Un caffè con…Roberto Iossa

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Roberto Iossa

 

Medico radiologo, spin doctor per passione, moderato (ma renziano per scelta), opinionista.

Ha 46 anni portati benissimo, ma dice che preferirebbe averne 25 portati male. Medico radiologo, democristiano fin da adolescente con una sfrenata passione per la politica. Ha avuto due sole tessere di partito: quella della sua Dc e quella di Forza Italia, partito del quale è stato commissario cittadino a Pomigliano d’Arco sul finire degli anni ’90 fondando la sezione intitolata a JFK. Ideatore di libelli satirici, a cavallo di quegli anni ha avuto per un po’ una seconda identità, quella di «Acidulo», diffondendo volantini con versi contro il potere locale pro tempore, con picchi scenografici indimenticati che finirono su testate locali e nazionali: la pioggia di volantini che irrideva il nuovo look della pomiglianese Piazza Primavera, per esempio. Lanciati da un elicottero proprio mentre il sindaco di allora, Michele Caiazzo (oggi consigliere comunale Pd) la stava inaugurando. Ha curato, da coordinatore, le due campagne elettorali (2010 e 2015) dell’attuale sindaco di Pomigliano d’Arco, Lello Russo, accettando anche nel 2010 – per pochi mesi –  l’incarico di assessore alle Culture & Politiche Giovanili nella sua giunta. Spin doctor per passione, è suo lo slogan «Pomigliora» che tanto ha fatto discutere: ma, come ha sottolineato, che piaccia o meno, ha una qualità fondamentale che deve avere uno slogan efficace: lo si ricorda. Nel frattempo, già da qualche anno, si è allontanato dal centrodestra ed è convinto «renziano». Renziano, non del Pd, come tiene a sottolineare. E durante le primarie del partito, Matteo Renzi ha utilizzato in Campania, e a Napoli in particolare, uno degli slogan da lui creati: «Come la PenZi? Come RenZi!». Non è difficile trovare, sfogliando i quotidiani – Il Corriere del Mezzogiorno e Il Foglio per lo più – suoi interventi e lettere. Piccoli strali, sintesi di pensiero, lettere al direttore. E Roberto Iossa – che nell’intervista che segue ha risposto con l’ironia che gli è propria a domande sulla sua professione, sulla politica, sui suoi gusti e sulle sue scelte – ha avuto modo di descriversi così: «Radiologo, opinionista non-di-sinistra. Democristiano kennediano. Spin –doctor Elettorale. Medico per dovere. Viveur per piacere. Cattolico per Grazia ricevuta. Single per scelta. Musicalmente Battiatiano. Assessor –ex alle “Culture & Gioventù” della Libera Città di Pomigliano d’Arco, per il CentroDestra, nel 2010».

 

Perché hai scelto di diventare un medico?

«Ha influito tantissimo la figura paterna. In casa avevo un medico che a Pomigliano d’Arco era “il” ginecologo. Non credo esista una strada, una contrada o un cortile che non abbia visto una nascita per mano di Pasquale Iossa. Ovunque andassi mi si chiedeva: “Tu sei il figlio del ginecologo?”. L’idea iniziale, quando mi sono iscritto alla facoltà di Medicina, era quella di proseguire la sua attività, diventare un ginecologo. Ma ho studiato con piacere e senza mai alcuna pressione, per mio desiderio. Poi però, arrivato al quarto anno, sono stato con mio padre in sala parto e ho capito di non avere questa attitudine».

Mancata attitudine alla ginecologia o alla sala operatoria?

«Alla sala operatoria, in particolare. Nello studio di papà c’era un ottimo ecografista: ho cominciato ad interessarmi di questa branca e mi è piaciuta subito, perciò ho optato per la radiologia. C’è’ da dire poi che una malsana passione per la politica – dovrei chiamarla droga – mi toglieva tantissimo tempo, anche se prima veniva il dovere. Mi svegliavo alle 5,45 del mattino per studiare ed essere libero, nel corso della giornata, di occuparmi di politica. Riprendevo i libri nel pomeriggio alle 14, ma non ho mai studiato oltre le sette di sera, mai».

Organizzatissimo…

«Sempre. Ma studiavo comunque dieci ore al giorno, anche se ricordo che per mio padre questa situazione era impensabile. Lui era dedito alla sua attività in maniera pregnante, ventiquattro ore su ventiquattro. Così un giorno, dopo aver superato un esame molto difficile, decisi di prendermi un po’ di riposo. Papà entrò in camera, mi vide impegnato in attività legate alla politica e disse: “Chiariamoci, se vuoi fare politica non puoi fare il ginecologo, scegli la branca che ti piace di più”. Mi aveva già avvisato dopo la fine del liceo, lasciandomi libero di scegliere magari un’altra facoltà; ma io gli risposi già allora che avrei frequentato Medicina e che la mia passione non avrebbe influito sul lavoro. Ne sono contento».

La radiologia non è una materia un po’ fredda?

«Nella sua branca tradizionale sì: con una Tac o una Risonanza non c’è contatto diretto con il paziente, ma solo con le immagini. L’ecografia invece è completamente differente: prevede il contatto umano, la conoscenza dell’anamnesi, la comprensione, un buon inquadramento clinico. Mi piace molto. Il paziente ti vede da molto vicino, cerca di capire dai tuoi sguardi se c’è qualcosa che non va; occorre una componente psicologica che consenta di trasmettere tranquillità, di immedesimarsi. Qualità fondamentali per un medico e che non credo abbiano tutti».

A tuo padre non è spiaciuto che né tu né tuo fratello Fabrizio, medico anche lui, non abbiate proseguito la sua strada?

«Fabrizio è dietologo e nutrizionista, ha scelto una branca nella quale ha avuto un successo anche maggiore rispetto al mio e ne sono contento, anche molto orgoglioso come fratello perché è venuto fuori alla grande. Credo che oggi papà sia orgoglioso di entrambi, gli abbiamo dato soddisfazioni; anche se forse gli è mancato il figlio ginecologo che potesse proseguire la sua attività; però, detto questo, non ha mai dovuto preoccuparsi eccessivamente di noi. Ovvio che seguisse con apprensione la nostra strada, come ogni padre, e ancor più ovvio che fossimo avvantaggiati da un nome che a Pomigliano d’Arco in ambito medico significa qualcosa. Nel tempo, poi, ci si rende conto che le persone ti seguono per quello che sei e non per il nome che porti. In verità, la cosa che temevo di più al mondo era l’idea che qualcuno potesse dire: “È il figlio di Iossa…ma il padre era un’altra cosa”. È stato questo timore a spronarmi a studiare e impegnarmi ancora di più nel lavoro. A sentire mio padre la “colpa” è stata dell’influsso di mamma, ma non è vero».

