PER CAPIRE IL PD OCCORRE LA FILOSOFIA…

Se nella foto vedete Bersani e Franceschini vi ingannate. O perlomeno, si spera che non saranno sempre così come sono stati fermati: perplessi e smarriti. Di Carmine CimminoNel libro Il potere delle immagini David Freedberg dedica un lungo e complicato capitolo alle immagini vive, che sono quelle capaci di suggerire immediatamente un’idea, un sentimento, una passione; insomma, sono le immagini che parlano attraverso l’eloquente coerenza di ogni linea e di ogni punto della loro forma. Parlano, e dicono ciò che l’autore dell’immagine vuole che esse dicano: e questo vale non solo per i pittori, ma anche per i fotografi. Solo un ingenuo può supporre che la fotografia sia la riproduzione fedele della realtĂ .

Nessuno può negare che l’immagine degli onn. Bersani e Franceschini, a cui questo articolo è dedicato, parli con una espressivitĂ  tanto intensa quanto enigmatica. Il fotografo è stato fortunato e abile: ha intuito rapidamente la loquacitĂ  della forma che i due avevano casualmente creato con il loro atteggiamento e ha fissato, per sempre, questa forma. La nota esplicativa che ha accompagnato su La Repubblica la fotografia ha introdotto un’altra nota di ambiguitĂ  nel significato dell’immagine: “Pier Luigi Bersani (a sinistra) con Dario Franceschini. Oggi, durante l’ Assemblea Nazionale del PD, è previsto un attacco al governo.”. Ora, l’espressione e la posizione dei due onorevoli non pare proprio che siano quelle di un attaccante: né di un attaccante di area, né di un attaccante di manovra. . Insomma, i due non inducono a pensare né a Drogba né a Cavani.

Tutto contribuisce a render viva questa immagine: viva nel senso che dice qualcosa: il taglio della bocca, il braccio chiamato a sostenere la testa, le pieghe della giacca, la lieve torsione della cravatta, i giochi e la densitĂ  delle ombre. Si inserisce armoniosamente nell’ insieme anche la contrapposizione tra la calvizie dell’on. Bersani e il folto capellume dell’on. Franceschini: questa variante serve a sottolineare la corrispondenza del resto. Dunque, l’immagine parla. Ma che dice? Non è facile capire. Poiché la causa dell’espressivitĂ  dei due onorevoli sta fuori dell’immagine. Essi stanno guardando e ascoltando qualcuno o qualcosa: non sapremo mai chi o che. A prima vista, i due onorevoli esprimono lo smarrimento di una incredulitĂ  repentina e ingessante. Forse hanno scoperto gli onn. Berlusconi, Fini e Casini intenti a concordare il menù per la cena della pace.

Forse vedono e sentono l’on. Calderoli che canta l’inno di Mameli, mentre l’on. Bossi bacia il tricolore. Forse hanno appreso che il sig. Marchionne si è incatenato ai cancelli della Fiat per protestare contro la protervia degli operai. E così via. Insomma, il fascino di quella immagine sta proprio nel rapporto tra l’intensitĂ  dell’espressione di smarrimento e l’assenza della causa. È un’assenza fondamentale, perché mette in discussione anche l’essenza del supposto smarrimento. È il fascino dell’incertezza, è il motivo dello sguardo oltre la tela che alcuni pittori hanno trattato in modo magistrale. Penso a Velazquez, a Manet, a Hopper, che ne ha fatto la metafora della inquieta societĂ  americana del primo Novecento.

La pittura. Forse era meglio partire, in questo commento, da René Magritte, che nel 1948 dipinse il quadro della pipa (ma aveva incominciato a dipingere pipe nel 1926). Dal punto di visto strettamente tecnico, non è un bel quadro. In realtĂ , il pittore non volle fare un bel quadro, ma soltanto proporre un problema filosofico. E infatti alla pipa di Magritte, e all’avvertimento: Questa non è una pipa, Michel Foucault dedicò un lungo saggio, tirando nel ballo dei riferimenti le ricerche semiotiche di Ferdinand de Saussure e le riflessioni di Wittgenstein.

Il tutto per dar ragione al pittore, che ha dipinto certamente l’immagine di una pipa, e ha certamente il diritto di scrivere nel quadro: Questa non è una pipa. E in realtĂ  l’immagine di una pipa non è una pipa (se ci venisse voglia di fumar la pipa, non andremmo a staccare il quadro dal muro). I nomi, le immagini e le cose sono entitĂ  tra di loro incommensurabili. Nel 1930 Magritte aveva dipinto un uovo, e sotto aveva scritto l’acacia, e sotto l’immagine di una scarpa da donna aveva scritto la lune, la luna. Del resto, il nome della rosa non porta in sé il profumo della rosa.
E dunque quella fotografia non ci autorizza ad affermare che quei due distinti signori sono veramente gli onn. Bersani e Franceschini. Quell’immagine è, dal punto di vista della filosofia della conoscenza, doppiamente ingannevole.

Essa inganna in via di principio, perché, come Magritte ha scritto che la pipa non è una pipa, noi possiamo scrivere e sostenere, a filo di logica, che questi non sono gli onn. Bersani e Franceschini. Il secondo inganno viene smascherato dall’ermeneutica della fotografia. Il fotografo sceglie una forma all’interno di un lungo flusso di forme, la fissa e cerca di convincerci che gli onorevoli Bersani e Franceschini sono proprio questi, nel senso che furono, sono e saranno sempre così: perplessi, smarriti, prossimi alla resa.

Se potessimo confrontare questa forma almeno con quelle di un attimo prima e di un attimo dopo, scopriremmo, forse, che questa immagine non esprime, come abbiamo supposto all’inizio, lo smarrimento della resa, ma, al contrario, coglie il momento di quella sospensione assoluta, di quel vuoto metafisico che precede l’uragano: un qualcosa che ricorda il sonno del principe di Condé prima della battaglia di Rocroi e la malinconia di Napoleone prima di Austerlitz. O il silenzio profondo e terribile in cui sono immersi i legionari romani nella scena iniziale del film Il gladiatore, un attimo prima che il condottiero dia l’ordine: Ora scatenate l’inferno. Così è, se vi pare.
(Fonte foto: Rete Internet)

L’OFFICINA DEI SENSI

LOGICHE DELINQUENZIALI E DI STAMPO CAMORRISTICO

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La “questione napoletana” e l”appello di Pisani. Napoli è in cerca di futuro e più che mai bisogna credere nel cambiamento, se si vuole continuare a sperare. Di Simona Carandente

Nei giorni scorsi, buona parte della carta stampata nazionale e locale riportava a caratteri cubitali un’ intervista al capo della squadra mobile Vittorio Pisani, dai toni accesi e talvolta addirittura sorprendenti, circa l’attuale situazione della criminalitĂ  a Napoli e dell’inarrestabile proliferare di logiche delinquenziali e di stampo camorristico.
Quello che traspare immediatamente dalle parole di Pisani è un messaggio negativo, pessimistico, dove la cittĂ  di Napoli è dipinta a tinte losche, dove le stesse forze dell’ordine sono incapaci di operare, in un territorio che appare scarsamente ricettivo rispetto ad ogni stimolo esterno, in un crescendo di azioni negative dall’esito certamente infausto.

