Il dipinto di Paul Beel, pittore abilissimo nell’impaginare l’immagine e nel “caricarla” di molti significati, assume un senso particolare se lo osserviamo dopo aver letto ciò che Eduardo De Filippo, Giuseppe Marotta e Erri De Luca hanno scritto sui maccheroni napoletani, disegnando il mito della loro figura “vitale”, incarnazione della storia di Napoli. Gli spaghetti di Marotta sono “prudenti, spicci e riflessivi”.
Paul Beel è americano, ma vive da tempo nella campagna fiorentina: è un pittore che i critici classificano come un interprete del realismo assai attento alle tecniche, ai modi e ai canoni dei pittori del ‘600. L’immagine del quadro è assolutamente originale, perché nessuno aveva mai dipinto un piatto di maccheroni poggiato su una ruvida sedia: nel ‘700 Giacomo Nani raffigurò piatti di pasta circondati da molte altre “portate” su una tavola imbandita: una festa tardo-barocca. Paul Beel ha voluto che concentrassimo la nostra attenzione sui maccheroni e non sulla persona che mangia la pasta, come invece fa Guttuso quando dipinge il padre intento a divorare un piatto di spaghetti (immagine in appendice). Persone stravaccate sulle poltrone o sui materassi sono un tema assai caro al pittore, e non riesco a liberarmi dal sospetto che egli abbia disegnato questa immagine per dirci che quei maccheroni hanno una loro vitalità, che esistono di per sé e non in relazione a chi tra poco se ne ciberà. Sono essi i protagonisti, qui e ora: e Beel ce lo “dice” attraverso alcune soluzioni tecniche che rivelano quanto egli sia attento alla lezione di Velazquez e di Caravaggio: l’inclinazione del ruvido piano della sedia, il simmetrico orientarsi dei rigatoni verso i quattro lati del quadro, la “dialettica” tra linee rette e cerchi ( notevole la collocazione del barattolo Cirio), il “richiamarsi” calibrato dei rossi e degli azzurri, e le dense macchie di biacca distribuite con sapienza. Immaginiamo che il pittore, che tra poco prenderà la forchetta, stia lì a contemplare, ad ammirare, e a gustare – si gusta anche con lo sguardo – la misteriosa nobiltà di quella pasta. Ho rivisto il quadro di Paul Beel dopo aver letto ciò che Giuseppe Marotta ha scritto sui maccheroni nell’ “Oro di Napoli”: “Chi entra in Paradiso da una porta non è nato a Napoli, noi il nostro ingresso nel palazzo dei palazzi lo facciamo scostando delicatamente una tendina di spaghetti…”. Ma non tutti i “piatti” di spaghetti garantiscono l’ingresso in Paradiso: il miracolo lo fanno solo gli spaghetti “fulminei e prudenti, spicci e al tempo stesso riflessivi, una improvvisazione e una massima: sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più: sono gli spaghetti all’aglio e all’olio.”. Per Eduardo, invece, anche gli spaghetti “all’aglio e all’olio” non sono facili da trattare, hanno le loro fisime: “int’a tiella / pepe niro, nu cuppino / d’acqua calda, petrusino / na tritata a vuluntà. / Ma si piglia ‘a nzalatiera, /’o spavetto resta nfunno: / nce vo’ ‘o piatto largo e tunno / o ‘a sperlunga p’’o servì.”. Nel 2004 per Micromega De Luca ha scritto un breve racconto sul tema della pasta: un racconto malinconico – ne parlai molti anni fa – i cui protagonisti sono il Natale e la solitudine di un uomo che cuoce degli spaghetti e li condisce con una salsa cruda di aglio pomodoro sedano olio prezzemolo e rosso secco di peperoncino. La solitudine permette all’uomo, di età matura, di confrontarsi con le voci dei suoi ricordi e con la presenza netta delle cose. Alcuni sorsi di vino dilatano la sensibilità dell’occhio, che riscaldandosi incurva lo spazio quadrato della cucina. La contenuta disperazione dell’uomo ha una dimensione geometrica: la solitudine è fatta di linee rette, è una rete metallica, è un marmo liscio, è un fascio solido di duri spaghetti appena sfilati dal pacco; il ricordo degli affetti e il desiderio dell’affetto sono curvi, tondi, circolari. L’uomo segue con attenzione il movimento del ciuffo di spaghetti che si spargono a corona intorno al bordo della pentola. Questo moto, e la corona degli spaghetti e la forma curva della pentola intaccano la sostanza della solitudine, incominciano a smontarla. Aveva ragione Ernst Cassirer: le cose vivono e parlano. Figuriamoci di cosa sono capaci i maccheroni.