Pensa che sia stata tua madre a influire nelle scelte professionali e farvi scartare la ginecologia?

«Sì, però non è così. Crescendo ci siamo resi conto che dedicarsi alla professione, così come ha fatto mio padre tutta la vita, significa rinunciare alla vita personale, mancando molto spesso agli appuntamenti che potevano essere la cena di Natale o le vacanze estive. Da bambini, nella nostra piccola casa a Baia Domizia, uno di noi doveva sempre rimanere accanto al telefono se papà andava in spiaggia, i cellulari erano ancora di là da venire. Se arrivava una chiamata, dovevamo correre immediatamente ad avvisarlo e lui tornava subito a Napoli o a Pomigliano. Una volta, era un Ferragosto, durante una di queste corse ci fu un incidente e per fortuna gli andò bene. Ma tutte queste cose poi ti segnano: capisci che l’attitudine non è la stessa, che se non hai la predisposizione naturale a dedicarti al lavoro e basta, a non prendere mai una vacanza che duri non più di una settimana all’anno così come ha sempre fatto mio padre, è meglio scegliere altro. Del resto non mi sarebbe piaciuto essere “il figlio di”: nel mio modo di pensare dovevo fare in modo che papà fosse orgoglioso di me, che un giorno qualcuno potesse chiedergli: “Lei è il padre di Roberto?”.

Ci sei riuscito?

«So che orgoglioso lo è, non so se qualcuno gli ha chiesto se è mio padre. Intanto io sono orgogliosissimo di essere suo figlio. Ora è in pensione dopo aver lavorato cinquant’anni. Non ha realizzato il suo desiderio di organizzare una clinica tra Pomigliano e Sant’Anastasia; è mancato il gruppo, qualcuno che ci credesse veramente. Ma è riuscito anni fa ad acquisire una piccola casa di cura, Villa Aurora, un tempo la clinica degli aborti a Napoli. Mio padre è sempre stato un antiabortista convinto, obiettore di coscienza, e riuscì a trasformarla in un piccolo gioiello, la Clinica Tasso: un luogo dove nascevano quasi duemila bambini l’anno. Fu una bella impresa imprenditoriale ma né io né mio fratello avevamo intenzione di proseguire quell’attività perché, per fare l’imprenditore nel settore sanitario in Campania, devi avere il pelo sullo stomaco. Visti i ritardi con cui avvengono i pagamenti dalla Regione si dovrebbe avere il coraggio di bloccare stipendi al personale e pagamenti ai fornitori; mio padre invece è uno che non ha mai avuto cinquanta centesimi di debito, quindi finiva per rimetterci di tasca sua. Dunque, quando la cosa è diventata pericolosa, per evitare che lui potesse rovinarsi, si è preferito cedere ad un gruppo più grande che potesse permettersi posizioni debitorie diverse da una famiglia o da un singolo professionista. Non era “articolo” di mio padre consentire che i dipendenti potessero vivere due o anche tre mesi senza stipendio».

Tua madre?

«Di mia madre, Maria, dico sempre che è una “suora”. Le suore dedicano la propria vita a Gesù, lei l’ha dedicata a mio padre, con una devozione assoluta. L’impegno totalizzante di lui nel lavoro è stato supportato da una organizzazione perfetta della vita familiare. Mamma dice sempre che tra mio padre, me e mio fratello, ha preso tre lauree in medicina e in effetti sono soprattutto suoi i meriti di ciò che mio padre è riuscito a realizzare professionalmente. Sua è la scelta persino degli abiti o delle cravatte di papà».

Un tuo ricordo d’infanzia, il primo che ti venga in mente.

«Il terremoto del 1980, avevo undici anni. Eravamo tutti insieme in casa, all’ultimo piano di uno dei palazzi più alti di Pomigliano d’Arco e stavamo guardando in tv la partita Juventus – Inter. Avevamo deciso di restare lì piuttosto che andare al cinema come programmato. Ricordo il buio, il palazzo che oscillava per un tempo infinito, noi spaventatissimi, mamma che pregava e mio padre quasi disperato che urlava dicendo che da un momento all’altro sarebbe crollato tutto. Poi la scossa si fermò e ci fu la discesa lungo le scale, con le persone che correvano e papà che incitava a non usare l’ascensore. Scene di pianto e panico, ma anche una comunità che ad un certo punto si raccoglie. Nei giorni successivi andammo a dormire a casa di zii, in una casa a piano terra. Ricordo le scosse notturne di assestamento, che avvertii nel sonno, e le serate accanto al fuoco con i cugini. Insieme organizzammo uno spettacolo teatrale: l’idea fu mia e ne ero naturalmente il regista».

Naturalmente…

«Sì, già da piccolo avevo una naturale predisposizione. Coordinai scenette recitate, canti, balli, cose così. Uno spettacolo per gli zii e la nonna materna. Di quel periodo ho anche un altro ricordo: il gemellaggio di Pomigliano d’Arco con una cittadina dell’avellinese colpita dal sisma, non ricordo quale fosse. Io ero compagno di banco del figlio del sindaco di Pomigliano – lo era già allora – Lello Russo, e rammento la visita in questo paesino. È a casa del sindaco Russo che è nata la mia passione per la politica, era lui a stuzzicarmi, prendendo allegramente in giro la tradizione democristiana della mia famiglia nonostante la presenza del socialista Felice Iossa, una sorta di prozio credo».

Se ti prendeva in giro non è cambiato molto…

«No, infatti. Però ha tirato fuori il mio orgoglio democristiano. In quel periodo Ciriaco De Mita fu eletto segretario Dc: iniziai a seguire – quasi meno che adolescente – le sorti del partito e lottavo con mia cugina per riuscire a guardare il telegiornale delle 20. Lei piangeva perché su un altro canale davano Candy Candy, ma io la lasciavo piangere e seguivo il tg».

Il tuo impegno politico attivo a quando risale, invece?

«A pochissimi anni dopo, ne avevo 13. Iniziai a leggere i primi libri, don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi. Compravo quotidiani sempre, giravo con Il Popolo sotto il braccio».

Perché tutti capissero che eri un democristiano?

«Esatto, anche perché era abbastanza strano che un tredicenne leggesse il Popolo. Quella è l’età degli estremismi, ammettendo che ci si interessi di politica. Poi, in una città “rossa” come Pomigliano essere democristiano a 13 anni era il massimo dell’anticonformismo».

Quindi scegliesti la Dc per sentirti anticonformista?