Sia come esponente della cittĂ  cd. "perbene", che in qualitĂ  di avvocato penalista, mi trovo a dover dissentire con buona parte delle affermazioni del capo della Questura, che a mio modesto parere rischiano di sortire l’effetto inverso, ovvero sviluppare oltremodo il senso di rifiuto nei confronti della cittĂ  di Napoli, risaltandone ancora una volta il marcio e lasciando un messaggio che, allo stato, è di impotenza delle stesse istituzioni nei confronti del "male".

Si afferma che la Napoli cattiva, quella della malavita organizzata, delle rapine e degli scippi, cresca e prenda il sopravvento su quella perbene per un dato demografico, che vuole le famiglie delinquenziali prolificare alla velocitĂ  della luce, diffondendo il morbo criminale a macchia d’olio senza che nessuno, men che mai un qualsivoglia governante illuminato, possa fare granchè.
Tuttavia, se si pensa alle enormi falle di questa cittĂ , alla mancanza di lavoro che porta al Nord, e spesso anche all’estero, migliaia di ragazzi con altissimi livelli di istruzione, alla totale inefficienza del settore pubblico, delle infrastrutture e dei trasporti, è facile immaginare che chi rimane qui, salvo pochi fortunati, lo fa perché non può cominciare una vita altrove e preferisce soccombere, spesso delinquere, pur di portare a casa la cosiddetta pagnotta.

Per un giovane (e un meno giovane), a Napoli, è molto più facile spacciare stupefacente che lavorare onestamente, anche svolgendo il più umile dei lavori, svolto peraltro a nero, per pochi euro, con nessuna garanzia e con tantissimi rischi.

Abbandoniamo, per una volta, le frasi fatte ed il qualunquismo, evitando antiche ed inutili distinzioni tra buoni e cattivi: se lo Stato c’è, ed è presente, a Napoli come altrove, che ben venga un rinnovato senso civico che ne preveda, tra l’altro, una presenza più massiccia sui territori in difficoltĂ ; ben venga una rinnovata attenzione alla problematiche dei giovani napoletani, che li invogli a rimanere qui e a non fuggire verso presunti paradisi; ben venga una maggiore sensibilitĂ  verso i bisogni primari delle masse, da non considerare come il "marcio" della societĂ  ma come il punto di partenza di un reale, e profondo rinnovamento.

Senza la speranza di cambiamento, difatti, è difficile che qualcosa possa realmente cambiare. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

LA PROVINCIA DI NAPOLI É POPOLATA DI CITTÁ MORTE

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Le nostre cittĂ  sono nate sotto la spinta di necessitĂ  abitative e lavorative, ma senza ordine, uno stile, senza regole. Non hanno anima, avevano una storia ma ormai è a brandelli. Di Amato Lamberti

Le cittĂ  sono come degli organismi viventi. Nascono, per ragioni generalmente economiche e geografiche. Crescono, sempre per ragioni economiche e geografiche ma anche per ragioni culturali, artistiche, religiose. Muoiono, per ragioni diverse che hanno sempre alla base l’economia e la geografia. Atene fu grande per secoli, poi si ridusse a piccola cittĂ  di provincia. Roma fu la capitale di un impero sterminato, ma nel Medioevo si ridusse ad un ammasso di rovine nel quale pascolavano le capre.

Anche Napoli è stata capitale di un Regno e si è ridotta ad una cittĂ  fatiscente che sembra sopravvivere miserabilmente. Per Mike Davis, lo studioso americano che più si è occupato delle cittĂ  e della loro fisiologia, “ la morte delle cittĂ  non è questione di “se”, ma di “quando” avverrĂ …” “ Le cittĂ  muoiono quando le comunitĂ  che le animavano sono ridotte a comunitĂ  passive, incapaci di iniziativa, in balia di forze esterne che non sono in grado di contrastare o di condizionare”.

La provincia di Napoli è popolata di cittĂ  morte. Non ci avevo mai pensato anche se tutti i giorni, da anni, ho avuto sotto gli occhi il degrado che si espandeva nelle periferie, l’allargarsi di una conurbazione informe senza nessuna qualitĂ  urbanistica, ambientale, di vita umana. Ci sono voluti degli amici stranieri che ho accompagnato a visitare gli scavi di Pompei. Dopo la visita della cittĂ  morta, seppellita da una terribile eruzione del Vesuvio circa 2000 anni addietro, abbiamo fatto un giro per la Pompei di oggi, abitata da persone, percorsa da automobili, con bar, negozi, ristoranti, alberghi. “Ma qual è la cittĂ  morta?“, si è chiesto ad alta voce uno degli amici stranieri.

Ho subito pensato, per vecchio vizio letterario, alle cittĂ  morte di D’Annunzio e ho cominciato a scavare nella memoria qualche verso, di quelli che ci costringevano a imparare a memoria.
Ma non era quello il senso della domanda. Davanti a noi era una cittĂ  senza storia, nata attorno ad una basilica mariana che era, essa, la meta di pellegrinaggi da tutta Italia e anche dall’estero. Nessuno veniva a Pompei per vedere la cittĂ : al massimo usufruiva dei servizi, scadenti e di pessima qualitĂ , che era in grado di offrire. A Pompei si va per visitare gli scavi della cittĂ  romana o per andare a pregare nella Basilica dedicata alla Madonna del Rosario. Il resto non conta. Trenta-quarantamila abitanti non contano niente. Ci sono o non ci sono è la stessa cosa.

Anzi ci sono perché c’è la Basilica e ci sono gli scavi archeologici. Non hanno storia, non hanno identitĂ , in proprio. Non l’hanno mai avute. Forse più che di cittĂ  morte bisognerebbe parlare di cittĂ  mai nate. Un gruppo di case, per quanto vasto e numeroso, non fa una cittĂ . Una cittĂ  è innanzitutto un luogo dell’anima, una storia accumulata nel tempo, segnata da monumenti che sono le tappe di un lungo cammino. Nola è una cittĂ  che è stata, e lo tocchi con mano, ricca, potente, colta, culturalmente vivace, ricca di tradizioni, di personaggi, di artisti, di letterati, di filosofi. È stata. Se sia giĂ  morta o è ancora in vita è un problema che lascio ai suoi abitanti.

Come per Somma Vesuviana. Faccio, lo si capisce, gli esempi del cuore, le cittĂ  che meglio conosco e più amo, anche per gli amici che me le hanno fatte amare.
La storia e l’identitĂ  di Somma la ritrovi a brandelli solo al Casamale. Tutto attorno un termitaio di case e di palazzi senza identitĂ , un dedalo di strade che non caratterizzano niente. Stai a Somma ma potresti stare a San Giuseppe, a Terzigno, a Ottaviano, a Sant’Anastasia, a Pomigliano. Certo gli abitanti del luogo sanno interpretare anche segni che il forestiero non sarĂ  mai in grado di riconoscere, ma non c’è sedimentazione di storia, di cultura, di memoria, di identitĂ  riconoscibili con l’anima prima che con la vista. L’amico francese mi parlava di cittĂ  del suo paese che avevano un’anima e la restituivano anche al turista più o meno frettoloso.

