LA SQUADRA DEL NAPOLI POCO CONCORDA CON LO SPIRITO DELLA CITTÁ

Il grande Gianni Brera oggi scriverebbe che la città deve andare a lezione dalla squadra di Mazzarri, per imparare a combattere fino all”ultimo minuto dell”ultimo recupero. Di Carmine CimminoUno dei padri del mito della Padania fu Gianni Brera, ma i padani di oggi fanno bene a non ricordarsene. Oggi, non sarebbe uno di loro, perché Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo della seconda metà del ‘900, era figlio di un’ “altra“ Lombardia: quella nobile e schietta di Manzoni, di Porta, di Dossi, di Gadda. Brera fu fabbro e orafo di immagini: sarebbe difficile trovare nei suoi scritti e nei suoi discorsi una parola spenta o vuota.

Egli scrisse pagine di maschia malinconia sul Po, padre ubriaco – lo ubriacano i vigneti preziosi delle colline che attraversa già al suo nascere -, e sulle nebbie della Bassa, in cui immaginava che fieri e forti contadini conservassero ancora, nelle membra e nelle passioni da guerriero, il sangue puro dei Liguri, dei Galli, dei Longobardi, e degli Unni. Fieri e forti, ma pochi: alcuni in Lombardia, anzi in Lomellina, altri in Piemonte, altri ancora tra l’Emilia e il Veneto. Brera rispettava i Toscani, quelli delle colline, perché li vedeva eredi degli Etruschi, a rappresentare, con i Liguri, l’Italia arcana, prima che i Romani, i Greci, gli Arabi e gli Spagnoli, contaminandola nel corpo e nello spirito, la riducessero a una terra di gobbi, “simili a Leopardi e a Ciccillo Cacace”.

Troppi conquistatori si sono alternati in Italia, e troppo rapidamente: è venuta fuori una confusione di “sangue e di geni“, e da qui, e dalla tavola povera, la nostra eterna fiacchezza, “l’abbioscia storica“. Era fatale che Gigi Riva e Roberto Boninsegna infiammassero la sua ispirazione e la sua penna e lo portassero a sentirsi, veramente, l’Omero del giornalismo sportivo, quando forgiava per i suoi eroi i nomi rimasti nel nostro patrimonio linguistico, “Rombo di Tuono“ e “Bonimba“, mentre Coppi e Bartali erano i “principi della zolla“. Brera pensava che Facchetti, il mitico terzino dell’ Inter di Herrera, “fosse un grandissimo centravanti in potenza”: “però bisogna fargli un gioco adatto, mica chiamarlo ai triangolini masturbati e impossibili”.

E poiché Herrera continuava a schierarlo a terzino e a frenarne l’ impeto ciclopico, nel giugno del ’69, commentando una Inter-Juve, il giornalista sbottò: ”Vedo corricchiare con ineffabile eleganza Facchetti e penso a Ribot attaccato alle stanghe di un menalatte“: Ribot, il cavallo che ha scritto la leggenda del galoppo, attaccato alle stanghe del carrettino del latte. Brera schedò Rivera come “abatino“, e così dichiarò guerra ai giornalisti “riveriani“: fu una guerra aspra e lunga, sebbene egli riconoscesse che Rivera aveva del genio: ma era un “abatino“, non un guerriero, non un atleta: era, nel calcio, il rappresentante di quegli italianucci gobbi e rachitici, allevati alla malizia sacrestana, che i romanzi inglesi, “gotici“, “gialli“ e “noir“, usano spesso come assassini armati di veleno e di pugnali traditori.

Brera combatté sanguinose battaglie anche con i giornalisti della “scuola napoletana“, guidati da Gino Palumbo, i quali si entusiasmavano per il gioco d’attacco e per le partite dai molti gol. Sconsiderata ignoranza: perché si fanno molti gol solo sui campi dove si affrontano brocchi e scartine, e perché un popolo di gobbi deve aggrapparsi al catenaccio e al contropiede. Andassero a rileggersi Cesare, che allenando i suoi romanucci al catenaccio e al contropiede, era riuscito a fare macelli di Galli e di Germani. Dicessero la verità ai napoletani, Palumbo e i suoi:

“Nessuno ha mai detto ad alta voce che il sentimento di Napoli è scarso logorio di casseruole e snervante vento africano…Il Napoli, gloriosamente privo di napoletani, era ai miei occhi il simbolo fallace di una città in cui neppure i circensi sono adeguati ai bisogni della gente. Vinceva strabilianti partite fuori casa, lontano dallo scirocco, e ne perdeva di straordinarie all’umido e afrodisiaco tepore del suo golfo. Nulla mi sorprendeva, conoscendo Jean Bodin, Botero e un po’ tutti quanti hanno scritto di rapporti tra etnica e ambiente”.