«No, fu una scelta naturale. Sono sempre stato cattolico, anche se mai bigotto. Un cattolico democratico che si guardava intorno e capiva che a quell’età i coetanei o non erano interessati o erano di sinistra. Pativo molto quella situazione, la presenza organizzata dei giovani della sinistra e il fatto che non ci fosse qualcosa del genere nella Dc. Perciò a tredici anni entrai per la prima volta nella sede della Dc a Pomigliano, sede dalla quale il guardiano mi cacciò».

Il guardiano?

«Sì, il custode. Avevo chiesto di poter prendere dei volantini ma mi intimò di non toccare nulla, perciò li rubai. Con questo pacco di volantini, durante le elezioni politiche che la Dc perse poi malamente, feci la mia prima campagna elettorale. Li spillai insieme ad un volantino del capolista e li infilai nelle cassette postali di mezza Pomigliano. L’anno dopo, ne avevo quattordici, mi iscrissi alla Dc».

Ti consentirono l’iscrizione così giovane?

«La sezione era commissariata, fecero un’eccezione per questo ragazzino impertinente che infastidiva tutti e andava a sedersi ai tavoli delle riunioni pretendendo pure di intervenire».

Cos’è che dicevi?

«Insistevo sul fatto che la Dc fosse poco presente tra i giovani e chi bisognasse invece portare tra loro le nostre idee. Infatti organizzai il primo movimento giovanile del partito. Ero legato alle idee di De Mita che a Napoli, dove governava la Dc dorotea, non erano ben viste. Non essendo in linea con la corrente maggioritaria fui destituito da un giorno all’altro, al mio posto fu nominato qualcuno di più docile».

Ti desti per vinto così facilmente?

«No, infatti decisi di fondare un giornale che si chiamava “Il Cinghiale Bianco”, nome che scelsi per la mia passione per la musica di Franco Battiato, del quale in seguito sono diventato amico (uno dei regali più belli che Dio mi abbia fatto). Era l’unico giornale di opposizione, giacché il partito socialista monopolizzava elettoralmente la scena politica. Raccolsi intorno a quel progetto e quel giornale il meglio della gioventù pomiglianese non di sinistra».

Quando poi arrivò la bufera di Tangentopoli?

«Ero chiaramente deluso da quel che stava accadendo. Mi misi un po’ da parte e completai gli studi: mi sono laureato in cinque anni e una sessione nel 1994, avevo 23 anni. Per un annetto rimasi lontano dall’attività politica».

In ogni caso non ti sei mai candidato, né durante quei dieci anni né dopo. Perché?

«Candidarsi nel periodo della Prima Repubblica per un giovanissimo era quasi impensabile. Ero un ragazzino, dovevo formarmi ed esisteva il cosiddetto cursus honorum. Entrai nel direttivo Dc a diciotto anni e non avrei nemmeno voluto perché non mi ritenevo all’altezza. Poi colui che definisco il mio “padrino” politico, Antonio Caprioli, mi convinse. Che poi non sia accaduto nemmeno dopo è stato quasi un destino…».

Cos’è per te la politica, una passione?

«Una passione fortissima e per un certo periodo anche una droga dalla quale sono poi riuscito a disintossicarmi, nel senso che non ne ho fatto l’attività principale della mia vita. Qualcuno mi accusa di ciò, altri ne sono dispiaciuti: io sono contento sia andata così. È dal 2001 che ho deciso di non fare più l’attivista. Prima di quel momento fui chiamato al ruolo di commissario di Forza Italia a Pomigliano e intitolai la sezione a John Fitzgerald Kennedy, scelsi io il nome».

Kennedy è un altro tuo grande riferimento, è vero che hai un suo ritratto nel salone di casa?

«Sì, un volto ricreato con tappi di bottiglia da un artista napoletano che vive a Barcellona. Ne avevo visto alcuni molto belli e gli ho chiesto di un ritratto di Kennedy».

Come andò alla guida della Forza Italia di Pomigliano?

«Accettai il compito di riorganizzare tutto con la prospettiva eventuale di candidarmi poi alle politiche nel collegio Pomigliano – Sant’Anastasia. Non andò così, queste cose non accadono quasi mai per merito».

Perciò si può dire che, in politica, tu sia stato solo portatore di passione?

«Esatto, è sufficiente. Ci sono i portatori di interessi, quelli di voti e quelli di idee. Sono contento, se permetti, di appartenere alla terza categoria».

C’è stato un periodo però, alla fine degli anni ’90, in cui sei stato una sorta di «supereroe mascherato», diciamo così con un po’ di forzatura. Gotham City aveva Batman, Metropolis aveva Superman…Pomigliano ha avuto «Acidulo» … come nacque quella tua identità più tardi svelata?

«Nacque da quanto era accaduto pochi anni prima nello scenario politico cittadino: trovavo che nello scioglimento del consiglio comunale fosse stata commessa una grande ingiustizia ai danni di Pomigliano e di alcuni suoi amministratori colpiti personalmente in maniera iniqua. La pensavo così, pur se quegli amministratori li avevo sempre considerati avversari. E trovavo ancora più ingiusto il fatto che altri, con loro in giunta fino al giorno prima – per un meccanismo che aveva “salvato” solo gli ex Pci – fossero considerati portatori del nuovo. Ecco, dopo Tangentopoli, Silvio Berlusconi ha evitato che accadesse in Italia ciò che in quel periodo accadde invece a Pomigliano. La vecchia dirigenza in galera, in molti casi ingiustamente, e altri salvati “ad personam”, tramutati per incanto in nuova classe dirigente che operò tra l’altro una sorta di tabula rasa, mettendo su un vero e proprio regime politico – culturale per cui nessuno poteva alzare la testa. Non era facile dire tutto ciò dal punto di vista dei partiti che già venivano meno: lo si poteva fare però attraverso un personaggio che dicesse in faccia a tutti come stavano davvero le cose».

Acidulo, appunto. Perché la scelta di quel nome?

«Una bevanda acidula ti sveglia, lasciando anche un po’ di retrogusto».

Ma ti sentivi un po’ come Robin Hood?

«Si, l’idea del gruppo di ribelli che si contrappone all’impero galattico l’ho sempre avuta».

Mi sa che fai confusione con Guerre Stellari…

«Ma no, diciamo che mi sentivo più cavaliere di Re Artú».

Un cavaliere della Tavola Rotonda non su un cavallo ma in elicottero. Perché se non ricordo male mentre il sindaco di allora, Michele Caiazzo, inaugurava la nuova Piazza Primavera, inondasti la folla di libelli satirici. Dal cielo, appunto. Mi dici quanto hai speso per quella cosuccia?