Le nostre cittĂ  non restituiscono niente, perché non hanno un’anima. Sono cresciute sotto la spinta delle necessitĂ  abitative e lavorative ma a casaccio, senza nessuno che imponesse un ordine, uno stile, una fisionomia, delle regole, delle altezze, delle distanze. Forse le regole c’erano anche, ma nessuno è mai stato in grado di farle rispettare. Ma forse di regole estetiche nessuno ha mai sentito il bisogno. Il risultato non è solo l’affastellamento senza ritegno di case, di androni, di palazzi, di negozi, di attivitĂ  commerciali, con strade che invece di favorire la circolazione, la impediscono o la rendono difficile. Di verde, di qualitĂ  della vita nemmeno a parlarne.

Quello che fa paura è la bruttezza che diventa il marchio identificativo delle cittĂ  morte. Una bruttezza che finisce per entrarti dentro e farti diventare cattivo e ostile verso gli altri.

Forse per questo la gente, appena ne ha la possibilitĂ  si affolla in quei “non luoghi” che sono i grandi centri commerciali e che riproducono una sorta di cittĂ  ideale, sempre pulita, ordinata, illuminata, pedonale, piena di luci, di colori, di negozi, di ristoranti, di pizzerie, di sale giochi, di musica, di odori di cucina, di pizza, di kebab e, soprattutto, senza automobili e motorini, senza smog, senza inquinamento, dove anche l’aria è gradevole e profumata , e dove la gioia la leggi stampata sulla faccia delle persone. I bambini, ma anche gli adulti, sarebbero felici se potessero anche trovare casa dentro il centro commerciale.
(Fonte foto: Rete Internet)

CITTÀ AL SETACCIO

IL PUNTO DI VISTA DI UGO LEONE SUL PROGETTO VESUVIO

Seguitiamo, con la tenacia di chi crede che sia meglio prevenire che curare, nell”analisi del rischio Vesuvio. Questa volta lo facciamo con l”aiuto di chi conosce bene l”argomento, il Presidente dell”Ente Parco Nazionale del Vesuvio Ugo Leone.

Presidente il nostro giornale ha sposato la causa del Progetto Vesuvio, lei cosa ne pensa?
«Senza avanzare primogeniture io sono stato il primo a parlare di questa ipotesi e l’ho fatto nel 1995, quando fu varato il primo piano della protezione civile.
Prendo spunto però spunto per una constatazione che è quella che il rischio equivale alla probabilitĂ  che un evento accada moltiplicato per le persone e i loro manufatti coinvolti in esso, questi ultimi due fattori vengono in gergo tecnico definiti vulnerabilitĂ . Quindi quello che fa sì che un evento naturale divenga una calamitĂ  non dipende solo dalla probabilitĂ  che esso si verifichi ma soprattutto dalla quantitĂ  di persone esposte.

Si dice che non esiste il rischio zero ed è vero ma se si verificasse un terremoto disastroso in una zona deserta e sperduta in capo al mondo, in assenza di esseri umani, non potremo in tal caso parlare di rischio. Volendo riportare il discorso nel contesto vesuviano, il rischio è certamente dipendente dal fatto che c’è un pericoloso vulcano ma il timore che il rischio si tramuti in calamitĂ  è dovuta dal fatto che sono esposte a quel timore 580.000 persone e i loro manufatti. I dati della crescita della popolazione vesuviana, dal 1951 al 2000, messi in relazione con la crescita della quantitĂ  di stanze a disposizione per ogni cittadino, mostrano che nel “51, su 300.000 residenti vivevano 2,5 persone per stanza, oggi, ce ne sono 580.000 che ne vivono, in percentuale, 0,5 per stanza!

La popolazione è raddoppiata ma anche il numero delle costruzioni è notevolmente cresciuto. Questo crea una forte vulnerabilitĂ , una forte esposizione al rischio vulcanico. Dal momento che noi non possiamo intervenire sulla probabilitĂ  che l’evento naturale accada e considerando il fatto che i vulcanologi ci dicono che il Vulcano è in quiescenza e ce lo dicono confortati dai dati, dobbiamo vedere come il rischio può progressivamente disinnescare la vulnerabilitĂ  del territorio. Siccome questa è dovuta proprio alla quantitĂ  di popolazione noi dobbiamo intervenire su questa. Dal momento che 13 dei 18 comuni della zona rossa si trovano in nell’area protetta dall’Ente Parco allora possiamo dare il nostro piccolo contributo, impedendo, con tutti gli strumenti legittimi in nostro possesso, la proliferazione delle costruzioni.

Un grosso contributo può invece essere dato dall’incentivazione della popolazione a trasferirsi; non può esserci nessun atto che obblighi le persone a trasferirsi, il piano d’emergenza prevede il trasferimento ma sotto un’emergenza appunto e quindi non lo prendiamo in questo momento in considerazione».

Come si può allora incentivare la popolazione a trasferirsi altrove?
«In Campania c’è un forte squilibrio tra la costa e l’interno della regione. Le zone interne della Campania sono un patrimonio, progressivamente svalorizzato dall’emigrazione, verso la costa e verso il resto del mondo. Questo tipo di situazione comporta anche l’individuazione di un ambito territoriale che, con opportuni incentivi, potrebbe accogliere quella parte di popolazione che spontaneamente decidesse di lasciare la costa.

Questo anche indipendentemente dal rischio vulcanico, la presenza infatti di un così grande squilibrio tra costa e interno, richiederebbe una pianificazione d’uso del territorio diversa da quella attuale e che miri appunto a un riequilibrio, decongestionando una fascia suburbana, che i geografi individuano da Quarto a Castellammare e che è inclusa tra due realtĂ  fortemente critiche dal punto di vista vulcanologico, i Campi Flegrei e il Vesuvio. Una zona tra l’altro anche fortemente inquinata! Bisognerebbe dunque creare, nelle zone interne, soprattutto nelle province di Avellino e Benevento, quegli incentivi reali, capaci di trattenere o addirittura attrarre popolazione».

In che modo?
«Ridisegnando la geografia delle residenze, dei posti di lavoro, dei servizi e dei trasporti. Non è certo poco. Significa, per quel che concerne le residenze, non tanto costruire nuove abitazioni ma recuperare il grande patrimonio edilizio lasciato progressivamente con l’emigrazione, un patrimonio di notevole valore e di consistente quantitĂ . Noi sappiamo che costruire ex novo costa meno che ristrutturare ma è anche vero che nuove abitazioni sottrarrebbero spazio all’agricoltura».