Era il 1961, e la squadra del Napoli attraversava un momento buio della sua storia quasi sempre luminosa. Brera ammise, quasi trenta anni dopo, che lo scirocco può essere vinto dal genio di un Maradona, a patto, aggiunse, che quel genio venga sostenuto e protetto dai muscoli guerrieri del gallo sénone Salvatore Bagni, e si lasci guidare dal gallo insubro Ottavio Bianchi. Oggi, il clima non è più quello di una volta, e lo scirocco non abita più qui: ci viene a trovare di tanto in tanto, e solo per un caffé. Oggi Brera scriverebbe che la città deve andare a lezione dalla sua squadra di calcio: alzarsi in piedi bisogna, e sollevare la testa, e combattere, fino all’ultimo minuto dell’ultimo recupero. Perché, se la storia sociale del calcio ha un senso, il Napoli di Mazzarri è una eccezione, non corrisponde, in questo momento, allo spirito della città visibile: il Napoli ha voglia di imporsi e di vincere e ha forza e muscoli, e ha il genio uruguagio di Cavani, maturato al sole di Palermo.

È una squadra di fatti e di chiacchiere seguite da fatti. La città visibile, invece….Oggi Brera scriverebbe l’elogio di Mazzarri, ricorderebbe qualche sua mattana di quando vestiva la maglia della Fiorentina, e non trascurerebbe il fatto che è di San Vincenzo, là dove il vento del Tirreno e la luce dell’alta Maremma e i silenzi delle Colline Metallifere, riflessi nel lago dell’ Accesa, scolpiscono, in certi volti e in certi gesti di pescatori, di contadini e di cavallai, il ricordo del sangue etrusco: sangue di misteri, di incantamenti, di furba ironia e di teatro.

Gianni Brera mangiava spaghetti solo al ristorante milanese “A Santa Lucia”, dei fratelli Legnani, modenesi innamorati della cucina napoletana, e da don Antonio, patròn di un mitico ristorante di Napoli, il “Dante e Beatrice“. Leggendo certi articoli, ho sempre sospettato che Brera venisse a Napoli non tanto per seguire la partita della domenica, ma per passare la giornata nel ristorante: “Partecipo alle ansie dei camerieri e di Don Antonio, quando uno bussa a tressette in quattro, e il compagno lo lascia incopp e spine“. Come alcuni grandi giornalisti di sport, Brera fu un notevole scrittore di vini e di cibo: la storia di un popolo si legge nei piatti della sua tavola e nelle sue battaglie (di cui le vicende sportive sono la versione in tempo di pace).

Il padano Brera era persuaso che il dio del vino abitasse tra i vigneti dell’Oltrepò, e difese questo baluardo della sua dottrina enogastronomica strenuamente, senza cedere di un passo, anche a costo di rompere l’amicizia con il piemontese Mario Soldati.

Brera metteva sotto i vini prediletti minestre di riso, pesce persico e anche rane. Ma il rutilante corteo degli antipasti di don Antonio, lo sfolgorio dei peperoni acconciati in dieci diversi modi, il profumo acuto dei friarielli, i broccoli, le melanzane, e la nobiltà tutta dell’orto napoletano, l’arte squisita di camerieri che erano filosofi e attori magistrali, e le voci e i rumori di piazza Dante, che era stata mercato di cibi, e si sublimava all’improvviso, in certi pomeriggi, nella silente forma di una piazza metafisica pensata da Carrà e dipinta da De Chirico: tutto questo era un fascinum, una fattura, per gli occhi di Brera, che vedeva crollare, nella meditazione aperitiva e digestiva, tutte le certezze su Napoli, e si ritrovava, come il suo amico Soldati, nelle grinfie del dubbio:

Ma che città è mai questa? E poiché la risposta tardava, immagino che chiamasse l’amico cameriere e gli chiedesse un’altra porzione di frittata. Una qualsiasi, delle mitiche frittate di “Dante e Beatrice“.
(Fonte foto: Rete Internet)

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BORIS: APOTEOSI DEL RIDICOLO DALLA TV AL CINEMA

Arriva sul grande schermo (dal 1° aprile) il film tratto dalla serie Boris, uno dei prodotti più divertenti e pregevoli in circolazione: un affresco dissacrante delle assurdità che stanno dietro le produzioni televisive e cinematografiche.

