Nel libro “Stupro a pagamento”, presentato a Napoli nella libreria Iocisto, Rachel Moran, giornalista, ricercatrice e ex prostituta ci spiega perché non si può parlare di autodeterminazione quando si parla di prostituzione.
Il titolo del libro di Rachel Moran è esplicito e vuole mettere una pietra tombale sui numerosissimi tentativi di dare dignità al sesso a pagamento, sia che si tratti di prostituzione di strada, di donne che si offrono nel chiuso di un appartamento, o di un club, sia che siano attrici porno o spogliarelliste, con o senza sfruttatore, con o senza assistenza sanitaria. La scorsa domenica nella libreria Iocisto di Napoli, di fronte a un folto pubblico, che vedeva la partecipazione di tante femministe storiche napoletane, il collettivo Resistenza Femminista, di Roma, che ha voluto e curato la traduzione in italiano, ha presentato il libro della scrittrice irlandese, smuovendo le acque di un dibattito che va avanti da anni all’interno dei movimenti delle donne. Una consistente fetta del femminismo internazionale parla di scelta e di autodeterminazione. Ma “Stupro a pagamento” descrive chiaramente di cosa si tratta.
Il punto è molto semplice: qualunque cosa faccia una persona in questo campo se si fa pagare lo fa per soldi, non perché lo desidera ed è precisamente l’atto del pagare che rende chi si vende merce, oggetto, e autorizza il pagante a disporre a suo piacimento di quello che ha comprato, instaurando immediatamente un rapporto diseguale. In altre parole si tratta della commercializzazione di un abuso.
Moran riesce a scrivere questo libro con grandissima fatica solo dieci anni dopo essere uscita dalla prostituzione e aver cambiato strada. Figlia di una famiglia disfunzionale poverissima di Dublino, padre bipolare e madre schizofrenica, Rachel va via di casa dopo il suicidio del padre, quando ha solo quattordici anni. Diventa una senzatetto e sopravvive compiendo piccoli furti, nei quali, dice, non era neanche tanto brava. Si prostituisce la prima volta a quindici anni, spinta dal suo “fidanzato”. La sola abilità richiesta per questo “lavoro” è essere disposta a subire qualunque tipo di abuso. Non è semplice. Come spiega la dott.ssa Elvira Reale (psicologa e responsabile di sportelli antiviolenza), durante la presentazione del libro, per farlo le donne congelano la propria coscienza, il proprio sentire, si aiutano con alcol e droghe, si distaccano dal proprio corpo. Le prostitute, come le donne vittime di violenza, vivono un trauma e soffrono di disturbo post-traumatico, di cui l’estraniamento, la coscienza intermittente è un sintomo. Rachel continua a farlo per sette anni, fino ai ventidue, quando riesce a riprendere gli studi, laureandosi poi in giornalismo e diventando un’attivista.
Il libro, intenso, prevedibilmente a tratti disturbante, ma bellissimo, è diviso in tre parti e ci parla della prostituzione attraverso la sua storia. Nella prima parte racconta la sua infanzia, la famiglia disfunzionale, le condizioni di partenza che la spingono sulla strada. Nella seconda parte, la più consistente, la scrittrice analizza in maniera puntuale ogni aspetto dell’industria del sesso e dei miti che la avvolgono nascondendo la verità: il mito della prostituta d’alto bordo, della puttana felice, del piacere sessuale della persona prostituita e del suo potere. Nella terza parte si parla delle possibilità di uscita da questa situazione.
Rachel Moran parla della sua storia, ma non è un libro autobiografico, è un libro collettivo, perché si basa sul vissuto di centinaia di persone prostituite e sulle ricerche che Moran ha svolto come attivista. Non parla di sex workers e anzi fa a pezzi questo termine, usato la prima volta dalla polizia di Los Angeles per eccesso di puritanesimo. Nel tentativo di restituire dignità alle persone prostituite, afferma Moran, si dà dignità alla prostituzione chiamandola lavoro e cancellando la violenza, la violazione dei diritti umani che essa, sempre, rappresenta. La scrittrice preferisce parlare di persone prostituite e di prostitutori.
Le perversioni, le pratiche sessuali atipiche sono straordinariamente presenti in questo campo e l’interazione che si stabilisce tra prostitutore e prostituita è perversa: si aiutano a vicenda a mantenere e alimentare abitudini malsane, ossessive e autosvalutative. “L’interazione perversa…viene richiesta e ceduta, ricercata e soddisfatta, offerta ed accettata”.
Ma non c’è bisogno di particolari perversioni per comprendere l’essenza violenta dell’industria del sesso. “Quello che una prostituta fa”, scrive Rachel Moran,” è acconsentire e accettare di essere pagata affinché gli altri abusino sessualmente del suo corpo”. E’ questo patto iniziale che copre la realtà. Siamo abituati a vedere la vittima di violenza come qualcuno che non sollecita in alcun modo la violenza che subisce. Ma se (escludendo il sesso) per ipotesi una persona accetta di farsi frustare in cambio di denaro, questo rende le frustate meno dolorose? E l’assalitore, che paga per la gioia di fare del male, è forse meno violento?
Perché il punto, dolorosissimo, e pur tuttavia punto chiave di tutta la questione è questo: le persone possono trarre piacere dal male, un atto malvagio può essere fonte di eccitazione sessuale (per ogni stupro questo è chiaro). Il piacere che il prostitutore cerca (perché spesso e volentieri il sesso lo troverebbe a casa) è il dominio, il poter disporre dell’altro a proprio piacimento. Dobbiamo considerare questo un elemento della sessualità maschile? Un dato biologico incontrovertibile? Io non credo. Credo che questa tendenza così distruttiva esiste, probabilmente, in ogni essere umano. Solo che all’altra metà del cielo viene insegnato a non cercare il potere sull’altro e a non goderne, e agli uomini, invece, viene insegnato che possono/devono farlo. Accettare la prostituzione come inevitabile, cercare “la riduzione del danno”, attraverso leggi che curano aspetti come la sanità e la pensione, vedere nell’industria del sesso la commercializzazione di qualcosa di naturale, che sarebbe da moralisti condannare, non fa che alimentare questa cultura del dominio come legittima.
Rachel Moran è rappresentante di Space international, un’associazione che raccoglie sopravvissute alla prostituzione di nove diversi paesi del mondo. Quello che si legge nella home del loro sito esprime chiaramente premesse e obiettivi:
“La prostituzione è una violazione dei diritti umani altamente caratterizzata dal genere. Nel mondo si stimano circa quaranta milioni di persone prostituite, la cui maggioranza schiacciante è costituita da donne e ragazze. Per secoli abbiamo arrestato le persone sbagliate. La prostituzione esiste perché esiste la domanda, è venuto il momento di criminalizzare la domanda.”