Si innescherebbe così anche un circolo virtuoso per l’edilizia …
«Certo, anche recuperando tecnologie dell’architettura, con l’uso dei materiali, delle tecniche, eccetera, che negli anni passati hanno avuto un buon esito in zone sismiche.
Ma, naturalmente non basta costruire le case e vivere in un ambiente molto più vivibile poiché l’elemento effettivo di attrazione è quello di lavorare altrove in modo anche più favorevole, concentrando tutti gli investimenti non più sulla costa, ormai satura ma verso l’interno della regione. Mi rendo conto che parlare di investimenti in periodo di crisi è più difficile di quanto non lo fosse nel “95 ma sarebbe opportuno che ciò accadesse.

Una volta che posti di lavoro e residenza dovessero ridisegnare questa geografia dell’interno ne scaturirebbe anche un ridisegno dei servizi, da quelli minimi ai posti letto in ospedale, le aule nelle scuole e così via. Nel momento in cui tutto questo dovesse realizzarsi è chiaro che anche la rete dei trasporti favorirebbe quest’area. Quindi anche nella linea di pensiero di “Vesuvia” dove furono previsti incentivi economici per decongestionare la zona rossa, bisogna far sì che le persone vadano altrove ma l’incentivo non può essere solo economico e deve essere l’insieme delle cose di cui ho fatto menzione.

Ammettiamo che, tutto funzionasse alla perfezione, e che cinquecentoottantamila persone potessero essere ordinatamente evacuate e sistemate nei diciotto comuni con i quali si è gemellati, quando torneranno? E ritorneranno dove? E in un territorio trasformato come dall’eruzione?
Per dare risposta a queste domande basta vedere cosa trovarono i residenti del Vesuviano dopo le eruzioni del 79 e del 1631 (quelle più probabili secondo gli esperti) e riscontrare un territorio profondamente mutato, e si consideri il fatto che all’epoca non c’erano le industrie, i mezzi di trasporto e le case che ci sono ora, per questo bisogna alleggerire il carico demografico della zona, non sotto la spinta dell’emergenza, non in maniera provvisoria ma il più possibile definitiva».

Lei quindi immagina uno spostamento verso le province di Avellino e Benevento, perché non nel Casertano o nel Salernitano?
«Io non vedo di buon occhio quest’ipotesi perché verrebbe a saldare le due province più urbanizzate, quella di Caserta e quella di Napoli. La conurbazione napoletana si è mossa dalla fascia costiera prima verso ovest, poi verso est e ora a settentrione, Napoli sta perdendo solo apparentemente popolazione ma in realtĂ  questa si sposta nei comuni limitrofi per cercare un alloggio conveniente e vicino al luogo di lavoro, un luogo che prende il nome di “novanta” comuni diversi ma che in realtĂ  si chiama Napoli.

Il rischio qual è? È quello di spostare sì popolazione ma di creare anche una saldatura tra Casertano e Napoletano per cui quella che oggi è l’area metropolitana di Napoli andrebbe fino al Casertano, secondo me con scarsi vantaggi e il resto della regione, essenzialmente le province di Avellino e Benevento ne risentirebbero ancor più che mai, poiché la concentrazione di servizi oltre che di posti di lavoro rimarrebbero in questa fortissima area metropolitana».

Allora perché non il Salernitano, di per sé giĂ  vasto e meno popolato?
«Il Salernitano ha una doppia faccia, quella costiera e quella interna che io non andrei a turbare nella sua grande capacitĂ  di conservazione di identitĂ  culturale, nel senso più ampio del termine; non a caso il Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano raccoglie al suo interno ben 80 comuni e ha un’estensione venti volte quella del Parco Nazionale del Vesuvio (180.000 ettari!). Ha inoltre una sua economia, il mare, l’interno, l’enogastronomia, l’ambiente tutelato, mentre invece sono molto più sguarnite le altre due province interne.

Va bene anche l’alto Casertano ma un’obiezione che potrebbe venire è la seguente: due o trecentomila abitanti che dovessero rispondere a un incentivo per quelle zone, li andremmo a spostare da una zona a rischio remoto, quello vulcanico, a una a rischio più probabile, quello sismico? La mia risposta è che col rischio sismico si convive, soprattutto con gli adeguamenti apportati dopo il terremoto del 1980 in ambito di edilizia antisismica».

Del resto viviamo in un paese oltre che sismico anche ad alto rischio di dissesto idrogeologico …
«Certo, ma noi non possiamo dire: oh! Che disgrazia! Poi c’è una frana, uno smottamento, un terremoto e poi contiamo i danni, allineiamo le bare e così via, questa è quella che io chiamo la politica del rattoppo. Una politica che, a valle di una disgrazia, opera con interventi tampone ma non rimuove mai le cause».

ASSENZE INGIUSTIFICATE A SCUOLA E RESPONSABILITÁ DEI GENITORI

Anche in presenza di numerose assenze da scuola ingiustificate, i genitori non commettono reato se i figli vengono comunque ammessi alla classe successiva.

Il caso.
I genitori dei minori H. I. e H. L., senza giustificato motivo, non hanno fatto impartire ai loro figli l’istruzione obbligatoria.
Il Giudice di Pace, sulla base di testimonianze, che pur risultando svariate assenze dalle lezioni, i minori erano stati ammessi a frequentare la classe successiva, e quindi non sussisteva la prova di un danno effettivo cagionato ai medesimi, quale conseguenza della mancata osservanza dell’obbligo scolastico.

Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma riteneva che la promozione alla classe successiva era un fatto irrilevante, non eliminando essa il debito di apprendimento maturato per mancata frequentazione.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza in data 16.12.2008, essendo la sentenza inappellabile, trasmetteva gli atti alla Corte di Cassazione, che si è espressa nel seguente modo:

Non sussiste il reato di cui all’art. 731 c.p. a carico dei genitori che abbiano fatto saltare più volte, e senza giustificato motivo, le lezioni scolastiche ai propri figli se, nonostante ciò, i bambini siano stati comunque ammessi a frequentare la classe successiva. Manca, in questo caso, la prova di un danno effettivo cagionato ai minori stessi, quale conseguenza della mancata osservanza dell’obbligo scolastico. Corte di Cassazione. Sentenza 22 giugno – 05 ottobre 2010, n. 35705

Motivazione della sentenza.
È stato accertato, sulla base di testimonianze, che i minori, pur essendosi assentati dalle lezioni per numerosi giorni, avevano superato l’anno scolastico, ed erano stati ammessi a frequentare la classe successiva.
È indubitabile, quindi, che, secondo quanto ritenuto dall’autoritĂ  scolastica, i minori, nonostante le assenze, avevano ricevuto l’istruzione necessaria per essere promossi. Correttamente pertanto è stato ritenuto (a prescindere dall’esistenza del “danno”) insussistente il reato di cui all’art. 731 c.p. che sanziona chi omette, senza giusto motivo, di impartire al minore o di fargli impartire l’istruzione elementare.