«Nemmeno un euro. Anzi, visto il periodo, nemmeno una lira. C’erano alcuni oppositori della giunta Caiazzo che vollero finanziare, per loro motivi, quel lancio di volantini dall’elicottero nel momento dell’inaugurazione. Loro si levarono lo sfizio e io me ne intestai la paternità, o meglio lo fece Acidulo. Io ci mettevo le idee e l’organizzazione, tutto qua. Fu divertente, devo ammetterlo. Anche perché ritenevo che l’eliminazione della vecchia piazza fosse un altro modo di fare tabula rasa con il passato: e io non ero d’accordo».

Non ricordo cosa ci fosse scritto su quei libelli, tu immagino di sì.

«Poco, qualche passaggio. In particolare quello che riguardava la fontana. Quella piccola. Bruttina. Quando sentimmo i costi, credo si parlasse di una cifra che superava i 150mila euro, ci fu un mio amico che esclamò: “Centocinquantamila euro solo la fontanella? E che butta, Moet & Chandon?”. Mi piacque quella battuta, la usai. Sono sempre stato abituato a raccogliere parole, idee e assemblarle, rielaborarle, farle in una certa maniera mie. E ho sempre osservato, voluto conoscere tutto. Pensa che da ragazzo, nella parte finale dell’estate, passavo sempre due settimane fuori. Una settimana al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dove andavo a fare il volontario. La settimana successiva alla Festa Nazionale dell’Unità per andare a studiare il nemico. Devi conoscere l’avversario per poterlo battere».

In tutti questi anni l’hai avuto un obiettivo? Non che si debba necessariamente averlo in politica ma…

«Sì, un obiettivo l’avevo. Ed è il motivo per cui mi legai al referendum per il maggioritario promosso da Segni. Ero favorevole al maggioritario perché ritenevo che tagliando la mela a metà, io mi sarei ritrovato in quella metà che non era di sinistra. Mi ha sempre infastidito la concezione diffusa che le persone intelligenti siano di sinistra mentre chi non si riconosceva in quelle idee era un bigotto, un retrivo, un minus habens. Non ero d’accordo e non lo sono, per cui ho speso gli anni del mio impegno in ambito politico e culturale per dimostrare che non è così: non bisogna essere di sinistra per essere intelligenti».

Diciamo anche, e lo dico da destra, che spesso l’altra parte non fa abbastanza per sfatare questa favoletta, no?

«Infatti, la mia esperienza è che in certi partiti non c’è nemmeno gusto ad essere intelligenti».

Quante tessere di partito hai avuto?

«Quella della Dc e per alcuni anni quella di Forza Italia».

Non l’hai più quella di Forza Italia?

«No, credo di essermi iscritto per l’ultima volta nel 2001. Ecco, riconosco a Berlusconi un grande intuito storico e politico. Ha creato qualcosa che non esisteva: il centrodestra. Ma con la stessa lucidità dico che è stato capace di distruggerlo, non creando le basi perché potesse sopravvivergli. Le aziende del grande imprenditore Berlusconi vanno avanti e prosperano anche senza di lui. Il partito, senza di lui, non esiste, come il centrodestra».

Da democristiano qual eri non sarebbe stata scelta naturale un partito con una connotazione più attinente, che so l’Udc?

«Stare in Forza Italia significava stare nel contenitore del centro-destra, organizzare in qualche maniera la coalizione in generale».

E poi è comparso Matteo Renzi…

«Avevo letto un suo libro, scritto quando non era nemmeno sindaco di Firenze. Si chiamava “Tra De Gasperi e gli U2”. Mi ritrovai moltissimo in quelle pagine scritte anche fluentemente, in quel giovane che coniugava l’essere democristiano alla modernità. Me ne ero dimenticato, lo rammentai quando venne fuori prima come sindaco di Firenze e poi come candidato alle primarie del Pd. Intanto mi ero già allontanato da tempo dal centrodestra, anche se ho poi coordinato alcune campagne elettorali come consulente».

Un dottore spin doctor per passione. Come hai cominciato?

«In molti mi hanno sempre riconosciuto una discreta capacità comunicativa e organizzativa che ho poi, negli anni, perfezionato con dei corsi. Public speaking, organizzazione di campagne elettorali. Ma più che altro sono un autodidatta. Nella mia casa di Napoli la libreria è composta per un decimo di libri di radiologia, il quaranta per cento conta libri di storia, narrativa e saggi, il restante cinquanta per cento è comunicazione politica. Mi piace proprio, mi piace molto».

Lo slogan «Come la PenZi? Come RenZi!» utilizzato a Napoli e in Campania è tuo, giusto?

«Sì, l’ho conosciuto e ho avuto a che fare con suoi collaboratori stretti, persone in gamba come Giorgio Gori per esempio. Quello slogan con in evidenza la Zeta a mo’ di quella di Zorro piacque molto, ma fu usato solo in Campania perché la campagna nazionale era ormai già partita».

Agli esordi Matteo Renzi ha creato entusiasmo in parecchi, a sinistra, al centro, anche a destra. Il nuovo, una maniera di comunicare diretta, che arriva subito. Ma adesso?

«Credo abbia fatto bene il suo lavoro e ancora stia facendo bene, considerate le difficoltà e i limiti che hanno i governanti rispetto all’Europa. D’altronde, anche se mi guardo intorno, non riesco a vedere di meglio. Scelgo Renzi con tutti i suoi limiti se l’alternativa sono, per dire, Matteo Salvini o Daniela Santanché – una donna che trovo parli e pensi peggio di come veste – o ancora Fratelli d’Italia che mi sembra poco meno di un ghetto politico. Pensare solo alla pancia del paese non è in prospettiva un buon servizio».

Insomma, ti piace Renzi. Ti piace anche il Pd?

«Ho votato per la prima e unica volta in vita mia il Pd alle elezioni europee scorse, unicamente perché era il partito di Renzi. Ma non mi sento di sinistra. Per capirci, se fossi in Germania voterei il Cdu della Merkel, se fossi in Spagna sarei del PP, in Francia mi considererei un moderato, non potrei votare né i socialisti né la Le Pen, anche se cerco di capire cosa ci sia dietro il suo grande successo alle ultime elezioni senza demonizzarla. Così come tento di comprendere il successo del Movimento 5 Stelle, che pure non apprezzo per nulla quando parla e agisce come una setta di savonarola, anzi credo che debba moltissimo all’incapacità di altri partiti di fare buona politica. Perché se c’è una buona politica, i partiti dell’antipolitica non hanno alcuno spazio».

In America voteresti Hillary Clinton?

