AMMINISTRAZIONI E CAMORRA. IL VERO NODO DA SCIOGLIERE

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Per combattere sul serio i camorristi-amministratori occorrono nuove norme, estendendo la confisca dei beni anche ad amministratori, dirigenti e funzionari.
Di Amato Lamberti

La camorra è diventata quasi un genere letterario. Sono ormai diecine i libri dedicati alle “cronache infernali” della criminalità omicida che insanguina i territori della Campania. Sappiamo ormai tutto dei vari Schiavone detto Sandokan, Bidognetti detto Cicciotto “e mezzanotte, Giuseppe Setola, Di Lauro, Zagaria, Mazzarella, Sarno, ecc.,ecc., della loro violenza, della loro efferatezza, del modo in cui esercitano il loro potere, dei loro scontri, delle loro alleanze, delle loro ville, del modo opulento con cui vivono. Molti autori danno quasi l”impressione di essere affascinati da questi eroi del male, eccessivi in ogni loro manifestazione, ributtanti nella loro noncuranza della vita e di ogni regola di convivenza civile.

Ma si tratta pur sempre di delinquenti, organizzati in bande, clan, gruppi criminali, che fanno i delinquenti, cioè si occupano di affari criminali, dalle estorsioni, allo spaccio di droga, al traffico di rifiuti tossici e nocivi, al contrabbando di combustibili e carburanti. Sono feroci, spietati, animaleschi, come sono sempre stati i delinquenti-criminali. Ma la camorra, intesa come associazione mafiosa, è un”altra cosa. Mettere l”etichetta “camorra” ai fatti criminali, significa solo caricare simbolicamente fatti talmente banali, nella loro bestialità, da non meritare alcun alone leggendario.

Così come enfatizzarne la pericolosità e la capacità di colpire chiunque e dovunque significa accreditarli di poteri e capacità che non hanno e che non hanno mai dimostrato. Anche la magistratura dovrebbe cominciare a rivedere il suo registro d”azione. Gli studiosi più seri di questi fenomeni distinguono due livelli di criminalità organizzata, quella “orientata al denaro” e quella “orientata al potere”: la criminalità mafiosa, e, quindi, la camorra, è solo quella “orientata al potere”.

Il mafioso vuole governare, amministrare, decidere; vuole sostituirsi allo Stato impadronendosi dello Stato, a cominciare dalle sue articolazioni locali, i Comuni. Non si può pensare di combattere il disegno mafioso di occupazione dei poteri dello Stato, concentrando l”attenzione sulla delinquenza organizzata che è solo il braccio armato delle organizzazioni mafiose e camorriste. L”analisi dei provvedimenti di scioglimento dei Comuni per condizionamento mafioso, che sto portando avanti con una certa puntigliosità, ha proprio lo scopo di fare vedere come questa occupazione delle amministrazioni locali viene portata avanti dalla camorra, con la complicità anche di coloro che sarebbero chiamati a fare argine, a contrastare questo disegno criminale.

Ci sono realtà del nostro territorio vesuviano nelle quali viene il dubbio che questo processo di sostituzione dello Stato da parte della camorra si sia realizzato e stabilizzato per lungo tempo. Come nel caso di Poggiomarino, il feudo di Pasquale Galasso, sciolto una prima volta, il 30 settembre 1991; una seconda volta, il 4 dicembre 1995; una terza volta, il 9 febbraio 1999. Gli amministratori, dopo i 18 mesi, ogni volta, di commissariamento, restano sempre gli stessi. All”atto dello scioglimento del 1999, gli amministratori tornano ad essere quelli sciolti nel 1991, a testimonianza che il potere, sul territorio, non cambia di mano nonostante gli interventi dello Stato.

Una situazione paradossale che dovrebbe far riflettere, non per giudicare inutili i provvedimenti di scioglimento, ma per introdurre, ad esempio norme che escludano definitivamente dalla vita politica e amministrativa, il personale politico, tecnico e amministrativo delle amministrazioni colpite da provvedimenti di scioglimento; ma anche, l”estensione agli amministratori, dirigenti e funzionari, dei provvedimenti di confisca dei beni illecitamente accumulati che, ad oggi, riguarda solo gli appartenenti alle organizzazioni mafiose. Il problema di fondo è che bisogna spostare l”attenzione dai delinquenti sanguinari ai camorristi-imprenditori e ai camorristi-amministratori che, attraverso il controllo dei Comuni, si mangiano i fondi destinati alla collettività.

Certo sarà più difficile, per giornalisti, scrittori e magistrati, scrivere articoli e romanzi di successo, grondanti di facce lombrosiane e fiotti di sangue, ma, forse, il disegno della camorra, di conquistare la sovranità politica ed economica del territorio, potrà cominciare ad essere arginato.

CITTÁ AL SETACCIO

GLI ADOLESCENTI E LA “CONOSCENZA”

Il tradizionale sistema conoscitivo-comunicativo si concilia bene con la multimedialità. Perciò, è indispensabile che gli educatori conoscano i nuovi linguaggi.

Fin da quando ero adolescente anch”io, ho avuto della conoscenza e della cultura l”immagine di un immenso puzzle poliedrico al quale giorno dopo giorno, mi sono sforzata di aggiungere un particolare “pezzetto” che si è incastonato tra gli altri già in mio possesso: è il percorso che ogni individuo, nel corso della propria vita , in modo svariato, compie.

Un”emozione, una competenza, un”abilità, una parola, un concetto, una competenza, prendono forma in un”immagine che si fa via via più nitida, più chiara, più concreta. Contemporaneamente la nostra capacità di elaborare pensieri sempre più elevati diviene consistente a mano a mano che il nostro “capitale verbale” accresce consentendoci di approdare così ad una evoluzione conoscitiva e culturale che si realizza con velocità esponenziale grazie alla comunicazione.