Boris è, per molti, il miglior prodotto seriale italiano di sempre. Lanciata da Fox Italia e in onda dal 2007 al 2010, la serie ha portato una ventata di novità e intelligenza nel panorama televisivo italiano, occupato in modo massiccio da carabinieri, preti e santi.

E non è un caso che si sia affermata proprio grazie al sarcasmo con il quale dipinge i meccanismi che stanno dietro la creazione di una serie televisiva di pessima qualità (Gli occhi del cuore, titolo che potrebbe tranquillamente essere reale). Non si potrebbe comprendere a pieno la qualità di Boris senza tenere presente la sua dimensione meta-narrativa: mostra le vicende – sempre sospese tra il comico e il grottesco – di una troupe alle prese con la produzione di una serie di quart’ordine attraverso un umorismo e un’intelligenza di scrittura difficilmente riscontrabili in altri prodotti italiani.

La nostra serialità televisiva, anche nei suoi (rari) episodi interessanti, non ha mai avuto nel DNA la ricerca di un linguaggio più articolato; il fine è sempre stato raccontare una storia, in modo semplice, senza livelli di lettura ulteriori. Boris stravolge questo scenario. Quello che vediamo sullo schermo è volutamente esagerato. Il valore delle serie è nel contorno, nella sceneggiatura intelligente che, tra una risata e l’altra, riesce a restituirci i meccanismi perversi che regolano certe produzioni. Con Boris l’ironia – quella vera, a denti stretti – entra nel panorama televisivo italiano come non era mai successo in precedenza, raggiungendo i livelli delle migliori comedy anglosassoni.

Attraverso un gioco di specchi, la serie ideata e scritta da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo mette al centro della scena le riprese di un’altra serie, facendoci girare intorno personaggi e vicende che sono un pezzetto (neanche tanto caricaturale) d’Italia. C’è il regista insoddisfatto, consapevole ad ogni inquadratura della vergogna che sta realizzando, eppure capace di gasare troupe e cast come se stesse girando Il Padrino; troviamo l’attore divorato dall’ego e l’attricetta che in una delle prime puntate si impunta perché costretta a dire dal copione di avere 34 anni, entrambi pessimi e assetati di inquadrature; c’è lo stagista che funziona da strumento narrativo attraverso il quale entriamo nelle riprese de Gli Occhi del cuore e ne scopriamo le assurdità.

Tra politici che raccomandano attori, un network che “pilota” la serie influenzandone i contenuti, poveri disgraziati che ucciderebbero per una comparsata – con sullo sfondo, sempre, la terribile soap dalla trama delirante – Boris è un gigantesco circo, volgare e privo di qualità perché è volgare e priva di qualità la televisione che rappresenta. Ed è attraverso la rappresentazione beffarda di quel mondo che Boris colpisce duro, nascondendo sotto le risate immediate (accompagnate da tormentoni entrati nel linguaggio comune come il “Dai dai!” o “Devi recitare a cazzo di cane!” del regista Ferretti) uno scenario abbastanza desolante.

Con queste premesse – e con la squadra di autori e attori praticamente inalterata – Boris si presenta sul grande schermo, tentando un salto dalla tv al cinema non facile sia per le difficoltà che potrebbe avere a capire completamente il film chi non ha visto la serie sia per la necessità, ovvia, di adeguare una struttura collaudata al formato cinematografico. Eppure, anche in questo caso, il successo dell’operazione sembra assicurato. La grandezza della serie stava nel ridicolizzare la televisione usando i suoi stessi mezzi. In questo caso, il meccanismo viene trasportato integralmente sul set di un film: il regista Ferretti, dopo anni di pessima televisione, viene inaspettatamente chiamato a dirigere un film, per giunta di spessore (una sorta di film-denuncia sugli scandali politici italiani).

Viene, dunque, integralmente riprodotto il canovaccio: da una serie sul fare una (brutta) serie ad un film sul realizzare un (brutto) film. Con una sottile ma importante differenza: mentre gli Occhi del cuore nasceva come serie raccapricciante, il film che Ferretti è chiamato a girare ha velleità di essere un ritratto impegnato delle vicende politiche italiane. Ma il regista si scontrerà con gli stessi limiti della produzione televisiva (corruzione, pressioni, mancanza di professionalità). Il tonfo sarà dunque grande e il ritratto più amaro, soprattutto perché la dimensione politica di questo Boris – Il film è ancora più evidente.