«Sì, perché oggi il Partito Repubblicano (la destra americana) esprime davvero poco. La Clinton mi sembra persona adatta. Di Obama sono stato grande sostenitore e ho letto alcuni dei suoi discorsi quando era ancora sconosciuto, di là dall’essere eletto presidente. Li lessi su “Il Foglio”, il più bel giornale che si stampi in Italia: un’altra dimostrazione che non è necessario essere di sinistra per essere intelligenti. Hanno pubblicato anche spesso mie lettere, interventi. Diciamo che ho una corrispondenza d’amorosi sensi con Giuliano Ferrara».

Non solo Il Foglio ma anche altri giornali pubblicano spesso tue lettere. Ti dai da fare, diciamo così.

«Ho un bel vantaggio e una qualità che mi riconosco: sintetizzare quanto più è possibile quello che necessiterebbe altrimenti di lunghi discorsi. La capacità di arrivare immediatamente al cuore del problema».

Forse avresti dovuto fare il pubblicitario. Non il medico, né il politico.

«Sì, poteva essere una bella scelta. Mai dire mai». ​

Intanto hai fatto il medico. Subito in ospedale dopo la laurea?

«Prima la specializzazione e poi un anno di militare, ad Avellino e a Napoli».

Vicino casa. Raccomandato?

«Se pure fosse, sarebbe stata una pessima scelta. Stando così vicino casa non riesci a vivere con libertà il servizio militare né a fare la vita di sempre: perciò…».

Il tuo primo incarico?

«All’ospedale di Santa Maria Capua Vetere. Iniziai a lavorare un 1 agosto. In seguito un periodo al Cardarelli e poi fui chiamato da specialista ambulatoriale al San Giovanni Bosco, lavoro ancora lì. È una palestra pesante. A Napoli i medici hanno una marcia in più perché dedicano metà delle loro energie a sopperire alle carenze organizzative. Ce ne si accorge quando capita di lavorare fuori, liberi dal peso della disorganizzazione: rispetto agli altri si “vola”, ci si dedica al lavoro al cento per cento».

Hai anche un tuo studio, continui l’attività privata a Pomigliano.

«Sì, anche a domicilio».

La campagna pubblicitaria per il tuo studio è professionale ma densa di ironia. Per esempio: «Rene e colecisti, non fatevi i calcoli». Tua, immagino. Funziona?

«Abbastanza. L’ironia fa parte di me. Forse anche troppo, perché spesso viene fuori la degenerazione, ossia il sarcasmo. Però mi serve anche per svelenire un clima pesante: se posso allentare eventuali tensioni con una battuta, lo faccio».

Sei contento del tuo lavoro?

«Tra Scampia e Secondigliano c’è un clima abbastanza pesante, però è una bella palestra. Sì, sono contento».

Il momento più difficile?

«Ricordo con angoscia la prima volta in cui ho visto una persona morire sul tavolo della Tac. Si era lanciato da quinto piano: noi agimmo rapidamente, ma non ce la fece. Mi sentii in colpa, perché pensai che ero stato veloce ma avrei potuto essere velocissimo. Mi chiusi in una stanza, scoppiai a piangere finché un chirurgo più esperto di me, venne a scuotermi. Mi disse che quell’uomo era arrivato praticamente già morto, e che cinque minuti in più non l’avrebbero comunque salvato. Fu un momento molto brutto. Ce ne sono stati altri, nel periodo in cui scoppiò la guerra di camorra in zona: arrivavano feriti in continuazione con tutto un corteo di persone aggressive intorno».

Sei mai stato aggredito?

«No, personalmente no. Tento di avere un atteggiamento che non sia altero, ma che metta sufficiente distanza: tale da far capire che interferendo si può solo danneggiare la persona che sto esaminando. Una volta eravamo lì lì: uno degli accompagnatori di una persona ferita alzava i toni, ma pregai tutti, con molta fermezza, di lasciarmi lavorare in pace perché più restavo sereno meglio potevo essere utile. Un altro del gruppo, credo quello con più voce in capitolo, bloccó gli altri con due parole: “Faccimm faticà ‘o dottore”».

L’episodio più strano che ti sia capitato, quello che magari ti ha strappato una risata?

«Ce ne sono tanti, me ne viene in mente uno semplice che è però esplicativo di tanti disservizi. Era una domenica, avevo un turno di dodici ore. Al mattino mi arrivò una richiesta per un’ecografia testicolare di pronto soccorso, per una sospetta torsione.  Chiamai la persona ad alta voce ma non rispose nessuno. Riprovai più volte, ma niente: in sala d’attesa non c’era nessuno. Il paziente era andato via. Dopodiché continuai la mia attività finché nel tardo pomeriggio qualcuno bussò alla mia porta, aprii e mi trovai davanti un uomo che disse: “Dottore, quanto devo aspettare per questa ecografia, sono venuto stamattina alle 12”. Capii che si trattava del paziente annunciatomi al mattino e gli chiesi dove fosse quando l’avevo chiamato. Lui mi rispose che, siccome si avvicinava l’ora di pranzo, aveva pensato di tornare a casa per mangiare e fare un riposino. Sembra una sciocchezza, ma purtroppo il Pronto Soccorso viene visto come un ambulatorio aperto, una delle tante cose che non funzionano».

Hai già ricordato che sei un buon amico di Franco Battiato. Com’è andata tra voi, dove lo hai conosciuto?

«Ero un suo fan, lo sono ancora. Sono stato per la prima volta ad un suo concerto il 2 agosto del 1985, avevo quattordici anni. Era a Montella, in provincia di Avellino, una Festa dell’Unità: ci arrivai in autostop. Poi l’ho seguito in tutta Italia, dandogli ogni volta le copie del mio giornale di allora, “Il Cinghiale Bianco”. E lui finì per chiamarmi così ogni volta che mi scorgeva da lontano: cinghiale bianco. Una volta dissi: “A Frá, me chiamo Roberto!”. Eravamo a Fano, lui era direttore artistico del cartellone di eventi estivi, e mi disse che dopo una quindicina di giorni sarebbe andato a Capri per registrare un nuovo album. E aggiunse: “Vienilo a sentire”. Per un fan, essere invitato ad ascoltare un album in anteprima era una cosa meravigliosa. Per cui a Capri, alle sette di sera, in sala, ascoltai l’incisione de “La Cura”. Un delirio, un deliquio».

Cos’è che piaceva tanto di Battiato a quel Roberto ragazzino?