Comprendiamo ,allora,come l”adolescente di ogni tempo si sia mosso e si muova attraverso l”intricato “labirinto del sapere”, all”interno del quale le strade convergono verso un percorso unitario che può divenire più agevole grazie al fatto che noi, aiutandoli con discrezione ad esplorarne ogni angolo, ne facilitiamo il passaggio, rendendoli capaci di far tesoro di ogni esperienza conoscitiva .
Certamente il ruolo dell”adulto, nell”attuale società dell”immagine, del suono, della comunicazione prevalentemente non verbale, è molto più complesso di un tempo in cui era lui il detentore del sapere e del sistema per veicolare il sapere stesso.

Pertanto, nella veste di educatori , familiari o istituzionali, dobbiamo porci in linea con i nuovi linguaggi per far sì che il giovane possa avvantaggiarsi del nostro supporto e guida per decodificare i messaggi , talvolta subliminali , a lui rivolti.
Ecco quindi che l”alfabetizzazione multimediale diviene non un sistema di accattivarsi l”attenzione egli interessi dell”educando, bensì un” attivazione di un processo di democrazia che renda praticabile la capacità critica e consapevole della costruzione del proprio sapere e di una cittadinanza attiva e partecipata.

È quindi assolutamente conciliabile il tradizionale sistema conoscitivo-comunicativo con la multimedialità; anzi quest “ultima favorisce l”arricchimento culturale e conoscitivo che si concretizza “nella ricerca”, facilitata da sistemi sempre più innovativi e che dura tutta la vita, “del vero sapere”.

L”OSSERVATORIO SUGLI ADOLESCENTI

SANT”ANASTASIA. ORGANIZZIAMO L’URBANISTICA DEL TERRITORIO

Prosegue il dibattito sul Piano urbanistico Comunale promosso dall”Associazione Civica neAnastasis.

L”ORGANIZZAZIONE URBANISTICA DEL TERRITORIO
(Continua da articolo 2)

Generalità sulla pianificazione delle aree per attrezzature, spazi pubblici, rete viaria
Come riportato negli articoli precedenti, l”intensa attività edificatoria degli anni passati ai fini residenziali non è stata accompagnata da una corrispondente urbanizzazione d”aree per l”uso collettivo: istruzione, parcheggi, verde attrezzato, attrezzature per il tempo libero, ecc.
Scopo prioritario del PUC è d”intervenire sul tessuto urbano esistente per conseguire la cosiddetta “autosufficienza funzionale” dei nuclei abitati. Far sì che, all”interno di ciascun centro o, al limite, nelle immediate adiacenze, gli abitanti trovino, oltre la residenza, gli spazi collettivi che consentano loro di vivere pienamente il quartiere, senza doversi sempre spostare altrove per soddisfare ogni loro minima esigenza.

In aree specifiche, invece, vanno ubicate tutte le attrezzature d”interesse comunale o che non trovano posto all”interno dei singoli quartieri.
Analoghe carenze ed insufficienze si riscontrano sull”esistente rete di comunicazione viaria.
Vediamo nel dettaglio queste varie problematiche a partire dalla rete viaria.

Rete di comunicazione viaria
In quest”ambito si riscontrano le maggiori carenze ed insufficienze. A parte le due statali 268 e 162 che sono d”attraversamento del territorio comunale, la circolazione all”interno è ancora accentrata sui tre assi viari di Via D”Auria-Via Arco, Via Pomigliano, Via Romani.
Vediamo le possibili soluzioni a cominciare da Via Pomigliano. È indubbio che quest”arteria avrebbe bisogno di un raddoppio della carreggiata, cosa non realizzabile perchè in diversi tratti costeggia edifici residenziali. Bisognerà limitarsi ad una sostanziale ristrutturazione con la realizzazione di rotatorie in corrispondenza degli incroci, di marciapiedi e di slarghi per la sosta temporanea degli autoveicoli.

Naturalmente questi provvedimenti miglioreranno l”attuale situazione, ma di certo non saranno risolutivi. È indispensabile costruire una nuova arteria per collegare Sant”Anastasia Centro con il quartiere Starza ed il territorio di Pomigliano, superando gli attuali ostacoli costituiti dalla ferrovia Circumvesuviana, la statale 268 e la ferrovia ad alta velocità.
La strada dovrebbe iniziare da Via Somma, giungere sino a Via Rosanea, innestarsi su Via Del Pruneto, che va potenziata con adeguato allargamento della sede, e giungere nel territorio di Pomigliano in prossimità degli svincoli autostradali.

Rimaniamo nel quartiere Starza e prendiamo ora in esame l”arteria principale che l”attraversa, costituita da Via Rosanea. Strada senza marciapiedi, con molti edifici ai margini della strada e con un difficile accesso da Via Pomigliano. Anche in questo caso, oltre alla solita ristrutturazione, risulta necessaria la costruzione di una nuova arteria che si sviluppi da Via Pomigliano, prospiciente la Chiesa di Ponte di Ferro, sino a Via del Pruneto, costituendo in tal modo con Via Rosanea un anello intorno al quartiere.
Passiamo a Via D”Auria-Via Arco. Occorre anche qui la costruzione di una strada parallela che consente di bypassare il Santuario di Madonna dell”Arco e crearvi intorno un”isola chiusa al traffico veicolare. Allo scopo va prolungata Via E. Merone (ex Circumvallazione) sino a Via Romani.

