Il prof. Giovanni Ariola risponde alle domande di alcuni lettori. Gli argomenti riguardano l”abolizione delle Province e “La banalità del male”.
Elisa C. da Casoria scrive – Ho letto sui giornali e ascoltato dalla TV che è intenzione del nostro governo varare una legge costituzionale che abolisce tutte le province. Sarebbe veramente una iattura in quanto determinerebbe un inevitabile accentramento burocratico, ossia il contrario di quel mai abbastanza esaltato decentramento promosso da quando è andata in vigore la nostra Costituzione.
Inoltre causerebbe una confusione anche terminologica, ad esempio non si potrebbe più dire che un tal paese è in provincia di quella tal città capoluogo…Siamo alle solite. La nostra classe dirigente non riesce a sottrarsi al gioco perverso del pendolarismo. Fuor di metafora intendo sottolineare la cattiva abitudine di passare da un estremo a quello opposto, non prendendo in considerazione la possibilità di scegliere una posizione intermedia.
Con ciò non si vuol dire che era da preferire la decisione di abolire solo le province piccole (con meno di trecentomila abitanti), sarebbe stato ingiusto e anche piuttosto stupido, ma si vuol evidenziare l’opportunità di procedere, invece di abolirle, ad una riforma radicale delle istituzioni provinciali in modo da renderle più agili, meno costose, più funzionali e più efficienti sempre al fine di migliorare i servizi dovuti ai cittadini. In tal modo, questione non secondaria, si salverebbe una famiglia lessicale che è ben radicata nella nostra tradizione civile oltre che culturale.
Mi riferisco a parole come provinciale o provincialesco, provincialismo o provincialità, e a locuzioni come costumi provinciali, mentalità provinciale, pettegolezzi di provincia…Penso anche al bel libro di Michele Prisco “La provincia addormentata”…
Risposta – Non si può non essere d’accordo con la gentile lettrice sia per l’amaro ma adeguato giudizio politico sia per la denuncia del guasto che si produrrebbe nell’area semantica legata alla parola provincia, che è antica, risalendo, come si sa, alla sistemazione dei territori conquistati da parte dei Romani. Ciò detto, suggerirei tuttavia, prima di preoccuparsi e di rammaricarsi, di attendere che la legge sia approvata (l’iter come è noto, trattandosi di legge di modifica della Costituzione, è lungo e difficoltoso, e in questo caso dobbiamo dire: per fortuna!).
Allo stato attuale esiste un Disegno di legge costituzionale, approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione dell’8 settembre scorso il cui testo è stato trasmesso alla Conferenza Unificata (Composta dalla Conferenza Stato-Regioni e dalla Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali) per il primo esame. Il primo articolo di questo Ddl contiene una serie impressionante di soppressioni, ovviamente nei vari articoli del testo costituzionale, della parola provincia, insomma un vero e proprio provincicidio con una puntigliosità e una precisione, necessarie quanto si vuole ma che rasentano il sadismo. Per approdare nel secondo articolo a questa geniale pensata:
“Art. 2 – 1 – All’articolo 117 della Costituzione, è premesso il seguente periodo: «Spetta alla legge regionale…disciplinare sull’intero territorio regionale forme associative quali enti locali regionali (la sottolineatura è nostra) per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta nonché il relativo ordinamento».
2 – Le regioni…disciplinano l’ordinamento dei medesimi in modo da assicurare che ogni ente locale regionale abbia una popolazione di almeno 300 mila abitanti oppure un’estensione territoriale di 3.000 chilometri quadrati. Ogni ente locale regionale ha un presidente. La legge regionale può prevedere per il solo presidente l’elezione a suffragio universale diretto…”
Insomma le province, cacciate dalla porta, potrebbero rientrare dalla finestra. Solo alla misera parola provincia e alla sua sfortunata famiglia sarebbe dato il benservito (o variando, se diversamente aggrada, le vecchie ma gloriose parole sarebbero licenziate, mandate in pensione, archiviate, rottamate o, nel migliore dei casi, consegnate al polveroso silenzio del Museo delle parole ormai in disuso).
Aldo M. da Caserta scrive: “Nel suo ultimo intervento su ‘Il Mediano’ (“Estate rilassante…ma non troppo” del 5 settembre u.s.), riferendosi ad Anders Berhing Breivik, l’autore dei sanguinosi fatti di Oslo, ha scritto che il suo volto conferma in chi avesse ancora dubbi la banalità del male di cui parla Hannah Arendt”. Non mi è molto chiaro cosa intendesse dire. Vorrebbe precisare?
Risposta – Come si sa, l’opera dell’Arendt “La banalità del male” contiene il resoconto delle centoventi sedute nelle quali si espletò il processo celebrato a Gerusalemme nel 1961 contro il criminale nazista Otto Adolf Eichmann, accusato di essere colpevole di aver diretto le operazioni di deportazione di milioni di Ebrei nei campi di sterminio. La scrittrice, che vi assisté come inviata del “New Yorker”, non si limitò ad un semplice reportage ma accompagnò questo con riflessioni e considerazioni personali che divennero parte fondamentale ed originale del suo libro.
Tra l’altro l’Arendt si sofferma a lungo sull’analisi del personaggio Eichmann e sulle connessioni dei tratti principali del suo carattere con le azioni disumane compiute. Ora, istituendo un raffronto del criminale nazista con quello norvegese, ci sembra di poter rilevare, tra le tante differenze, anche alcune affinità. Prima di tutto il volto di Breivik, segnato da un sorriso, beffardo sì ma sereno come di uno che partecipi ad un evento normale della vita e perfino ad una festa, è molto simile al volto ‘normale’, di uomo comune, di Eichmann, di cui parla la scrittrice tedesca. Ambedue i criminali inoltre ammettono di aver commesso i fatti che vengono loro imputati ma dichiarano di non essere colpevoli, perché hanno fatto quello che loro ritenevano necessario e giusto fare.
Infine sia Eichmann che Breivik, obbedendo ad una dottrina aberrante e disumana, si prefiggevano come obiettivo finale l’eliminazione di una parte dell’umanità ritenuta di razza inferiore e capace di inquinare la propria razza e la propria civiltà.
Per rispondere alla sua domanda, con la mia affermazione intendevo sottolineare appunto la prima delle affinità appena enunciate. Insomma chi guarda il volto di Breivik, come è apparso sui giornali ma anche come si può vedere nelle varie foto pubblicate su internet e scattate in vari periodi della sua vita, è colpito dall’assoluta ‘normalità’ di quel volto, tanto che alla fine si conclude: non sembra affatto un criminale.
È quello che la Arendt scrive di Eichmann: “Ma il guaio del caso Eichman era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica……che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis umani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male…” (Da “La banalità del male”, Feltrinelli Editore, Milano, 1999, p. 282).
Questa acuta e profonda annotazione getta luce su tanti eventi e situazioni della storia passata e recente dell’Italia e del mondo, permettendone l’interpretazione e il giudizio.