«I riferimenti storici, culturali, religiosi, spirituali, ironici. Il primo Battiato di “Bandiera Bianca”, “Patriots”, “Centro di Gravità Permanente”. Una musicalità molto pop, ma allo stesso tempo vicina alla musica classica. La sua prima canzone che abbia ascoltato è “Sentimento Nuevo”: di notte, mentro ero in vacanza e rimasi folgorato dalle parole e dalla musica: “…il coro delle sirene di Ulisse, le prostitute Libiche, lo Shivaismo Tantrico di stile Dionisiaco, la lotta pornografica dei Greci e dei Latini.”. Così iniziai a seguirlo. A un certo punto mi diede il suo numero di telefono, quello di casa. Aspettai un po’, per non essere invadente. Poi chiamai presentandomi: “Salve, sono Roberto Iossa, un amico di Franco, chiamo da Napoli”. Dall’altro capo del filo sentii una voce dire: “Lo so, ciao Roberto”. Io risposi: “Franco sei tu? Allora posso dire che sono tuo amico?”. E lui: “Certo che puoi dirlo!”. E questa amicizia è cresciuta, è proseguita. Oramai sono più di vent’anni che ci conosciamo. Quando Franco viene a Napoli resta a pranzo con me, a Pomigliano. Mi ha seguito, sempre, nel percorso professionale e politico, anche non condividendo le mie idee».

La scelta del centro destra, per esempio?

«Sì, non apprezzò questa fase, agli albori della cosiddetta Seconda Repubblica, quando scelsi naturalmente il centrodestra. Un giorno mi disse: “Roberto, tu non sei di destra. Tu sei di sinistra, ma ancora non lo sai”.  Aggiunse che un giorno lo avrei capito. Io risi. Però poi più tardi, pensando al fatto di aver aderito con naturalezza e molta tranquillità alla campagna elettorale di Renzi – per affinità e perché condividevo il 99 per cento delle cose che propugnava –me ne sono ricordato, di quelle parole: il Profeta. Anche se molti direbbero che Renzi non è di sinistra».

Nemmeno tu, direi.

«Nei confronti della sinistra mi sono sempre considerato alternativo. Della sinistra italiana, soprattutto. La trovo molto conformista e snobista, ed è questo che non le ha permesso di spiccare il volo da un punto di vista elettorale».

Intanto, fede politica a parte, senti ancora in anteprima le canzoni di Battiato?

«Vado a trovarlo una volta l’anno. Spesso capita, sì. Ma non lo richiedo io, perché non mi va di essere invadente. Solitamente è lui a chiedermi un giudizio: e gli rispondo sempre con franchezza. Se una canzone mi piace lo dico. Se gli dico che ho bisogno di riascoltarla, allora lui capisce che non mi è piaciuta».

Pomigliano d’Arco, la tua città. La chiami sempre la tua «Piccola Patria». Però sei andato via, vivi a Napoli.

«A Chiaia, vicino al mare. Non potrei vivere senza il mare. Anche quando vivevo a Pomigliano scappavo verso luoghi che mi consentissero di stare vicino al mare. Però quando mi chiedono da dove vengo continuo a rispondere: da Pomigliano d’Arco».

Hai smesso l’impegno politico ma sei tornato per due campagne elettorali, da coordinatore e uscendone vittorioso con l’elezione di Lello Russo del quale, al primo mandato, sei stato anche per un po’ assessore alla Cultura. Ma voti a Napoli, non a Pomigliano. Perciò, mi dici chi è stato il miglior sindaco di Napoli?

«Il primo Bassolino. Ha avuto grandi meriti ma ha compiuto un grande “crimine” politico lasciando la città nelle mani della Iervolino. Molti bravi sindaci si perdono quando non sono in grado di creare la continuità amministrativa, per cui divengono una parabola inutile».

E ora? Trovandoti a scegliere, per esempio, tra Antonio Bassolino, Gianni Lettieri, Luigi De Magistris e un candidato grillino?

«Il candidato grillino non lo vedo, non c’è. La volta scorsa votai al secondo turno per De Magistris, sbagliando. Pensavo ci fosse, in quel particolare momento storico, la necessità di voltare pagina; ma non avevo tenuto conto degli oggettivi limiti caratteriali del personaggio De Magistris: borioso, senza capacità di fare squadra, avverso a tutti con danno per la Città. Non so, avrei difficoltà: perché do atto a Lettieri di aver svolto, cosa rara, il suo compito di oppositore molto bene. Ma è un candidato sindaco senza schieramento».

Alle ultime regionali chi hai votato, se posso chiedere?

«Stefano Caldoro, aveva governato abbastanza bene. Ma non posso dire che De Luca non mi piaccia: trovo sia uno molto pratico, probabilmente quel che ci vuole per una Regione come la Campania».

Ti piacciono i leader carismatici, forti, gli uomini soli al comando…

«No, mi piacciono le persone che prendono decisioni e realizzano. Non mi piacciono coloro che non sono in grado di creare un gruppo intorno a sé: si può essere carismatici quanto vuoi, ma se non riesci a fare questo…tu vai via e il palazzo crolla…».

Com’è accaduto con Berlusconi.

«Più o meno. Si».

Qual è l’angolo, lo scorcio della tua città – parlo di Pomigliano – che ti emoziona di più?

«Il tratto di via Terracciano vicino casa mia. Alle spalle del palazzo c’era il mio vecchio liceo, l’Imbriani. Passandoci rivivo quei giorni da studente. Conosco quella zona pietra per pietra».

Che studente eri?

«Non un secchione; facevo quel che bastava per “stare in zona Uefa”. Non ci tenevo ad essere il primo della classe, ma studiavo e c’erano materie che amavo. Ho avuto professori molto bravi come il compianto D’Onofrio, docente di intelligenza incredibile che aveva trovato nella nostra classe persone che lo facevo divertire, pur se non studiosissime. Si rendeva conto che poteva interloquire con noi perché eravamo innanzitutto bravi ragazzi e sapevamo anche prendere in giro un professore senza mancargli di rispetto. Gli davamo soddisfazione».

Ci siamo ripromessi di non parlare della politica pomiglianese attuale, ma una domanda te la faccio: se dovessi scegliere uno o più giovani, di centrosinistra, di centrodestra, magari anche un grillino se vuoi, che abbiano secondo te i numeri per fare strada in politica?

«Premesso che non sempre i più bravi riescono a fare carriera, non ho difficoltà a far nomi. Nel centrodestra direi sicuramente Pasquale Sanseverino se, nel ventaglio di possibilità che ha davanti a sé, volesse scegliere la strada della politica: la buona stoffa non basta per fare buone cravatte, bisogna lavorarla. Nel centrosinistra trovo che abbia indubbie qualità e la dovuta ambizione Michele Tufano, bisognerà poi capire se avrà abbastanza ambizione per andare avanti senza farsene sopraffare; ma deve smettere di fare il “figlio del partito” e diventare “il figlio della città”. Nel Movimento 5 Stelle trovo interessante Valeria Ciarambino: se avessero candidato lei quale sindaco, i grillini sarebbero probabilmente andati oltre l’elettorato di setta».