Per quanto riguarda Via Romani, è opportuno rettificare il primo tratto a partire dalla Piazza Madonna dell”Arco sino all”incrocio con il prolungamento previsto di Via Merone, alfine d”eliminare la doppia curva esistente e distanziare il traffico veicolare dal Santuario. La qual cosa era già prevista dal Piano di Fabbricazione e confermata dal vigente Piano Regolatore e mai attuata. Ovviamente dovrà essere spostato il parco gioco esistente. Indispensabile, poi, la solita robusta manutenzione.
(Continua al prossimo articolo) PER APPROFONDIMENTI

neAnastasis
Associazione Civica

Di seguito, gli articoli correlati:

L”avvio del confronto
Il secondo contributo

“DAL CAOS VIENE FUORI IL FASCISMO”

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Il dopoguerra si caratterizza per la grande confusione sociale. La classe operaia rivendica diritti; borghesi, militari e agrari puntano su “ordine e disciplina”. Ed ecco che viene fuori il fascismo.
Di Ciro Raia

Passato l”entusiasmo provocato dalla guerra; superati i lutti delle perdite in uomini e sostanze; sopravvissuta alla tremenda epidemia della “spagnola”, la febbre che miete decine di migliaia di vittime tra il 1919 ed il 1920, l”Italia si accorge, con amarezza e delusione, di essere un paese povero e in ginocchio.

Le industrie belliche non prosperano più e gli operai sono licenziati. In altri opifici, invece, il licenziamento tocca solo alle donne: devono far posto agli uomini tornati dalla guerra. I contadini, invece, non avendo avuto assegnate le terre loro promesse, devono tornare a lavorare per gli antichi padroni. I negozianti offrono inutilmente le loro merci: la miseria non consente nemmeno l”acquisto di generi di prima necessità. Un chilo di pane costa 2 lire! Per vivere dignitosamente, una famiglia ha bisogno di spendere 180 lire al mese; ma il guadagno medio a famiglia è di solo 120 lire al mese. Come fare?

L”unica forma di protesta possibile da opporre ad una situazione simile, sembra lo sciopero. Così si decide di fermare i trasporti e le poste, di occupare le fabbriche, i cantieri navali, le officine metallurgiche. L”Italia è, così, attraversata da una ventata rivoluzionaria soffiata dal movimento operaio. Arrivano anche alcune conquiste come l”aumento della paga, del 10-12%, ai metallurgici o il pagamento delle giornate di occupazione delle fabbriche; ma questi pochi miglioramenti riconosciuti agli operai inducono gli industriali e la borghesia a guardare con sempre maggiore favore al movimento fascista, che con veemenza comincia ad opporsi alle azioni di protesta della classe operaia (nella foto un gruppo di picchiatori fascisti).

Il primo ministro in carica, Francesco Saverio Nitti, non riesce a raddrizzare le sorti del paese. Nella confusione più totale egli ha ottenuto solo l”approvazione di una legge, che cambia il sistema elettorale dall”uninominale al proporzionale. Le dimissioni di Nitti sono, perciò, inevitabili. A succedergli è chiamato di nuovo Giolitti, che costituisce il suo quinto ministero. A comporlo sono chiamati eminenti rappresentanti di tutti i partiti costituzionali, tra cui il conte Carlo Sforza agli Esteri, il filosofo Benedetto Croce alla Pubblica Istruzione ed Ivanoe Bonomi al Ministero della Guerra.
Il nuovo governo Giolitti, che fa approvare subito l”abolizione del prezzo politico del pane, dura in carica circa un anno, dal giugno 1920 al luglio del 1921. Un tempo breve in cui si assiste a delle svolte epocali: la FIAT annuncia il licenziamento di 1.500 operai e la riduzione dell”orario settimanale di lavoro; alcuni stabilimenti, occupati dai licenziati, sono immediatamente chiusi; a Livorno (gennaio 1921) nasce il Partito Comunista d”Italia. A volere la nuova formazione sono Antonio Gramsci, Umberto Terracini ed Amadeo Bordiga, che, nel corso del XVII congresso del Partito Socialista, si staccano dall”ala riformista socialista di Filippo Turati e Giacinto Menotti Serrati.

Il movimento fascista, intanto, diventa sempre più massiccio, pericoloso e violento; cominciano, infatti, a non contarsi più le aggressioni ai danni degli operai e di quanti non condividono le idee dei seguaci di Mussolini, siano essi anche donne, anziani o preti. A questo punto, perciò, Giolitti ritiene che la composizione politica della Camera non rispecchia il vero volto del paese. È necessario –secondo il capo del governo- andare alle urne; non senza aver favorito, però, un”alleanza tra i liberali ed i fascisti, utile, nelle intenzioni del primo ministro, a ridimensionare i partiti della sinistra.

Le nuove elezioni si tengono il 15 maggio 1921. I liberali conquistano 265 seggi, i popolari 108, i socialisti 123, i comunisti 15. Ma bisogna contare anche i seggi della destra: 35 al movimento di Mussolini e 10 ai nazionalisti.
Il paese è, a questo punto, ingovernabile. Lo squadrismo viene legittimato; gli accordi di lavoro ed i miglioramenti conquistati dagli operai vengono ignorati; militari, agrari e borghesi sentono di poter alzare la voce. Il fascismo si trasforma da movimento a partito. Nel mese di ottobre 1921 nasce il Partito Nazionale Fascista, con oltre 200.000 iscritti.

Giolitti si dimette. Al suo posto è chiamato il social-riformista Ivanoe Bonomi. Ora il tempo dello statista piemontese è definitivamente tramontato. Anzi, a seppellire la sua era, concorre anche la nascita dell”Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, voluta dal francescano Agostino Gemelli e nata per “elaborare una cultura cattolica da contrapporre a quella laica: formare dei soldati di un”Idea per il trionfo del regno di Cristo”.