ALTRI CASI PRESI IN ESAME

LA VITA IN TV. OSCENA MELANCONIA

Annullare il confine tra realtĂ  a finzione è il segno palpabile di come sia alterato il rapporto con il mondo. E dimostra quanto sia oscena la nostra televisione. Di Carmine CimmioUn allievo, memore di divagazioni che intrecciammo, in giorni ormai lontani, intorno alla natura del genio artistico e sulle pagine meravigliose di Klibansky, di Saxl e di Panofsky, mi domanda, perplesso: perché stiamo sprofondando tutti nella palude della melanconia? E mi guarda: temo che scorga anche sul mio volto i segni dell’ umor nero. Gli rispondo che forse ha ragione, non c’ è gioia nella gente, anche i ricchi sono depressi: del resto, la melanconia è un eccesso che solo i ricchi e i potenti si possono permettere.

Per gli antichi lo stato melanconico nasceva dal sopravvento dell’umor nero sugli altri tre: il sangue, la bile gialla, il flegma. Se lo squilibrio degli umori durava fino a diventare morboso, la malattia, dopo aver minato il corpo e prodotto balbuzie, calvizie e pelositĂ  eccessiva, attaccava l’intelletto e il cuore con passioni d’angoscia: la paura, la misantropia, la depressione, la pazzia. Una pazzia particolare, che consuma le energie psichiche e fisiche concentrandole su un solo stravagante obiettivo. Il protagonista di un dialogo di Luciano, Lessifane, ha la mania di usare parole strane e distorte, e di coniarne di nuove: egli si aggira lungo le strade impervie di questo suo lessico demenziale come in un labirinto, finché un medico non gli fa bere una pozione adatta a liberarlo dalla bile reale e da quella mentale.

Grazie alla medicina Lessifane espelle dalla bocca, e non solo dalla bocca, un copioso fiotto di parole alterate fratturate torturate. La follia del melanconico, che percorre tutti i gradi della luciditĂ  e dell’offuscamento, lacera l’animo: e può produrre tragica grandezza, o spaventosa miseria morale. Gli eroi della tragedia, da Aiace ad Amleto, sono dei melanconici: ma il melanconico descritto dall’inglese Timothy Bright è freddo, secco, di tinta scura, di cute tendente al coriaceo, lentissimo nel decidere, e ostinatissimo nel difendere le decisioni adottate, “poco incline all’ira, eppure capace di irritazione furibonda, invidioso e geloso, avverso alla luce e alla presenza degli uomini, amante della solitudine e dell’oscuritĂ ”.

Non bisogna confondere il melanconico con il collerico: l’eccitazione del collerico dipende dalla precipitazione e dall’incapacitĂ  di riflettere, quella del melanconico ha le sue radici nella veemenza con cui egli difende le proprie idee. Il melanconico è soggiogato dalle immagini che continuamente e in grande numero vengono partorite dalla sua memoria e dalla sua fantasia: e questa condizione si intreccia con il desiderio eccessivo di cibo e con la libidine. Egli desidera le donne, ma non le ama. Anzi alla radice del desiderio eccessivo c’ è odio: lo notò nel Medioevo Ildegarda di Bingen, e lo hanno confermato, e lo confermano, i protagonisti del romanzo gotico e del noir, e gli assassini seriali.

La scuola medica salernitana ereditò dai greci e dagli arabi l’elenco delle erbe adatte a far sbollire la bile nera: la menta, il pulegio, il cerfoglio e la salvia. I medici consigliavano anche il miele, perché favoriva il sonno, i cui piaceri sono negati ai melanconici. I loro sonni, assai brevi, sono assopimenti agitati da visioni e da fantasmi: il che indusse gli aristotelici a supporre che in alcuni casi la melanconia portasse con sé la capacitĂ  di prevedere, confusamente, il futuro. Ma i rimedi più efficaci erano il pane e l’olio: l’olio purificava, il pane era, ed è, il simbolo della concretezza della veritĂ .

I misteri eleusini e il culto di Demetra, la dea del grano, promettevano agli iniziati una viaggio che li avrebbe portati alla sostanza delle cose, oltre l’inganno delle apparenze. Il pane e il vino appartengono solo alla dimensione dell’uomo, la divinitĂ  è esclusa dalla loro cultura. Lo dice Omero, nel libro V dell’Iliade (vv.341- 2): gli dei non “mangiano pane, non bevono vino scintillante / e perciò non hanno sangue e sono detti immortali”.

Il melanconico protagonista delle Memorie di un pazzo di Flaubert dice: “la mia vita non è composta di fatti; la mia vita è un pensiero…..quante ore ho passate, lunghe e monotone, a pensare e a dubitare”. Il dubbio attacca il suo essere e il suo esistere, con una violenza che nessuno ha descritto meglio: “perché sei nato? Sei stato tu a volerlo? Sei nato perché tuo padre, un giorno, è tornato da un’orgia riscaldato dal vino e da discorsi dissoluti, e tua madre ne ha approfittato, mettendo le sue astuzie di donna al servizio dei suoi istinti di carne e di bestialitĂ ?”. Questo melanconico è ossessionato dalla visione di uomini dal volto senza pelle che mangiano fette di pane cosparse di gocce di sangue. La profanazione di tutti i valori è rappresentata da questa angosciosa profanazione del pane.

Discordi erano i pareri sulle virtù della cipolla: alcuni sostenevano che fossero dannose per i biliosi, e utili ai flemmatici. Altri, invece, considerando che “in alcuni casi di calvizie incipiente erano ricresciuti i capelli dopo che sul cranio era stata accuratamente strofinata una cipolla”, argomentavano che anche nelle cipolle vi fosse un principio avverso alla melanconia e alla sua micidiale azione contro le chiome folte.

Libidine, flussi ininterrotti di immagini e desiderio eccessivo di cibo, di qualsiasi tipo di cibo, sono in realtĂ  i segni di una condizione psicofisica che impedisce al malinconico di stabilire con il mondo un rapporto corretto e equilibrato: egli vede le cose attraverso il velo dell’ accidia e dell’angoscia. Cedendo alla lussuria, divorando il cibo e contaminando senza sosta la veritĂ  delle cose, il melanconico tenta di adeguare il mondo al modello che la sua immaginazione ha creato: egli non è più in grado, nella fase acuta del turbamento, di distinguere la realtĂ  dal sogno, la veritĂ  dalla menzogna.

Stretto nella rete delle sue mistificazioni, il melanconico alla fine parla solo con sé stesso, si guarda senza sosta allo specchio. E lo specchio può salvarlo, rivelandogli, senza inganno, il suo vero volto, o può perderlo definitivamente nel gioco del doppio che si riflette in un altro doppio, in una sequenza senza fine. È un meccanismo perverso che annulla per sempre ogni confine tra finzione e realtĂ , tra consapevolezza della finzione e coscienza della realtĂ . Questo congegno mostruoso, eppure ridicolo, sta sempre in agguato lungo il circuito che collega gli spettatori e gli attori di quelle incredibili trasmissioni televisive in cui, dicono enfaticamente promotori e presentatori, va in scena la vita quotidiana, e va in scena anche la morte quotidiana.