Il politico del passato o del presente che ha più influenzato la tua crescita umana, civile, sociale e politica?

«Non riesco a fare un solo nome».

Fai tutti i nomi che vuoi.

«Direi John Fitzgerald Kennedy, per la capacità di visione, di creare entusiasmo nella sua generazione, di suscitare emozioni. Per la capacità di comunicare una idealità forse anche maggiore di quella che aveva, perché era un politico scafato e c’è ancora oggi chi guarda a lui come riferimento. Hanno influito sulla mia formazione anche Alcide De Gasperi e Aldo Moro, per l’umiltà e per il senso del dovere. Il primo Ciriaco De Mita, inoltre, portava dentro di sé i germi dell’idea di un grande partito, di centrodestra azzarderei. Le cose sono poi andate diversamente perché la politica è così: la Dc è sparita perché non ha voluto diventare il partito di centrodestra della nazione. Ha sacrificato, o meglio i dirigenti della Dc hanno sacrificato, distrutto, il partito per salvare sé stessi. Laddove sarebbe invece stato opportuno salvare il partito cambiando la classe politica. Quel che ha fatto Renzi, in pratica. Se oggi non ci fosse lui il Pd avrebbe percentuali nettamente inferiori. E ritengo che nonostante le difficoltà avrà in futuro un grosso successo: perché avrà comunque dimostrato di saper individuare delle soluzioni per il Paese che possano essere condivise e condivisibili anche da chi non è di sinistra».

C’è una scelta di Renzi, da segretario Pd o da Presidente del Consiglio che non hai condiviso?

«Sì, ma non credo potesse far altro. Io avrei abolito definitivamente il Senato. Il sistema bicamerale, così com’è ora quello italiano, non fa parte dei tempi moderni. Il Parlamento non riesce a seguire i ritmi della società, occorrerebbe maggiore velocità, bisognerebbe evitare lungaggini assurde con le Camere che si rimpallano le scelte. Basterebbe una sola Camera, come in Francia. Noi italiani ci mettiamo già abbastanza tempo a prendere le decisioni, le due Camere fanno il resto palleggiandosi le responsabilità l’una con l’altra. Un giorno tutto ciò sarà superato. Ma capisco che al momento fosse difficile chiedere ai “tacchini” di “votare per il Natale”: se Renzi fosse andato in Parlamento a chiedere di abolire il Senato lo avrebbero lapidato seduta stante».

Presidente del Consiglio a parte, ci sono altri politici italiani, uomini o donne, che trovi interessanti?

«Maria Elena Boschi sta dimostrando di essere più intelligente che bella. Poi c’è il concittadino pomiglianese, il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, che in questo momento ha gioco facile perché è l’unico che riesca a dire cose sensate in un movimento in cui quasi nessuno ci riesce. È un fortunato, il che in politica non guasta mai. Un po’ furbetto, anche. Ma prima o poi nella vita si capisce se uno è solo furbo o anche bravo. Il tempo dirà quale delle sue caratteristiche prevale».

Il libro che ti ha più segnato?

«L’amico ritrovato, di Fred Uhlman. È la storia di un’amicizia tra un aristocratico tedesco e un giovane ebreo. Un legame che si rompe con l’avvento di Hitler. Dopo quarant’anni l’ebreo torna in Germania pensando ancora di essere stato tradito dal suo amico: invece scopre che era stato fucilato per aver partecipato al complotto contro il Führer».

Ecco, cos’è l’amicizia?

«Un sentimento fondamentale, per quel che mi riguarda equivalente all’amore. È la consapevolezza di potersi affidare completamente a qualcun altro».

Tu ne hai di persone alle quali sai di poterti affidare?

«Sì, penso di averne. Ne posso contare, credo, almeno quattro».

E l’amore? Un single quarantaseienne come te l’avrà trascurato…

«C’è sempre speranza».

Ma il fatto che sia ancora single, scusa se insisto, è colpa delle donne o tua?

«Ovviamente mia».

Stai troppo bene da solo?

«Posso soltanto citare Alberto Sordi: che faccio, a quest’età mi metto un’estranea in casa?».

Ma se dovessi descrivermi la tua donna ideale?

«Hai presente la giovane Sophia Loren nel film “Pane amore e gelosia” quando canta “Mambo Italiano”? Ecco, quello è il massimo dell’erotismo, della sensualità e della bellezza che mi sia mai capitato di vedere».

Insomma, di poche pretese. A proposito di cinema, quali film consideri capisaldi della cinematografia?

«Il Padrino, la prima e la seconda parte. Il terzo film ometto di considerarlo. Mario Puzo fa un affresco non della malavita ma dell’uomo di potere. Invece, il film che mi crea più emozioni in assoluto anche se lo riguardo mille volte è “L’Attimo Fuggente” con Robin Williams: posso citarti a memoria battute e interi dialoghi. Poi, una serie di film della commedia all’italiana che sono sì capisaldi, della cinematografia ma anche della formazione adolescenziale mia e di alcuni miei amici…».

Scommetto che stai per citarmi «Amici miei» di Monicelli.

«Scommetti bene. Ma anche “Così parlò Bellavista”, alcuni dei film di Totò come “Miseria e Nobiltà” …».

Torniamo ad «Amici Miei»: se dovessi identificarti in uno dei personaggi?

«Nel gruppo degli amici di sempre ero il Sassaroli».

Alfeo Sassaroli, il medico interpretato da Adolfo Celi. Per motivi professionali?

«Sì, ovviamente. Ma anche per quel pizzico di aria distaccata e apparente cinismo. So bene di apparire più freddo di quanto sia in realtà, come ben sa chi mi conosce al di là della corazza».

Quando è che un uomo si può dire affascinante, per te? Fammi un esempio.

«Sono legato a criteri relativi alla classicità greca, per cui dovrei dire probabilmente Brad Pitt, personaggio perfetto per il ruolo di Achille. Ma oggi in giro trovi uomini che si acconciano ormai più delle donne…».

E tu?

«Io mi difendo dagli insulti del tempo».

Tra i luoghi che hai visitato, qual è quello che ti è piaciuto di più?

«Io viaggio molto, mi piace. Secondo me quando resti troppo tempo in un luogo finisci per abituarti, non vedi più le cose, è come se diventassi cieco. Dunque viaggio per non diventare cieco. Mi affascinano le isole piccole, non quelle enormi e caciarone. Stromboli, per esempio, è un luogo incredibile, con un’energia che arriva dal vulcano: la si sente, la si avverte interagire con la propria. Trovo bellissima anche Mikonos: una Capri greca senza i capresi».

Dov’è che invece vorresti andare?