IL 25 APRILE. STORIA E MEMORIA

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Gli attuali politici se parteciperanno all”evento sarà solo per opportunismo. Chiediamoci cosa sarà quando anche l”ultimo partigiano scomparirà. Spetterà alla Scuola parlare di Liberazione e Resistenza.
Di Raffaele Scarpone

Caro Direttore,
dopodomani è il 25 aprile, una data particolare, storica, simbolica, ricca di fascino e di speranze per chi ha lottato –pagando anche con la vita- per restituire la libertà agli Italiani, per chi ha creduto in una patria finalmente libera, democratica ed antifascista. Pensa al sacrificio dei tanti giovani caduti in nome di un ideale, di un valore. Pensa alle ingiurie ed alle violenze subite dai tantissimi antifascisti, ai lutti portati nei cuori e nella mente, oltre che negli abiti. Poi, un radioso giorno di aprile del 1945 l”Italia –la patria- è libera dai soprusi, dalle armi, dal rancore, dalle ideologie totalitarie.

Natalia Ginzburg, nella prefazione al testo di G. Falasca, “Letteratura partigiana in Italia” (Editori Riuniti, 1984), scrive: “Le parole patria e Italia che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola, perchè sempre accompagnate dall”aggettivo “fascista”, ci apparvero d”un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta”. Sai, direttore, in tempi lontani, quando a scuola mi assegnavano il solito tema “In quale epoca storica ti sarebbe piaciuto vivere”, io scrivevo sempre che mi sarebbe piaciuto vivere nell”Italia partigiana, tra quei coraggiosi che lottarono, morirono, si sacrificarono, donarono se stessi ed i propri affetti in nome della parola “libertà!”.

Oggi, in verità, mi chiedo sempre più spesso quale valore ha la data del 25 aprile! Se cade vicino alla domenica, è utile per fare un ponte, per andare in vacanza; se cade in mezzo alla settimana, serve per riposare o riprendere un hobby; se cade di domenica, che sfortuna!, si è perso un giorno di festa! Caro direttore, ho la sensazione –o quasi la certezza- che la data simbolo della Liberazione, l”apice della Resistenza sia, forse, troppo distante –cronologicamente- dalle nuove generazioni, specie se, nelle famiglie, per ragioni di età, viene a mancare la trasmissione diretta dell”esperienza di chi ha vissuto quegli epici giorni di rinascita, di resurrezione, di rifioritura per un intero popolo.

Sai, i grandi saggi, che siedono al governo, vogliono mettere le mani sui testi scolastici e tentano di cambiare il senso della storia. I grandi saggi, in effetti, sotto l”etichetta del revisionismo storico, cercano di far passare il concetto ambiguo di “memoria condivisa”, un artificio per dire che i morti sono tutti uguali (sia quelli che caddero per difendere la libertà di tutti che quelli che morirono per negarla a tutti!) e tante altre corbellerie simili! Pensa che con questa convinzione (il ricordo di parte) il nostro attuale capo di governo non sa ancora se partecipa alle manifestazioni pubbliche per il giorno della Liberazione (ieri era orientato verso il sì; oggi chissà, comunque è poco convinto)!

Negli anni precedenti, le volte in cui ha ricoperto la stessa carica di capo del governo, non ha mai preso parte a nessuna cerimonia pubblica: si sentiva e si sente troppo parte in causa, troppo vicino al suo vate ispiratore, a un signore che tutto può, che tutto controlla, che tutto compra, a cui tutto è concesso, che si fa fotografare tra terremotati e tra i grandi del mondo, tra le soubrette e i nani patologici. E pensa che, non più tardi di qualche anno fa, lo stesso capo di governo andava in giro raccontando che gli antifascisti non erano stati mandati in esilio da Mussolini: erano stati mandati in villeggiatura, beati loro! Ed anche l”attuale presidente della Camera dei deputati, negli anni scorsi, da segretario politico di A.N., pur avendo chiesto scusa agli Ebrei, non ha mai partecipato alle celebrazioni pubbliche per il giorno simbolo della Liberazione!

Caro direttore, tu pensa cosa succederà quando sarà, purtroppo, scomparso l”ultimo testimone: non si parlerà più di Liberazione, di Resistenza, di partigiani? Credo che la scuola –in assenza di partiti politici senza storia e senza memoria- debba farsi carico di questa responsabilità ed eredità, proponendo un insegnamento senza revisionismi, fornendo strumenti logici (capacità di analisi, di sintesi, di critica), offrendo testi di grande spessore culturale. Altro che scuola-azienda!
Non ci si può chiudere nel proprio privato. Le responsabilità sono di tutti, nel bene e nel male; il popolo, le masse fanno la storia, non solo i capi, i duci (“Tebe dalle sette porte, chi la costruì?/ Ci sono i nomi dei re, dentro i libri./ Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?[:]”, B. Brecht [Poesie e Canzoni]).

Caro direttore, so che questa settimana non ho molto guardato ad una realtà, come dire, più territoriale. Ma ho scritto con i sentimenti che mi bollivano dentro. Tu, come sempre, hai potere di vita e di morte (si fa per dire) sui tuoi collaboratori: è la legge del padrone! Per cui, volendo, puoi anche decidere di farmi saltare la rubrica settimanale. Se, in stato di grazia, decidessi, invece, di essere indulgente nei miei confronti, allora mi piacerebbe ricordare –a te e a chi, eventualmente, ancora mi legge- queste poche righe di Giuseppe Salmoirago, un commerciante novarese di 41 anni, fucilato, senza processo dai tedeschi, il 15 ottobre del 1944, a Vico Canavese: “Cara moglie e bambine, non piangete e siate orgogliose del vostro caro marito e padre, a 18 anni feci diciotto mesi di carcere, e ora a 41 dò la vita mia per il mio ideale e per la libertà della nostra patria [:]” (Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, 1973).