La profanazione della morte, messa frequentemente in onda dalla nostra televisione, è la prova prima e definitiva della oscena depressione in cui siamo naufragati.
(Foto: “VanitĂ ”. Quadro di Bernardo Strozzi)

L’OFFICINA DEI SENSI

QUEI FIGLI SOTTO IL FUOCO AMICO DEI GENITORI IN LOTTA

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Quando un figlio diviene merce di scambio: separazione tra coniugi e reati connessi. Di Simona Carandente

In una societĂ  quale quella odierna, dove il concetto di famiglia è sempre più evanescente, con tendenza ad inglobare nella definizione famiglie di fatto, allargate, riformate più e più volte, non sono solamente le questioni economico-civilistiche, connesse a filo doppio alle varie forme di separazione, ad essere affrontate nelle sedi e con i mezzi che la legge mette a disposizione di chiunque ne abbia interesse.

Negli ultimi anni si è registrata una grossa tendenza da parte di coniugi, ex coniugi e conviventi di fatto, ad adire la sede giudiziaria penale per la tutela dei propri, pretesi diritti ed interessi, sovente in rappresentanza dei figli minori, con il risultato di ingolfare letteralmente la giĂ  oberata macchina della giustizia, spesso in maniera vana e pretestuosa.
Tuttavia, non sono rari i casi in cui, alla rottura del rapporto matrimoniale o di fatto, magari accompagnata dalla nascita di un nuovo legame sentimentale, consegue il totale disinteresse nei confronti dei figli naturali, sia in senso economico che morale ed affettivo, solo perché quest’ultimi, incolpevolmente, hanno sposato la posizione dell’uno o dell’altro genitore, sovente quello più "debole".

In casi del genere l’art.570 c.p. punisce la condotta di chi, serbando una condotta contraria alla morale delle famiglie, si sottragga agli obblighi di assistenza propri della figura genitoriale, facendo mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori e non, accompagnando tale condotta al disinteresse per la vita, l’educazione e tutto quanto attiene alla vita dei propri discendenti.
Tale reato, punibile a querela della persona offesa, può comportare una condanna fino ad un anno di reclusione, con l’eventuale obbligo di corrispondere una somma in via provvisionale, oltre a tutti i danni economici patiti, la cui valutazione è rimessa alla quantificazione del giudice civile.

Ma tutte le medaglie hanno il loro rovescio. Accanto ai casi di totale, ed assoluto disinteresse nei confronti della prole, ve ne sono altri, non meno numerosi, in cui ad uno dei genitori (spesso il padre) viene impedito o limitato l’esercizio di tale diritto, assumendo condotte meramente pretestuose ed impeditive dei diritti di visita, nonché di quanto stabilito dal giudice in sede di separazione civile.

Il reato che scatta in tali casi è quello previsto e punito dall’art.388 c.p., contenente una variegata serie di disposizioni, tra le quali quella che punisce con la reclusione fino a tre anni chi eluda l’esecuzione dei provvedimenti del giudice civile, statuenti le modalitĂ  dell’affidamento della prole, la quantitĂ  e l’esercizio dei diritti di visita. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

I CASI E I FATTI TRATTATI DALL’AVV. CARANDENTE

NAPOLI. LA CITTÁ INCAROGNITA

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In cittĂ  vige una tolleranza accidiosa e menefreghista. Non ci si scandalizza più per nulla, gli intellettuali pontificano ma non offrono soluzioni; il dubbio è che sia proprio lo sfascio ad eccitarli. Di Amato Lamberti

Il 2010 si è chiuso tra cumuli di rifiuti incendiati dai botti che volevano festeggiare la fine di un anno terribile e l’inizio più che di un nuovo anno, di quella che si spera sia una nuova epoca per la cittĂ  di Napoli ma anche per la sua provincia. Naturalmente anche il 2011 è stato salutato da botti e roghi di rifiuti, nonostante ci fossero per le strade un centinaio di militari non a controllare abusi ed iniziative criminose, ma a spalare alacremente quanta più immondizia possibile.

Altrettanto naturalmente i cittadini benpensanti, quelli che si lamentano delle inefficienze dell’amministrazione, si sono ben guardati dal dare una mano, non dico a spalare, che pure sarebbe stata una bella cosa, ma ad evitare di ingrossare i cumuli di rifiuti con le scatole dei panettoni, dei regali, con le bottiglie di spumante e i gusci di vongole, telline e taratufi. Lo stesso hanno fatto gli intellettuali che pontificano sul degrado della cittĂ  ma non sanno mai suggerire non dico una soluzione, sia pure piccola e parziale, ma una strada da percorrere con poche e utili indicazioni. Sono bravissimi a descrivere lo sfascio, tanto bravi che a volte viene il dubbio che sia proprio lo sfascio ad eccitarne la vena intellettuale.

L’attentato alla cupola della chiesa dei Gerolamini, realizzato con petardi di inaudite dimensioni, che solo a Napoli vengono messi in circolazione, forse meritava un maggiore rilievo sulla stampa locale e nazionale (Nella foto la protesta del rettore). Ma come si fa a pensare di far esplodere petardi lanciati da una terrazza sulla cupola maiolicata di una chiesa, e di continuare a farlo anche quando ci si rende conto che sfondano il tetto e precipitano dentro la chiesa. Diamo per scontato che questi “guagliunastri” nulla sapessero, e nulla potevano sapere, del valore artistico e architettonico di quella chiesa, come del suo valore simbolico e di quello della sua biblioteca, ma in nessuna cittĂ  del mondo la canaglia, che pure non manca mai, si esercita a sfregiare i monumenti più significativi della cittĂ  in cui abita e vive.

A Napoli anche questo è possibile senza che nessuno si scandalizzi più di tanto, quasi che certi comportamenti fossero scontati anche se deprecabili. La migliore dimostrazione di quanto questo atteggiamento, di tolleranza accidiosa e menefreghista, sia diffuso, lo dimostra il fatto che negli interventi dei candidati a Sindaco nella prossima tornata elettorale, di qualsiasi schieramento, non si parla mai di questi problemi, cioè dell’incarognirsi di una parte della popolazione, quella che fa dello sfregio alle regole, ai monumenti, alle attrezzature pubbliche, ai mezzi di trasporto, alla segnaletica stradale, alle aiuole di fiori, alle alberature stradali, quasi una pratica da esibire, anche in pubblico, come segno di una disistima totale delle istituzioni.

Mi si potrebbe rispondere che sono quarant’anni che la cittĂ  è giornalmente violentata da manifestazioni di disoccupati organizzati, ex detenuti, indultati, parcheggiatori abusivi, contrabbandieri, ambulanti abusivi, tanto per ricordarne qualcuno, che bloccano il traffico, sfasciano vetrine, incendiano autobus, rovesciano cassonetti della spazzatura, si scontrano con la polizia, secondo un rituale sempre identico che poi li porta a sedersi attorno a un tavolo con i rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, per ricevere non solo legittimazione ma assunzioni anche in societĂ  del tutto inutili e pletoriche appositamente create per soddisfare le loro richieste.
A giustificare queste pratiche politiche neoclientelari sempre le stesse ragioni di ordine pubblico.