«A Cuba. Vorrei vederla prima che sia modificata dalla fine della dittatura dei Castro. Chiariamo, spero che questo avvenga il prima possibile: ma immagino che nel giro di qualche anno troveremo anche lì pizzerie “da Ciro”, ristoranti sushi, venditori di kebab. Mi piacerebbe viverla ancora incontaminata. Vorrei però vedere anche Israele, un luogo che mi ha sempre tentato con un popolo che ammiro tantissimo, eppure non ci sono ancora andato».

Sei cattolico, ma anche praticante?

«Non abbastanza: sono un peccatore e come tale…».

Il tuo peccato preferito?

«Ce ne sono due o tre che trovo particolarmente interessanti».

Scommettiamo che ne indovino almeno due? Propenderei per Gola e Lussuria. Mi dici il terzo?

«Scommessa vinta. Il terzo è la Superbia. Riuscire a dimostrare superiorità “intellettuale”, con le dovute virgolette, rispetto a chi mostra invece una superbia che di intellettuale non ha nulla».

Ci riesci?

«Ci lavoro parecchio.».

Lavori per perfezionare il peccato. Ma cos’è che invece non faresti mai nella vita?

«Non accetterei mai una vita che non sia la mia. Non mi obbligherei mai a fare cose che non mi piacciono. Non ci riesco e si vede».

La libertà come componente essenziale della tua personalità.

«Sì».

Non accetteresti mai lacci di alcun genere.

«Sì ma questo diventa anche un limite. Ad un certo punto devi pur scendere a compromessi con il mondo che ti circonda. Però mi tengo la libertà finché posso permettermela».

Sei fortunato.

«Sì, lo sono. Ringraziando Dio e i mei genitori».

Qual è la cosa più importante che ti ha insegnato tuo padre?

«Il senso del dovere. Prima il dovere e poi il piacere. Con il tempo ne ho dato una mia interpretazione: prima il dovere e, appena possibile, il piacere».

Hai un nipote, figlio di tuo fratello Fabrizio. Un figlio tuo ti piacerebbe? 

«Un momento in cui ho avuto desiderio di paternità c’è stato. Ma francamente ho deciso di godermi i figli degli altri lasciando a loro le incombenze negative. Mio nipote Pasquale ha otto anni, appena avrà un minimo di autonomia maggiore ho intenzione di metterlo nelle condizioni di fare con me delle esperienze di viaggi e conoscenze. Del resto abbiamo affinità palesi, da alcuni gusti cinematografici alla passione per i soldatini. Cercherò, questo sì, di tenerlo lontano dall’interesse per la politica e vorrò portarlo a vedere un po’ di musei in giro per il mondo».

Al papà è demandata invece, da tifoso sfegatato, l’educazione sportiva?

«Esattamente».

Tu sei tifoso?

«Ovviamente del Napoli, ma se mi perdo una partita non è la fine del mondo».

Fai sport?

«Mi ci obbligo. Corro, per lo più».

Vivi da solo. Sai cucinare?

«Poco, pranzo quasi sempre fuori e la cena, a meno che non abbia ospiti – e in quel caso sono in grado di improvvisare – la salto. Preferisco rinunciare alle calorie inutili».

Lavoro, politica, amici. Un hobby?

«La mia vita è un hobby».

Scegli un proverbio o un motto, un aforisma, un modo di dire, che senti particolarmente tuo?

«Una bellissima frase di Sant’Agostino: “Poiché il mio cuore non poté sfuggire al mio cuore, né io potei sfuggire a me stesso; perché ovunque corressi, mi sarei corso appresso”».

Lo slogan più bello che hai creato per una campagna elettorale? Il più efficace?

«Il prossimo».

Vuol dire che ci stai già pensando?

«No, diciamola così: quando ho accettato di coordinare l’ultima campagna elettorale per le amministrative di Pomigliano d’Arco mi sono messo al lavoro per individuare qualcosa di calzante. Un pomeriggio, ero seduto ad un tavolino della Feltrinelli di Napoli, con davanti un foglio bianco. Scrissi “Pomigliano”, scrissi “Migliora” e mi venne in mente “Pomigliora” e “Po’ Migliorà”. Mandai un messaggio a quattro amici, i soliti con i quali mi confronto. Aggiunsi al messaggio una domanda: “è una genialata o una cazzata?”  Tutti e quattro mi risposero: “è una cazzata”. Ma il giorno dopo, ancora tutti e quattro, mi mandarono un messaggio dicendo che quel “Pomigliora” non riuscivano a levarselo dalla testa. A quel punto era scelta fatta: è questo lo scopo di uno slogan».

La musica? Immagino che non ascolterai solo Battiato. Scegli tre canzoni.

«Una di Battiato no?»

Come vuoi…

«”Gli Uccelli”di Battiato, secondo me, è musica classica. “Avrai” di Claudio Baglioni e “Imagine” di John Lennon».

L’opera d’arte più bella che tu abbia mai visto?

«Il Cristo Velato, nella Cappella di Sansevero a Napoli».

Se invece potessi tenere a casa un quadro famoso per guardarlo tutti i giorni a tuo piacimento, quale sceglieresti?

«La rappresentazione della battaglia di Waterloo custodita al British Museum di Londra».

Il tuo più grande difetto?

«L’incostanza».

Il pregio?

«Ho pregi?».

Dimmelo tu.

«La disponibilità, sicuramente».

Per chi ti piacerebbe ricalarti nei panni del Roberto spin doctor? Scegli un politico straniero.

«George Osborne, il ministro dell’Economia inglese, di centrodestra. Sta lavorando aumentando il salario minimo dei lavoratori e tagliando le unghie ai sindacati del pubblico impiego, liberando i cittadini dai disagi degli scioperi nei servizi pubblici. Sarà il prossimo Premier inglese, grazie al suicidio della sinistra Laburista che non ha imparato la grande lezione politica di Tony Blair: Dio acceca coloro che vuole perdere.

 

Ora scegli un politico italiano per il quale organizzeresti volentieri una campagna elettorale.

«Giorgio Gori, ex dirigente Mediaset, renziano della prima ora e attuale primo cittadino di Bergamo. Un talento organizzativo sottoutilizzato come sindaco».

Un politico campano?

«Mi piacerebbe fare campagna elettorale per il giovane sindaco di Ercolano, Ciro Bonajuto. Anche lui renziano della prima ora, coraggioso, abile, comunicativo. Uno dei pochi sindaci che ha capito di dover parlare con l’elettorato anche dopo le elezioni comunicando ciò che si fa giorno per giorno: è il futuro».

Per finire, ti descriveresti con un solo aggettivo?

«Inafferrabile». ​

È un avvertimento?

«Una promessa».

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