AVVISO AI CANDIDATI ALLE PROSSIME ELEZIONI

La politica va intesa come dovere morale e atto di amore. Un consiglio: seguite alcuni pensieri di don Luigi Sturzo, che non ha mai considerato la politica come una cosa sporca.
Di Don Aniello Tortora

Nel 2009 ricorrono il cinquantenario della morte di Luigi Sturzo (1871-1959) e il novantesimo anniversario della fondazione del Partito Popolare.
E questa settimana, carissimi lettori, vorrei intrattenermi un po” con voi su questa grande figura di prete e di persona attenta alle dinamiche politiche e sociali.
Ho l”impressione che tutti, oggi, si ispirino a don Sturzo, se ne approprino quasi della sua personalità, del suo profondissimo pensiero, ma pochissimi applicano i suoi principi morali nella prassi politico-amministrativa.

Don Luigi Sturzo ha avuto una concezione profondamente morale della politica, ha vissuto una spiritualità incarnata nel contesto sociale del suo tempo e ha esercitato la sua carità pastorale attraverso un impegno culturale, sociale e politico di ampio respiro.
Di fronte alla cruda realtà della corruzione nella vita pubblica e alla separazione tra morale e politica, don Sturzo non si rifugia in sacrestia, non considera la politica tout court una “cosa sporca”, non ha paura di frequentare le strade, le piazze, i municipi e i ministeri, ma si impegna, rischiando di persona, per dare speranza al popolo umiliato e offeso attraverso una profonda riforma morale fondata sull”educazione delle nuove generazioni ai principi cristiani della giustizia e dell”amore.

Sia la politica che l”economia per Sturzo sono intrinsecamente sociali, perciò razionali e morali.
Il fine della politica consiste nel bene comune, che per essere a vantaggio di tutti non può prescindere dal bene morale.
Sturzo afferma l”assolutezza dei valori morali ma insiste anche sulla impoliticità della immoralità politica. Per lui l”economia e la politica, senza morale, sono sempre antieconomiche ed impolitiche.
Per Sturzo non esiste il dilemma fra l”utile e il bene, perchè quando l”utile è veramente l”utile di tutti, esso coincide con il bene di tutti, cioè con il bene comune.
Nella concezione cristiana vanno coniugati insieme autorità e libertà, giustizia e carità, anzi la carità diviene il cardine della vita morale e quindi anche della vita politica.

Luigi Sturzo sentì come una sua missione quella di introdurre la carità nella vita pubblica nella convinzione che la carità cristiana non può ridursi solo alla beneficenza o all”assistenza ma deve essere l”anima della riforma della moderna società democratica nella quale le persone sono chiamate a partecipare responsabilmente alla vita sociale per realizzare il bene comune.
I principali punti cardini dell”antropologia sociale sturziana sono il primato della persona sulla società, della società sullo Stato e della morale sulla politica, la centralità della famiglia, la difesa della proprietà con la sua funzione sociale come esigenza di libertà, l”importanza del lavoro come diritto e dovere di ogni uomo, la costruzione di una pace giusta attraverso la creazione di una vera comunità internazionale.

Voglio riportare qui, di seguito, alcuni pensieri di don Sturzo. Penso proprio che sono attualissimi:
– “Non è di tutti saper fare della politica, ma di coloro che ne sono dotati. Come ogni arte anche la politica ha i suoi grandi artefici e i suoi artigiani; naturalmente vi saranno anche dei mestieranti; il pubblico sceglie i suoi beniamini anche fra i mestieranti”.
– “È primo canone dell”arte politica essere franco e fuggire l”infingimento; promettere poco e mantenere quel che si è promesso”.
– “Si crede che la menzogna sia un obbligo in politica; non è così. La menzogna viene sempre a galla; a parte la sua natura immorale, ritorna più a danno che ad utile”.

– “È più facile dal no arrivare al sì, che dal sì retrocedere al no. Saggio consiglio è non impegnarsi senza avere riflettuto a tempo ed avere formata la convinzione di poter mantenere l”impegno preso”.
– “Non ti circondare di adulatori. L”adulazione fa male all”anima, eccita la vanità e altera la visione della realtà. Rigetta fin dal primo momento che sei al potere ogni proposta che tenda alla inosservanza della legge per presunto vantaggio politico”.
– “È meglio tenere lontano i parenti dalla sfera degli affari statali; anche senza volerlo compromettono sempre. Se poi entrano nella sfera dei collaboratori facilmente abusano della parentela. Il nepotismo è sempre dannoso”.

– “Chi è troppo attaccato al denaro non faccia l”uomo politico nè aspìri a posti di governo. L”amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai propri doveri”.
– “Fare ogni sera l”esame di coscienza è buon sistema anche per l”uomo politico”.

Mi fermo qui. Ne abbiamo di materiale per poter tutti riflettere. Particolarmente i candidati alla prossima tornata elettorale hanno il dovere morale di meditare seriamente. È in gioco il bene comune, che è “di tutti e di ciascuno”.
Buona settimana a tutti.

UOMINI RANDAGI CHE AMMAZZANO COME CANI FEROCI

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L”omicidio di Franco Ambrosio e della moglie deve farci comprendere che in Italia vanno in giro branchi di uomini randagi fuori da ogni contesto e pronti a diventare feroci.
Di Amato Lamberti

Non sembri un accostamento paradossale, ma il massacro a sprangate dei coniugi Ambrosio nella loro villa di Posillipo, appreso alle prime luci dell”alba, mi ha immediatamente riportato alla mente il massacro a morsi, sul prato dei suoi giochi, del povero bambino siciliano ad opera di un branco di cani randagi. Anche gli uomini, come i cani, possono inselvatichirsi, ridursi alla condizione di predatori, che sanno solo assalire, violentare, uccidere per soddisfare le esigenze istintuali più elementari, senza avere più la capacità di mediarle con le regole anche minime del vivere sociale.

