In un romanzo che è la storia di una ricerca lunga una vita Francesca G. Marone ci racconta come dare a se stessi una nuova possibilità a partire dal dolore.
“Poche rose, tanti baci” è la storia di una figlia che non è stata, o non si è sentita, amata dal padre, e che cerca, combattendo anche con se stessa, di trovare il bandolo di una relazione bloccata in un intreccio pietrificato di sentimenti conflittuali. Francesca G. Marone analizza questa relazione nelle sue maglie più fini, utilizzando ogni ricordo utile, ogni dettaglio, senza fare sconti né al padre né alla figlia, in una prosa chiara e scorrevole, ma precisa e originale, regalandoci momenti di autentica rivelazione. Si tratta di un romanzo importante, denso, non inganni il titolo da “love story”. E’ una storia d’amore, naturalmente, ma dolorosa, che indaga l’autentica natura di questo sentimento, al di là di ogni facile illusione.
Tutte le relazioni parentali, o la loro assenza, sono tremendamente importanti nelle nostre vite e, all’interno di queste, la relazione padre-figlia costituisce un nodo fondamentale e tra i più difficili da sbrogliare. Molto sembra giocarsi sulle categorie di “presenza/assenza”. Chi non ha, direttamente o indirettamente, conosciuto famiglie in cui il padre “non c’è mai”, è “distratto”, non conosce/non si occupa dei problemi dei figli. Come scrive l’autrice “il sangue non mette al riparo dagli inciampi della vita, non è un’assicurazione per un sereno camminare insieme”.
Maria Giulia, la protagonista di questo romanzo, passa da un’infanzia in cui il padre è a volte presente ad un lungo periodo in cui il padre è totalmente assente, ufficialmente è costretto a trasferirsi a Praga per ragioni di lavoro. Vive la sua vita, si sposa, ha due figli, si separa mantenendo ben stretti nel suo cuore, intatti, la rabbia e il dolore che la ha causata. Se può evita di vedere il padre. Con lui non ha nessuna confidenza e apparentemente non ha nessuna intenzione di cambiare atteggiamento fino a che la malattia e, alla fine, la morte del genitore la costringe a guardare le cose da un altro punto di vista. Sbrigando delle commissioni in casa del padre trova delle lettere e scopre che quell’uomo freddo, distratto, incapace d’amore, ha invece amato qualcuno, una donna a Praga, nemmeno tanto bella, e Maria Giulia non si spiega perché proprio lei. Decide di andare a cercarla e va fino a Praga per conoscerla e, forse, capire. Non la incontrerà, ma quel viaggio le farà scoprire altri aspetti del padre e, anche, di se stessa. Ed è questo il punto: riuscire a spostare il punto di vista significa vedere nuove cose, rendendo possibile “ritoccare l’hard disk della memoria”.
Leggendo questo libro me ne è venuto subito in mente un altro, di genere diverso, “La ferita dei non amati”, dello psicanalista Peter Schellenbaum, che ha ormai una trentina d’anni. In quel libro mi imbattei per la prima volta nell’idea che la ferita originaria del non essere stati amati, o di essere stati amati “male”, può in definitiva diventare “il ventre dal quale veniamo generati molte volte”. Del resto è un genere di ferita che non si rimargina, non guarisce. Invece ci segna influenzando tutta la nostra vita, non è possibile prescinderne e tuttavia da questo dolore è possibile “rinascere”.
Il romanzo si sviluppa su un nodo evidentemente autobiografico (e quale buon romanzo non lo fa?). E’ in qualche modo la personale “lettera al padre” di Francesca G: Marone che, non a caso, rimase molto colpita da la “lettera al padre” di Kafka, tra le migliori descrizioni che esistono di un rapporto parentale disfunzionale.
Nel 2014 il manoscritto fu presentato al Premio Calvino col titolo “Lui così estraneo”, e guadagnò la segnalazione di merito “per il lacerante scandaglio di un’interiorità femminile”. Francesca G. Marone dice di essere “rimasta intimamente affezionata a quel titolo perché rappresentava il doloroso senso di estraneità che aveva preso in ostaggio la relazione fra un padre e una figlia, ma era un titolo che definiva anche l’essere estranei al sentimento dell’amore”.
Il libro è stato presentato alla libreria “Io ci sto” a Napoli il 17 u.s. da Federica Flocco, giornalista e scrittrice, e con letture di Alessandra Scotti.
Dice l’autrice: “Non era mia intenzione chiudere un cerchio con un atto consolatorio, neppure sul piano narrativo, ma raccontare la grande opportunità che la vita ci mette sempre dinanzi. Questo è ciò che ti è toccato vivere e non puoi cambiarlo, ma cosa intendi fartene per il tuo futuro? Io ne ho fatto una storia che mi auguro possa portare emozioni a coloro che vorranno leggerla.”
A me ne ha portate molte.