Le ricette di Biagio: frittata di patate e cipolle. Salutari le cipolle, ma “’e cepolle” fanno male

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Diceva De Bourcard che i Napoletani tutti, da sempre, sono dotati di grande immaginazione e cercano di trovare nessi e corrispondenze tra le cose, i fenomeni e gli avvenimenti: è l’eredità della cultura greca. I nomi del mondo animale, degli alimenti, degli ortaggi si caricarono, per associazione di idee e di immagini, di vari significati: e la lingua dimostra, come sosteneva Domenico Rea, il “genio” dei Napoletani nel realizzare pittoreschi salti metaforici e audaci traslati. “’E cepolle” di Gaetano Coppola, “saponaio e camorrista” (1864).

 

Ingredienti: 6 uova, 1 cipolla ramata, gr.500 di patate, 200gr. di Galbanino, un pizzico di sale, di pepe, di noce moscata; olio extravergine di oliva. Sbucciate le patate, tagliatele a fette alte circa un centimetro e versatele nell’acqua salata che incomincia a bollire in una casseruola messa sul fuoco. Lasciatele cuocere per dieci minuti, poi scolatele e fatele raffreddare. Intanto in una ciotola sbattete le uova e i pezzetti del Galbanino, mescolate il tutto, aggiungete le patate tiepide, la noce moscata, il sale e il pepe e amalgamate con calma. Fate scaldare l’olio in una padella, fate soffriggere la cipolla finemente tritata e poi versate nella padella l’amalgama delle patate e delle uova, lasciate cuocere il tutto per 15 minuti, a fuoco medio, coprendo la padella con un coperchio e di tanto in tanto fate in modo che la padella ondeggi. Quando sentite che il composto si stacca dal fondo, capovolgete la frittata e fate cuocere per altri 15 minuti senza coprire la padella con il coperchio. Infine, portate in tavola. (Immagine e ricetta dal sito “Galbani” ).

 

Il camorrista Gaetano Coppola era chiamato “’o tataniello”, termine derivato dal verbo “tataniare”, “parlare troppo e a sproposito”, fare con la bocca un interminabile e insensato “ta…ta…ta”. Però gli atti di polizia ci dicono che il chiacchierone, quando si trattava di danaro, diventava di poche parole e, se le tangenti non venivano versate in tempo, egli lanciava un pericoloso avvertimento: “ per te è venuto ‘o momento d’’e cepolle”. Era la “cepolla” a  cui si riferiva “’o tataniello” una percossa violenta, capace di provocare sul corpo della vittima lividi gonfiori simili alle cipolle. Non sopportava, il camorrista, che qualcuno osasse prenderlo in giro con il gioco delle “pastenachelle”, ingarbugliando tra le labbra e i denti frasi senza capo né coda e ripetendo senza sosta le stesse parole, così come si ripetono, anche rumorosamente, i movimenti della bocca di colui che sta mangiando pastinache e carote. Nemmeno i ceci abbrustoliti, che entravano nel “cuoppo napoletano”, era facile tritare con i denti: e quando la polizia borbonica arrestava qualcuno e lo colpiva, di regola, con il bastone, l’arrestato digrignava i denti, per il dolore e per l’ira, e pareva che cercasse di macinare ceci. Perciò il detto napoletano “avere primma cicere e poi fave secche” significava essere arrestato e portato in carcere, perché le fave erano il pasto più frequente preparato per i carcerati. Anche “’a cerasa”, la ciliegia, poteva indicare, per traslato una percossa, probabilmente, come sostiene Francesco D’Ascoli, per un gioco antifrastico, perché la ciliegia è dolce e la percossa è assai amara. E’ probabile che abbia favorito l’abbinamento degli opposti significati il colore rosso, che “segna” il frutto e la mazzata. I piselli, “’ e pesielle”, indicavano il danaro, soprattutto perché nel Vesuviano il commercio di questi saporiti legumi procurava ai coltivatori sostanziosi guadagni: non a caso gli Ottavianesi ancora oggi, nel giorno sacro al patrono San Michele- l’8 maggio-, mangiano pasta e piselli. Però la frase “’nce vedimmo a pèsielle” detta da un becchino era un augurio terribile: perché la stagione dei piselli era segnata da un numero notevole di morti. La colpa era, probabilmente, di quella pericolosa infezione che si chiamava, e si chiama “favismo”: molti medici credevano che anche i piselli potessero scatenarla. E oggi qualche studioso parla di “pisellismo”. E fermiamoci qua. Ma queste acrobazie semantiche della lingua napoletana sono affascinanti. A proposito di acrobazie, non sono riuscito ancora a eliminare le mie incertezze sul significato metaforico del “vruoccolo”, il broccolo. Mi dicono i linguisti che il temine significa anche “moina, carezza, smanceria”. D’Ascoli spiega il salto con la derivazione dal latino “brocchus” che indicava “persona dai denti sporgenti e quindi naturalmente incline alle smancerie”. Ma nel “napoletano vesuviano” “vruoccolo” è lo stupido, il babbeo, e infatti D’Ascoli registra nel suo “Dizionario etimologico napoletano” anche questo significato. Forse può capitare che chi è abituato a esagerare con le moine e le smancerie abbia la faccia da babbeo, e certamente non è bella l’espressione di chi ha i denti sporgenti.