Ridotto allo stato di natura, come accade anche durante le guerre, l”uomo ridiventa una bestia feroce, irrazionale, incapace di tenere a freno gli istinti aggressivi che ne guidano e orientano la lotta per la sopravvivenza. Il male non è mai banale, casuale, immotivato, senza ragioni. La lezione della Arendt è ben più profonda delle banalizzazioni correnti: anche le società, sostiene la studiosa tedesca, possono regredire allo stato primitivo, dove l”altro è ridotto a nemico e, quindi, a preda da aggredire e distruggere prima che possa farlo lui, magari in maniera subdola e diluita nel tempo.
La nostra società non si trova nelle condizioni morali e sociali in cui il nazismo aveva ridotto la società tedesca.

Piuttosto siamo nelle condizioni che tanti cronisti e letterati medioevali descrivevano parlando del loro tempo: una condizione egualmente pericolosa ma di cui facciamo fatica a prendere coscienza. Un fenomeno dagli esiti disastrosi, finora sottovalutato se non ignorato, sta crescendo sotto i nostri occhi senza che siamo ancora capaci di vederlo: branchi di uomini randagi si aggirano per l”Italia, ci passano continuamente accanto, sostano nelle nostre strade, nelle nostre piazze, ci chiedono l”elemosina, un pezzo di pane, un lavoro qualsiasi, o si limitano a guardarci, magari sdraiati per terra, ma non ci interessa nemmeno penetrare nella profondità di quegli sguardi. Vengono da tutti i paesi del mondo, vengono dall”Europa dell”Est, dal centro-Africa, dall”estremo Oriente, da paesi dove già, in molti casi, la vita civile era regredita alla lotta primitiva per la sopravvivenza.

Questi branchi di uomini, sradicati da un contesto di relazioni primarie e familiari che comunque ne controllava e governava la socialità, ridotti alla condizione di randagi che elemosinano la sopravvivenza, scacciati ed emarginati in discariche di rifiuti umani accatastati tal quale, che ne possono alimentare solo l”aggressività, inselvatichiscono e diventano feroci. Due sole strade abbiamo davanti per far fronte ad un fenomeno che è cresciuto senza che fossimo capaci di accorgercene: le aggressioni in villa le avevamo già registrate al Nord Italia, in Veneto e Lombardia, ma a Napoli ci hanno colto come di sorpresa, quasi che da noi per oscure ragioni certe cose non potessero accadere.

Due strade: la prima è quella di raccogliere i randagi , chiuderli da qualche parte, come una discarica- galera, da cui non potranno più uscire, ma ci troveremmo costretti a costruire sempre nuove discariche-galera fino a che non sapremo più dove metterli. Certo potremmo anche macellarli subito, come pure qualcuno sostiene, ma ce lo vieta la nostra cultura giuridica, oltre che il senso morale: la seconda, più razionale e per questo più difficile, è quella di non lasciarli randagi per strada e abbandonarli nelle discariche; favorirne l”integrazione, anche attraverso una politica seria di regolazione degli ingressi, e il raggiungimento rapido dei diritti di cittadinanza, dandogli un lavoro e una casa, dandogli dignità e diritti, per rendere anche credibile la richiesta, senza nessuna deroga, dell”osservanza dei doveri che la convivenza civile impone.

SANT”ANASTASIA. PUC: CONTINUA IL DIBATTITO

Con questo secondo articolo, l”Associazione Civica neAnastasis continua a sollecitare il confronto sul Piano Urbanistico Comunale, offrendo idee e indicazioni.

ORGANIZZAZIONE URBANISTICA DEL TERRITORIO
(Continua da articolo N. 1)

EDILIZIA RESIDENZIALE
Molta intensa è stata l”attività edilizia a scopo residenziale nei decenni trascorsi. Ad oggi i vani abitativi esistenti si stimano a 36.000 circa, il che significa 1,3 vani per abitante.
Questa consistente attività è stata realizzata in applicazione del vecchio Piano di Fabbricazione e per effetto dell”abusivismo edilizio. Poco ha influito l”attuale Piano Regolatore. Confrontando l”edificato con quanto previsto dal Piano di Fabbricazione abbiamo stimato che 8000 vani siano stati realizzati abusivamente.

Il risultato pratico di quest”attività è che, tra edilizia residenziale legale, abusiva e quella di tipo economico e popolare (anche questa abbastanza cospicua), è stata data la possibilità agli Anastasiani di soddisfare ampiamente le proprie esigenze abitative.
Con l”avvento della legge regionale 21/2003, non sono più consentiti incrementi delle edificazioni a scopo residenziale in quanto occorre puntare alla decompressione della densità abitativa esistente, per mitigare il rischio vulcanico. Cosa difficile a far digerire agli abitanti.

Allo stato delle cose occorre convincersi che, al di là del rischio Vesuvio, la costruzione d”altri edifici abitativi comporterebbe un ulteriore flusso migratorio verso il nostro territorio che aggraverebbe il già grave deficit infrastrutturale esistente. Meglio assecondare la decompressione abitativa già in atto, quindi, ed orientare il nuovo strumento urbanistico, PUC, alla ristrutturazione del tessuto edilizio esistente.

Il Piano Strategico Operativo della Provincia, PSO, prevede diversi incentivi premiali, in termini di superfici, per demolizioni d”edifici residenziali con trasferimento della cubatura in Comuni all”esterno della Zona Rossa oppure all”interno ma con cambio di destinazione d”uso, per adeguamento ad usi diversi delle residenze, per adeguamento ai rischi esistenti, per realizzazione d”opere di salvaguardia territoriale, di servizi ed infrastrutture.

