori non riescono a staccare gli occhi dal vaso di vetro: guarda, come è acceso questo rosso; guarda, come si gonfiano le vene lungo i fianchi; diresti che il suo ventre è di sangue; nota il chiaroscuro luminoso dell’azzurro sotto le branchie; guarda, stanno cessando gli spasimi, il rosso e l’azzurro impallidiscono nella stessa nota di grigio.
Forse converrebbe prestare un po’ di attenzione a questo mondo in cui la crudeltà si declinava in forme e corrispondenze impreviste, e il circo e una sala da pranzo erano teatro della stessa follia. Racconta Svetonio che l’imperatore Claudio faceva sgozzare non solo i gladiatori vinti, ma anche quelli che scivolavano a terra per caso, soprattutto i reziari che combattevano a capo scoperto: si inginocchiava accanto a loro, per osservare da vicino le espressioni del loro volto, mentre essi spiravano. Non era solo sadismo: lo spettacolo della morte degli altri serviva a scongiurare la propria morte. Col ferro delle armi di due gladiatori che si erano uccisi l’un l’altro Claudio si fece forgiare dei coltelli, poiché si credeva che l’epilettico si liberasse del suo morbo mangiando la carne di un animale selvatico trafitto col metallo di un’arma che aveva ucciso un uomo.
Sembra incredibile che qualcuno abbia potuto prestar fede a sciocchezze di tale portata: ma non credo che a noi “ moderni “ sia concesso il diritto di scagliare la prima pietra.
L’occhio è, nell’opinione comune e nelle immagini dei poeti, lo strumento con cui il cuore si apre all’esterno: l’occhio non mente. Fa “l’occhio di triglia “ l’uomo che vuole comunicare a una donna, per silenziose immagini, d’essere ridotto da lei in quello stato che i poeti antichi chiamavano scioglimento delle membra: quei poeti ne attribuivano la responsabilità all’eros. È uno stato di morbido languore, di stupore folgorato, in cui il desiderio innesta una sofferenza di morte e insieme l’energia vitale della prefigurata voluttà.
Amore e morte sono una sola cosa: e nel corpo della triglia che muore ci sono la forza del rosso ancora vivo, e l’esangue pallore della fine imminente. “Fare l’occhio di triglia“ non è una banale comunicazione: è un romanzo d’appendice.
(Foto: Emblema musivo della Bottega della pompeiana Casa del Fauno. Museo Archeologico Nazionale di Napoli)