Note sulle industrie vesuviane sotto gli ultimi Borbone

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Non è campanilismo: questo articolo è una parte del documentato capitolo di una biografia di Luigi de’Medici che sto tentando di scrivere. E’ il capitolo in cui si descrive il ruolo che il potente ministro svolse dal 1815 al 1830 nel progettare concretamente un organico sviluppo di alcune attività che da tempo si svolgevano nel territorio vesuviano: per esempio, la lavorazione del corallo, la distillazione dello spirito, la lavorazione del cuoio e del vetro. Correda l’articolo l’immagine del quadro di Salvatore D’Amato “Torre del Greco”.

 

La storia dei corallari di Torre del Greco è avventurosa e drammatica. I Borbone furono costretti ad adottare una politica fatta ora di fermezza, ora di prudenza, per tutelare i torresi che si spingevano con le loro barche in pieno Mediterraneo e, catturati dai pirati barbareschi, erano ridotti in condizione di schiavitù, come “ vili giumente “. Di molti di essi, trasportati nelle oasi dell’interno, si persero per sempre le tracce; altri furono riscattati, talvolta, a caro prezzo. E tuttavia la pesca del corallo restò sempre un’attività essenziale dell’economia torrese. Nel 1841 vi erano impegnate 200 barche, ma il loro bottino era “esosamente assorbito dai manufatturieri di Livorno e Genova “. Per evitare questo sfruttamento, Giuseppe Santoponte chiese di essere autorizzato a costituire una società con un capitale di 100000 ducati: “ i mercati dove si smaltiscono i coralli sono Mosca nella sua grande fiera di agosto, Calcutta da cui si fanno provviste i negozianti del Mongol, Golfo del Bengala e Cina, e poi Alessandria, per tramandarlo in tutta la Siria, e specialmente in Aleppo; Brodi in Polonia, Vienna in Germania (sic), Londra per le spedizioni in America”.

L’industria dello spirito ” tolto dal granone di farina ” era radicata sia alle falde del Vesuvio che nel Nolano. La distilleria di Gennaro Jesu a Portici consumava 30 cantaia di granone al giorno (un “cantaro” equivaleva a circa 90 kg.), e 10 quella di Raffaele Saggese Matafone a Ottajano: ma due ditte di Marigliano, Anselmi e Marrassi, e Nicola Montagna, distillavano ciascuno 50 cantaia di granone al giorno. Nel ’59 le proteste ” per l’incarimento del genere ” divennero ancora più vigorose, tanto che Francesco II, da poco salito al trono, considerando che ” la povera gente si nudre quasi esclusivamente di questo articolo ” ordinò che non si usasse più il granone per la distillazione degli alcool. I distillatori, capeggiati dal più potente del gruppo, Ernesto Lefebvre conte di Balsorano, cercarono di far annullare il decreto, che metteva fine ad uno degli investimenti più sicuri e vantaggiosi, visto che una distilleria di media struttura, come quella di De Simone a Pozzuoli, produceva 4 botti di spirito al giorno con un guadagno netto, ogni giorno, di circa 17 ducati.  Francesco II tenne duro, così che i distillatori congegnarono un vasto contrabbando di granone e architettarono trappole di ogni genere. Nel marzo del ’60 gettò l’ancora nel porto di Napoli la nave ” Principessa Carlotta “, battente bandiera austriaca, stivata di granone fradicio d’acqua: e cosa avesse causato il disastro, nessuno seppe spiegarlo. L’Intendente di Napoli, Giuseppe Medici principe di Ottajano, chiamò alla perizia il migliore chimico di Napoli, il professor Scarpati, che era suo amico e gli curava la vinificazione nelle immense sue vigne vesuviane. Lo Scarpati sentenziò che il granone non era più commestibile: e dunque le 5000 cantaia si poteva venderle all’asta per la distillazione. E così fu fatto. Nel 1830 Michele de’ Medici Principe di Ottajano, Intendente della Provincia di Napoli, autorizzò Francesco Bonnet a rilevare la fabbrica di cuoio e la tintoria che Corrado Haller aveva impiantato a Castellammare, in località Ponticello, lungo le acque del torrente Cannitiello. Il figlio di Francesco, Jammy, alla mostra industriale del ’53 presentò cuoi per selleria, pelli di pesci per tomaio, che erano un brevetto della ditta, e vari tipi di cuoi, che erano esportati anche in Turchia, e alimentavano localmente un fiorente indotto intorno al mercato e al trasporto della materia prima. A Resina due fabbriche lavoravano anche pelli provenienti dall’India e dall’America Meridionale per produrre guanti e suole per le scarpe. Giuseppe Bruno produceva a San Giorgio a Cremano lastre e campane di vetro, lastre di buona qualità fabbricava Luigi Rossi al Granatello, mentre dalle officine di Carlo Cappello a San Giovanni a Teduccio uscivano ” bottiglie per tutta qualità di vino, bottiglioni, fiaschi militari di limpidissimo e sodo vetro nero “, superiori forse ai prodotti di Francia. Assai sviluppata era l’industria tessile, anche con le contraddizioni tipiche di un capitalismo arcaico. L’ industria tessile fu favorita dalla politica protezionistica, inaugurata da Luigi de’Medici, che consentì ai Mayer, agli Zollinger e ai Vonwiller di costruire, tra l’Irno e Scafati, un sistema veramente moderno per le tecniche di produzione, per la qualità e la quantità del prodotto e per l’organizzazione finanziaria. L’esempio degli svizzeri fu seguito dall’avignonese Carlo Forges, che impiantò a Torre del Greco un filatoio di seta, ove lavoravano, nel ’58, 51 operai. Almeno altri cento operai erano impiegati nei lanifici di Barra e di San Giovanni a Teduccio.