A tal fine occorre intervenire con priorità sul tessuto urbano più antico e degradato, approntare un deciso piano di recupero e riqualificazione, utilizzando in tal modo sia gli incentivi premiali in termini di superfici previsti dal PSO sia tutti gli altri incentivi statali per la qualificazione energetica degli edifici e la dotazione d”impianti a risparmio energetico e d”energia alternativa.
Occorre, ovviamente, un cambio di mentalità da parte degli operatori del settore edilizio perchè si orientino al recupero e riqualificazione dell”esistente, anzichè alla costruzione del nuovo.
(Continua al prossimo articolo)

neAnastasis
Associazione Civica


ARTICOLO N.1

APPROFONDIMENTI

P.S.
Per giungere ad un Piano effettivamente partecipato è necessario un confronto tra più parti. Le idee ed i suggerimenti che l”Associazione fornisce vanno nella direzione di stimolare il confronto, per “stanare” dalla pigrizia i “portatori sani” di idee (sane), quelli del “vorrei ma non posso”, “potrei ma non voglio”.
Si invitano i lettori ad offrire il loro contributo, attraverso la funzione “Commenta”.
La Redazione

RISPOSTE AI LETTORI

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Il prof. Ariola risponde ai diversi quesiti che sono stati posti a commento di suoi precedenti interventi o arrivati per e-mail alla nostra redazione.

Un lettore ci scrive: “Il terremoto è un evento tragico e non mi va di scherzare, neppure con le parole. Ma mi sia consentito di rivolgere una preghiera:disambiguata ai futuri ricostruttori: “Edificatori, per favore, edificate in modo edificante!””
Mi associo alla preghiera. Aggiungo: Riflettete su questa grande sciagura, deponete furberia e sciacallaggio, conservate memoria dei morti e del dolore dei vivi e, anagrammando, non cercate nel “terremoto” un “remoto tre” (al posto di uno) o “torte” (di) “more” (da spartirvi con compari di malaffare), non agite “more tetro” (tetro italianizzato dal latino “taetro”) ma “more retto” (“retto” italianizzato dal latino “recto”).

Per il sig. Potenzano:
Signor Fabrizio Potenzano, lei vuole sapere perchè non usiamo, nel nostro parlare e scrivere quotidiano, la parola merda. In verità, lo chiede in modo “reticente” (usa la reticenza, figura retorica che, come si sa, consiste nel non dire una parola, ma lasciandola intendere); infatti non la scrive esplicitamente la parola ma vi allude molto chiaramente indicandola con termini sostitutivi (escrementi, feci) o con perifrasi (retro-espulsioni organiche, rifiuti organici).

La parola in questione è italianissima non solo ma anche con tanto di blasone classico, derivando dal latino, come ognuno può apprendere consultando un buon dizionario della nostra lingua. Eccole un passo poetico in cui il termine è usato, in senso proprio e senza remore di sorta, da Orazio: “mentior si quid, merdis caput inquiner albis/ corvorum, atque in me veniat mictum atque cacatum/ Iulius et fragilis Pediatia furque Voranus.(Se dico bugie, mi insudici il capo/ la bianca merda dei corvi e venga/ a pisciarmi e a cacarmi addosso Giulio/ e l”effeminato Pediazia e il ladro Vorano”) (Serm. l. I, Sat. 8, vv. 37-39).

Anche Dante lo usa senza farsi scrupoli in senso reale: “E mentre ch”io là giù con l”occhio cerco,/ vidi un col capo sì di merda lordo,/ che non parea s”era laico o cherco”. (Inf., 18, vv.115-117).
E dopo di lui tanti altri scrittori, fino a Carducci, Gadda, Calvino.
Il termine si è conservato anche in altre lingue neolatine (Fr. merde, sp. mierda)
Senonchè, col passare del tempo, esso ha subito una espansione semantica, e dal senso reale è transitato nel senso figurato, andando ad indicare persone e cose che della merda hanno sostanza, consistenza e valore (talvolta anche odore).

Si è caricato così di una valenza sempre più negativa, finendo per esser sentito e per essere usato come parola plebea, volgare, triviale, degno esemplare del turpiloquio che il nostro perbenismo e il nostro puritanesimo, ovviamente il più delle volte ipocriti e falsi, non tollerano anzi decisamente si rifiutano, almeno ufficialmente, di praticare. Ecco perchè ai bambini si raccomanda che “merda” non si dice, ossia che è sconveniente pronunziare la parolaccia davanti a persone, come d”altronde le altre parole, attinenti o simili (Si consideri, uno per tutti, il derivato metonimico “stronzo” con la variazione femminile “stronza” e con l”efficace corrispondente dialettale “strunz” ” che richiama direttamente l”etimo longobardo).

Quanto alle altre domande rivolteci, diamo risposte brevi e perciò non esaurienti, rinviando per eventuali integrazioni ad un buon testo di linguistica.
I rapporti tra i vari popoli del pianeta, divenuti sempre più frequenti negli ultimi due secoli e cresciuti oggi a dismisura, hanno prodotto e producono anche “scambi linguistici”, sia a livello lessicale che a livello di frasi idiomatiche (prestiti, quando le parole di una lingua entrano in un”altra lingua e vi rimangono immutati, come, ad esempio, “week end”; calchi, quando le parole passano da una lingua ad un”altra solo tradotte, come, ad esempio “aria condizionata” dall”inglese “air conditioned”; modi di dire come ad esempio “last but not least”, ultimo ma non meno importante).

Credo le possa essere utile, in generale, questo pensiero di Federico Garlanda, che fu marito di Ada Negri: “Ora in tutti i casi immaginati, sia che una nuova lingua venga, per così dire, importata fra un popolo, sia che venga prodotta dal popolo stesso, le mutazioni della lingua sono dovute o a differenze già esistenti nel popolo, o a modificazioni che il popolo à subito. In altre parole, possiamo dire che le mutazioni nei linguaggi sono prodotte da un adattamento etnologico, prendendo la parola “etnologico” nel suo significato più ampio e riferendola non solamente a differenze di razza, ma a tutte le modificazioni geografiche, storiche e climatiche:”
(da “La filosofia delle parole”, 1900).

