Si scrive con la “e” finale, come l’ha scritto, titolando la sua ricetta, Domenico Manzon, o si scrive secondo la pronuncia di gran parte dei Napoletani, senza la “e” finale? Gli studiosi della lingua napoletana non trovano l’accordo. La soluzione “alla napoletana” proposta da Giovanni Artieri, ispirato da Ernesto Murolo e da Libero Bovio. Le melanzane erano fino a poco tempo fa un “piatto” che tutte le tasche si potevano permettere: e oggi?
Ingredienti (6 persone): gr.800 di melanzane; gr. 350 di pomodori pelati; 2 spicchi d’aglio; 2 cucchiai di basilico; dli 1,5 di olio d’oliva; sale. Tagliate a dadini le melanzane già pulite, friggetele in olio abbondante e, a mano a mano, stendetele ad asciugare su carta assorbente da cucina. A parte soffriggete in padella gli spicchi d’aglio con olio eliminandoli appena imbiondiscono: versatevi poi i pomodori divisi in pezzi. Quando la salsa sarà ben cotta aggiungete il basilico diviso in pezzi e le melanzane fritte. Condite con il sale e fate cuocere ancora per 5 minuti mescolando. (L’immagine di corredo è del sito “Giallo Zafferano”).
Che l’accordo assoluto tra gli studiosi non c’era lo capii partecipando, da segretario, alle sedute del Premio di poesia napoletana “S. Di Giacomo”, che si tenne, per non pochi anni, a Ottaviano, e ascoltando le riflessioni ad alta voce di due giudici, Vittorio Paliotti, Francesco D’Ascoli, e nell’ultima edizione, anche quelle di Nicola De Blasi. E fa bene Domenico Manzon a scrivere “a fungetielle”, o avrebbe fatto meglio a scrivere “a fungetiello”? Forse aveva ragione Giovanni Artieri: la lingua napoletana di molti poeti e scrittori viene dal gruppo sociale a cui appartengono e anche dal quartiere in cui essi abitarono più a lungo. Per esempio, ila lingua napoletana di Ernesto Murolo è quella di Posillipo “campagnolo” e della Riviera di Chiaia, è quella di un raffinato intellettuale che scende dalle masserie di Villa Gallotti e di Villanova “in carrozza e poi risale, al braccio di una “bella guagliona”” verso Posillipo, “sussurrando dolcezze che si potrebbero dire anche davanti alla vetrina del pasticciere Van Bol e Feste, alla discesa di Chiaia.”. E’ il riassunto di una delle più belle poesie di Ernesto Murolo, “Pusilleco, Pusì’!” messa in musica da Eduardo Di Capua: “ Passa ‘o trammo e dint’’o stritto / (marciappiede beneditto!….)/ che velluto m’è venuto /sott’’a mana, p’’a scanzà?/ Invece, la lingua di Libero Bovio, scrive Artieri, è quella “della minima e piccola borghesia”, in cui si innestano talvolta, con un tono caricaturale, le espressioni dei delinquenti “ e degli accoltellatori” o degli ubriaconi, che vinti dal vino, incominciano a “toscaneggiare”: Brinneso alla salute /dell’amorosa mia ca s’è sposata!/ ‘E cummarelle mie ca ‘nce so’ ghiute/ dicono che pareva una popata…/ Ed indi poi noi li facciamo un brinneso / alla per noi difunda donna amata”. “Pupata” nel toscaneggiamento diventa “popata” e “defunta” diventa “difunda”. Artieri si chiede – il libro “Funiculì funiculà” è stato stampato nel 1959 – se con E.A.Mario si chiude l’avventura poetica e creativa della lingua napoletana: “A leggerle e a udirle le nuove canzoni di Napoli, salvo eccezioni, adoperano un dialetto deteriorato, composito, sconciato dall’inabilità e dalla improntitudine”. E Viviani? E Eduardo? Dedicheremo ai due Maestri un articolo a parte, facendo tesoro delle illuminanti pagine di Nicola De Blasi. E parleremo anche del napoletano di G.B.Basile, ascoltando i suggerimenti di una Musa, la prof.ssa C. Stromboli, che fu alunna del Liceo Classico A.Diaz.
(fonte foto: giallozafferano)