Certo, sono quarant’anni, dall’inizio degli anni ’70, che i marginali di ogni origine e specie, dai disoccupati, ai senzatetto, agli scantinatisti, agli ex detenuti, hanno scoperto che solo la lotta paga. Soprattutto se di fronte ti ritrovi amministratori incapaci di dare una qualsiasi soluzione a richieste che spesso sono legittime e riguardano diritti di cittadinanza negati. Ma le forme di questa lotta sono inaccettabili in una societĂ  civile e democratica. A forza di tollerarle sono diventate costume e stile di vita. Nella cittĂ  si sono ormai radicate vere e proprie tradizioni devianti di scontro con le istituzioni per ottenere anche le più legittime delle richieste, vale a dire il lavoro, la casa, l’assistenza sociale, la scuola, la formazione professionale.

Quando una pratica ha successo si tende a ripeterla, anche se si tratta di una pratica criminale. Anzi il successo conseguito con quella pratica, fa passare in secondo piano il fatto che si sono adoperati mezzi illegali. Non hanno studiato Machiavelli ma hanno capito benissimo che il fine (raggiunto) giustifica tutti i mezzi messi in campo.
(Fonte foto: Stefano Renna. AGNFOTO)

CITTÀ AL SETACCIO

NAPOLI E I SUOI INTELLETTUALI

La crisi che attanaglia la cittĂ  capoluogo sembra non risparmiare nulla. Prendiamo spunto da un articolo di Antonio Palma, sul rapporto tra intellettuali e politica, per avviare una riflessione. Di Carmine Cimmino

Grande è stato il coraggio di Antonio Palma, che sul Corriere del Mezzogiorno ha riaperto la questione del rapporto tra intellettuali e politica a Napoli: un gigantesco imbroglio in cui si aggrovigliano tre garbugli: la fluiditĂ  dello status di intellettuale; il caos della politica; il caos di Napoli. L’argomento non può essere trattato attraverso astratti furori: la situazione merita la concretezza delle cose, dei fatti, delle persone: bisogna parlare di questa Napoli e di questi intellettuali.

Certo, sarebbero utili l’occhio e la matita di George Grosz: ma la dismisura del paradosso di Napoli è tale che da sola compensa anche l’inadeguatezza dello sguardo e della penna.
Vedete cosa è successo a Roberto Saviano: prima l’hanno messo sull’altare, poi hanno incominciato a punzecchiarlo con i se, i ma, i però, infine lo hanno bersagliato, soprattutto da sinistra, con le solite frecce: “eroe di carta, banale populista, strumentale alla destra populista, rockstar dell’anno”. Lo hanno accusato, perfino, di essersi limitato a fare i nomi di conosciutissimi boss. Avrebbe dovuto inventarne qualcuno: per amor di novitĂ .

A ben vedere, lo ha trattato meglio il Presidente del Consiglio: nel rimproverargli di ledere, con i suoi scritti, l’immagine dell’Italia, ha almeno riconosciuto che lo scrittore gode, all’estero, di un certo prestigio. Saviano ha detto, in televisione, che le associazioni criminali del Sud hanno dépendances anche in Padania. I Padani si sono incazzati: prima di tutto, perché il Nord è lindo, smacchiato e sgrassato, terso e trasparente, e poi perché se proprio fosse costretto a dotarsi di una criminalitĂ  organizzata, non andrebbe certo a procurarsela tra i terroni: se la costruirebbe di pura razza celtica e nordista: non gli mancano, al Nord, né le tecnologie né i materiali.

Scrisse Sciascia in A ciascuno il suo: “Il fatto è che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che giĂ  se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto”. Era il 1966. In una delle inquisizioni inserite in Altre inquisizioni Borges scrive: “l’attualitĂ  incandescente che ci esaspera o esalta e con frequenza ci schiaccia, non è altro che una riverberazione imperfetta di vecchie discussioni…Il vero intellettuale rifugge i dibattiti contemporanei: la realtĂ  è sempre anacronistica”.

Sono due diversi commenti alla stessa veritĂ . L’intellettuale ha forse solo il compito di collegare i cavi della tensione del presente a quelli del recente passato: anche a costo di farsi friggere e fulminare dalle scariche elettriche.

Tiro fuori dall’archivio il Corriere del Mezzogiorno dell’11 e del 13 luglio 2008. L’11 luglio crolla un palazzo fatiscente ai Quartieri Spagnoli: si scopre che il palazzo scricchiolava da venti anni; si scopre anche che un boss vi aveva acquistato alcuni appartamenti da ristrutturare. Erri De Luca, lo scrittore, su cui torneremo anche nel prossimo articolo, non fa mancare la sua riflessione sul disastro: “Crollano, le case crollano, cadono anche senza nessuna spinta. Diciamo che quello che è successo è un terremoto formato francobollo”. Anche Ermanno Rea interviene: il vero rischio è la modernizzazione, dice lo scrittore, preoccupato dal pericolo che con la scusa del consolidamento e della ristrutturazione i palazzinari calino come avvoltoi sulle fatiscenze dei Quartieri.

Su De Luca e su Rea cala, due giorni dopo, l’ira di Paolo Macry, affidata a un articolo di fondo il cui titolo è Intellettuali antipopolari. (Corriere del Mezzogiorno, 13 luglio 2008). A De Luca, e alla sindaca di Napoli, Macry rimprovera il vezzo, chiamiamolo così, di dar la colpa di tutto alla natura maligna e alla malasorte. “E passi per la sindaca, che qualche colpa da scrollarsi di dosso ce l’ha, ma le parole del corrusco De Luca riaprono la polverosa questione del ruolo che hanno a Napoli gli intellettuali, le menti critiche, i notabili della cultura o come altro si voglia chiamarli. Sono svagati, cinici, indifferenti al nodo delle responsabilitĂ ? O piuttosto sono allergici a quelle donne così poco estetizzanti che inveiscono tra le macerie di tufo?“.

A Ermanno Rea, che non chiede l’urgente bonifica dei Quartieri, che non reclama la galera per chi manda i muratori ucraini a rischiare la vita per pochi euro, Macry ricorda che i Quartieri sono stati degradati e spopolati da una modernizzazione sui generis, che li ha incatenati al loro destino plebeo. La riflessione che chiude il pezzo sibila come una scudisciata: “È questo l’immoralismo popolare dei Grandi Vesuviani. Mentre l’inefficienza delle autoritĂ  pubbliche preparava i disastri, hanno taciuto, e ora che le magagne vengono a galla, se la prendono con la natura imperscrutabile o con la rapace modernitĂ …”.

Tre intellettuali insigni, tre idee di Napoli che non hanno nessun punto in comune, nemmeno in premessa. Nella stessa prima pagina, per la rubrica Il tempo e le idee, Giuseppe Galasso scrive che al Nord “la credibilitĂ  di Napoli e di tutto il Sud è ormai ai minimi storici. Inaffidabili e inette appaiono sia le loro classi dirigenti e politico- amministrative che l’intera societĂ  meridionale.“. In questa prima pagina del Corriere del Mezzogiorno il titolo di apertura è: Diciassette anni, muore sul lavoro. Apprendista cade da un palazzo mentre monta un condizionatore. La vittima era di Scampia: suo padre stava in carcere, e lui aveva deciso “di non andare a spacciare droga in una delle tante piazze del quartiere, ma di lavorare”. Sotto la fotografia del palazzo da cui il diciassettenne è caduto c’è la notizia che il governatore Antonio Bassolino ha esortato i manager della sanitĂ  pubblica a riflettere su quanto sia inopportuno aumentarsi gli stipendi.