“É IL MOMENTO DI RICOSTRUIRE L’ITALIA”

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Dopo la Grande Guerra è arrivato il momento di ricostruire ma le difficoltà sono enormi. Musica, balli, soubrette e teatri offrono agli italiani occasioni per distrarsi e dimenticare.
Di Ciro Raia

L”11 novembre 1918, data della firma dell”armistizio con la Germania, la guerra si conclude su tutti i fronti. L”Italia può occupare i territori che le erano stati promessi con la firma del patto di Londra del 1915. Il prezzo è altissimo. Per sostenere la guerra, l”Italia ha pagato 160 miliardi di lire ed ha lasciato sui campi di battaglia 680.000 morti!

Il giorno dopo la fine della Grande Guerra è tutto più difficile. Il 1919 diventa l”anno della ricostruzione, della delusione, dell”amarezza. Il Paese è in pieno caos. I reduci dalla guerra non solo non trovano occasioni di lavoro ma sono anche beffeggiati. Gli scioperi nelle industrie paralizzano le attività e rendono ancor più debole un paese ed uno Stato, che è, ormai, allo sfascio.
Il primo governo di pace, presieduto da Francesco Saverio Nitti, ha una difficile eredità. E, come se non bastasse, prendono corpo nuovi pericoli. Gabriele D”Annunzio ed i suoi legionari marciano alla conquista della città di Fiume; Benito Mussolini, alla testa di tutti gli scontenti, fonda a Milano i Fasci di combattimento.

Nel mese di novembre del 1919 ci sono le prime elezioni del dopo guerra. Il Partito Socialista di Giacinto Menotti Serrati risulta il primo partito con 156 deputati. Anche i Popolari di don Luigi Sturzo hanno un buon successo con 100 deputati. A perdere i consensi sono i Liberali di Giolitti, che calano da 310 a 179 deputati. Gli elettori hanno votato per un cambiamento radicale.

Ma è tutto il Paese che vuole cambiare, distrarsi, dimenticare. Un”occasione viene dal ballo: dall”Argentina è importato il tango. Ovunque, nelle sale da ballo, nei tabarin, nei saloni di casa, si balla al ritmo della musica argentina. Tutti si avventurano nei casquè. Le donne vestono in rigoroso color tango, un marrone bruciato; gli uomini, quando possono, si vestono da gaucho. Tutte le canzoni dell”epoca sono ispirate al tango (della gelosia, della capinera). Si differenzia solo Armando Gill -nome d”arte del cantautore napoletano Michele Testa-, che, nei teatri affollatissimi di tutta l”Italia, canta “Come pioveva:C”eravamo tanto amati, per un anno e forse più”, testi poetici per aiutare gli italiani a ricostruire e a ricostruirsi.

Dall”America, invece, si impone la moda del jazz. Quel ritmo, per lo più suonato da musicisti di colore, piace agli Italiani. Anzi, nel nostro paese diventa molto noto il nome di Buddy Bolden, un mitico jazzista.
Sulle spiagge ritornano i bagnanti; i costumi da mare lasciano scoperte le braccia e le ginocchia. I commercianti le tentano tutte, per invogliare ad indossare gli arditi costumi dell”epoca: “In acqua aderiranno al corpo e si vedranno molte cose”. L”abbronzatura, considerata abitudine cui è dedita il popolino, è evitata col ricorso a creme ed all”ombra di coloratissimi ombrellini.

Nei cafè-chantant si celebra la bellezza e l”arte di Anna Fougez, una tarantina il cui vero nome è Maria Annina Laganà, che, nel Trianon di Milano, ammalia cantando: “Vipera! Vipera! Sul braccio di colei ch”ora distrugge tutti i sogni miei”. Solo qualche anno prima un”altra soubrette ammaliatrice d”uomini, Ninì Tirabusciò, nome d”arte della fervente socialista Maria Campi, aveva sedotto con le sue canzoni i pubblici di tutta Italia, coinvolgendoli con l”invenzione della “mossa”.

Gli Italiani che amano leggere sono affascinati dallo scrittore Guido da Verona, il cui romanzo “Mimì Bluette, fiore del mio giardino” è un autentico best-seller, che è stato compagno prezioso per molti soldati impegnati nelle trincee. Ma molto successo riscuotono anche Vincenzo Cardarelli (“Prologhi”), Dino Campana (“Canti Orfici”) Luigi Pirandello (“Così è, se vi pare”) e Federigo Tozzi (“Con gli occhi chiusi”). Ma il vero libro per la formazione morale e patriottica degli italiani è stato pubblicato nel 1912: il titolo è “Il mio Carso” e l”autore è un triestino di nome Scipio Slataper.

C”è una novità anche per i bambini: sul “Corriere dei piccoli”, sin dal 28 ottobre 1917, impazzano le storie del “signor Bonaventura”, l”uomo dalla testa ovale e il naso a spillo, dai pantaloni bianchi e dalla redingote rossa (nella foto). Il suo autore è Sergio Tofano. Le storie del signor Bonaventura sono tutte a lieto fine; si concludono sempre con la conquista di un milione da parte del fortunato protagonista: “Qui comincia l”avventura del signor Bonaventura,/ che cogliendo un gelsomino/ dalla loggia del vicino/ troppo sportosi di fuori/ per raggiungere quel fiore/ capitombola di sotto/ con il fido suo bassotto”.

LA TRAGEDIA DELLA GRANDE GUERRA

PILLOLE DI “900