Richiamo la vostra attenzione sulla coda riflessiva del verbo aumentarsi.Cosa era successo ? Lo vedremo nella prossima puntata. Può sembrare che il caso abbia voluto concentrare tra l’11 e il 13 luglio 2008 eventi notevoli, tali da compendiare in 56 ore, e in poche pagine di giornale, tutte la sostanza della storia recente di Napoli. E invece non è così. Non c’è giorno in cui Napoli non esprima (dovrei dire, non comprima) tutta sé stessa in un fatto, in un gesto, in una frase. Prendete un quotidiano qualsiasi di un giorno qualsiasi: passeggiate tra i titoli guardandovi intorno con sguardo chiaro e disincantato. Ogni numero di giornale è un compendio esauriente del sistema della cittĂ .

La storia di Napoli è una pista fatta di due, tre cerchi concentrici. Forse Napoli ha (aveva) bisogno di intellettuali che sappiano (che sapessero) costruire strade diritte, strade che vanno in avanti, che portano da qualche parte. Una parte qualsiasi, a patto che sia (che fosse) nuova e inesplorata. (1. continua)
(Foto: Acquerello di George Grosz, Republica Automatons, del 1920)

LA STORIA MAGRA

“FARE SCUOLA IN CONDIZIONI DIFFICILI”

Corso di Formazione della Onlus “Maestri di Strada” dedicato ai precari della scuola. Per rivendicare una qualitĂ  professionale avanzata e fortemente impegnata. Di Annamaria Franzoni

Si è concluso prima delle vacanze natalizie il percorso di riflessione professionale “Fare scuola in condizioni difficili” organizzato dall’Associazione Maestri di strada e finalizzato a promuovere la crescita dei giovani professionisti impegnati nel mondo dell’educazione infantile e adolescenziale in condizioni lavorative difficili e inadeguate.

È stata una occasione per affermare una professionalitĂ  docente che non è flessibile a prostrarsi alle alchimie di orari ed organizzazioni che riducono l’insegnamento ad una prestazione ad ore, ma è creativa ed interattiva – e quindi flessibile – non per adattarsi, ma per creare condizioni migliori all’apprendimento e al lavoro docente.
“Dalla flessibilitĂ  subìta…., per adattarsi ad una organizzazione parcellizzata ed insensata, alla creativitĂ  professionale in funzione della missione civile della scuola“.

Questo potrebbe essere, secondo Cesare Moreno, lo slogan per rivendicare ai precari, non solo a quelli della scuola, una qualitĂ  professionale avanzata e fortemente impegnata. Ed il messaggio riguarda anche un modo di fare sindacato e di fare politica che con i precari rischia di ripercorrere strade inefficaci. La difesa delle condizioni di lavoro e salariali, deve essere fatta a partire dall’affermazione della propria dignitĂ  professionale e dalla centralitĂ  dell’impegno civile della scuola per la conoscenza distribuita e per la crescita delle nuove generazioni.

L’Associazione “Maestri di Strada ONLUS”, attiva da anni nel contesto locale, nazionale ed internazionale in attivitĂ  per la promozione della cittadinanza giovanile attraverso educazione e l’istruzione, in collaborazione e con il patrocinio scientifico del Dipartimento di Scienze Relazionali "G. Iacono" UniversitĂ  degli Studi di Napoli "Federico II", del Dipartimento di Studi delle Istituzioni e dei Sistemi Territoriali UniversitĂ  degli Studi di Napoli “Parthenope”, del Dipartimento di Psicologia della Seconda UniversitĂ  degli Studi di Napoli e dell’ Istituto Professionale Sannino Petriccione, ritenendo che, per un lavoro complesso come quello proposto, sia indispensabile una attivitĂ  di riflessione professionale da parte dei docenti chiamati, ha deciso di offrire ad un certo numero di docenti possibilitĂ  un breve corso gratuito di “ riflessione professionale” ed “auto aiuto” tra operatori della conoscenza.

Il corso si è fondato sulla valorizzazione dell’esperienza pregressa e sugli apprendimenti informali realizzati dai docenti precari negli anni precedenti ed ha previsto brevi introduzioni di carattere teorico e due ore di discussione in piccoli gruppi, condotti da esperti nella tenuta dei gruppi. Le introduzioni sono state tenute da ricercatori e docenti universitari con specifiche esperienze di assistenza ad educatori impegnati nella gestione di situazioni difficili dei tre dipartimenti che patrocinano l’iniziativa e da esperti dell’Associazione Maestri di Strada.
Il corso ha avuto una durata complessiva di 15 ore e si è sviluppato in cinque sessioni pomeridiane nel corso dei mesi di Novembre e Dicembre presso l’IPIA “Sannino-Petriccione” di Ponticelli.
I nuclei tematici degli incontri sono stati:

-Tenuta professionale in condizioni difficili ossia come sviluppare la professionalitĂ  riflettendo sulle esperienze. (Relazione tenuta dalla prof Santina Parrello)
-Come sostenere l’apprendimento. (Relazione tenuta da Salvatore Pirozzi e Annamaria Franzoni)
-Come svolgere attivitĂ  socio-educative ossia come sostenere la cooperazione tra gli allievi – gestire gruppi classe e piccoli gruppi. (Realazione tenuta dal prof Dario Bacchini)
-Cooperazione tra docenti ossia come operare in codocenza con colleghi ed altre figure professionali. (Relazione tenuta dalla prof Antonia Cunti)
-Programmazione non lineare, interattiva e partecipativa in contesti caotici ossia come riuscire a costruire un curricolo di formazione umana, sociale e professionale valorizzando le esperienze informali, gli imprevisti, le difficoltĂ . (Relazione tenuta dalla prof Marisa Iavarone e Cesare Moreno).

Dopo il primo incontro lo stesso Cesare Moreno ha operato un piccolo cambiamento del titolo da “fare scuola in contesti difficili” a “fare scuola in condizioni difficili”. In effetti ben presto è emerso, infatti, che il problema principale consiste nelle condizioni in cui operiamo tutti noi impegnati nel mondo della formazione giovanile senza distinzione tra precari e non, tra periferie e situazioni più o meno centrali.
Precario, ci è stato ricordato viene da ‘precarium’ (controllato su Cortellazzo-Zolli) cioè ottenuto per preghiera.

È possibile mantenere una linea di condotta educativa quando tutto congiura contro?
È possibile mantenere un precario equilibrio (l’uso forse più consueto dell’aggettivo precario si riferisce proprio all’equilibrio, e al pregare e fare scongiuri perché non lo si perda) umano e professionale dentro un mare in tempesta su una nave…?
(Fonte foto: Rete Internet)

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