Probabilmente chi non ha visto la serie non potrà apprezzare tutte le finezze del film, soprattutto perché non ha la dovuta familiarità con i personaggi. Ma la capacità di graffiare degli autori riuscirà comunque ad arrivare a tutti e sarà una boccata d’ossigeno per chi aspetta, da anni, una commedia italiana finalmente solida e pungente. Perché sì, Boris (serie e film) è una ventata d’aria fresca. Dimostra la profondità di un progetto capace di far ridere in modo sensato, di alternare il linguaggio comico ad uno più sofisticato. In questo modo la commedia italiana torna a ricordarci le enormi potenzialità del genere nel rappresentare con auto-ironia e un velo di amarezza difetti e malcostume.

Abituati come siamo a confrontarci con i cinepanettoni e la loro comicità – se di comicità si può parlare – vuota, Boris ci fa respirare ironizzando su quel mondo (e su tanti altri) e ricordandoci che dietro una risata può nascondersi il modo più intelligente e crudele di dipingere la realtà.
(Fonte foto: Rete Internet)

TERREMOTO ITALIANO. “NO” AI MIRACOLI DELLE PAROLE

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A due anni dal terremoto dell”Aquila la gente sa di non essere più al centro dell”attenzione. Troppa ancora la precarietà. Servono fatti, non più parole. Di Don Aniello Tortora

A due anni dal terribile sisma del 6 aprile 2009, a L’Aquila si rinnova il lutto. Oltre ventimila persone hanno preso parte nella notte tra il 5 e il 6 aprile scorso alla fiaccolata, organizzata dai comitati ma anche da semplici cittadini per commemorare il terremoto che causò 309 vittime e oltre 1.600 feriti. Il corteo era aperto da uno striscione con la dicitura: "Per loro, per tutti, i familiari delle vittime. L’Aquila, 6 aprile 2009", e a seguire: "È triste leggere negli occhi di mamma e papà la certezza che neanche stasera tornerò a casa", accompagnato dalle foto degli studenti morti. Alle 3 e 32 minuti, ora del terremoto, sono stati letti i nomi delle 309 vittime del devastante sisma. Le campane della chiesa delle Anime Sante hanno poi suonato a morto con 309 rintocchi.

Per il primo cittadino dell’Aquila, Massimo Cialente: "L’anno scorso c’era molta più aspettativa. A distanza di due anni sento che tra la gente sta subentrando un senso di sfiducia. E questo significherebbe la morte della città". Blocco completo della ricostruzione pesante – ha aggiunto – i soldi ci sono ma sono fermi da un anno e mezzo. La ricostruzione del tessuto socio economico non è ancora iniziata. L’anno scorso c’era tensione ma anche aspettativa, anche perché il governo era stato molto presente. Ora veniamo da un anno in cui si va avanti stancamente. Sentiamo di non essere più al centro dell’attenzione del Paese". Per il sindaco altra questione urgente da risolvere è quella sul rilancio economico e produttivo.

Leggendo le cronache dei giornali si ha l’impressione che il secondo anniversario sia più duro del primo. Dalle interviste degli aquilani traspare un po’ di sfiducia nel domani, anche perché hanno preso coscienza che l’Aquila non sarà riabitabile per moltissimo tempo. Per lunghi anni ancora saranno lontani dalle loro abitudini, dalle loro radici. Dalla loro vera vita. I riflettori mediatici sono tremendi: si sono spenti da tempo e sembra quasi a tutti che i problemi all’Aquila non esistano più. Come sta avvenendo, del resto per il dramma-Giappone. Le conseguenze di questo stato di cose si riverseranno, irrimediabilmente, sull’intera popolazione, di tutte le età. Le persone anziane, certamente, non ritorneranno dove sono vissuti tutta una vita e finiranno i loro giorni negli alloggi di fortuna, sparsi tutt’intorno.

Ma anche i piccoli saranno espropriati della loro “normalità”, perché cresceranno nelle new town e non conosceranno la città in cui giocavano, andavano a scuola e vivevano una vita feriale e normale i loro padri o i loro nonni. Ma anche per gli altri sarà difficile tornare a vivere come prima, anche per la crisi di un lavoro che non c’è più. Forse oggi, a due anni dal sisma, c’è più consapevolezza di una perdita, del dramma vissuto e che si continua a vivere.

Il Commissariato per la ricostruzione ha rivelato alcune cifre che devono far pensare. Al 5 aprile sono ancora 22.947 gli aquilani “sistemati in soluzioni alloggiative a carico dello Stato” (le new town, cioè, e i “moduli abitativi provvisori”), mentre 13.561 godono del “contributo di autonoma sistemazione” (un aiuto per l’affitto) e 1.295 sono assistiti in “strutture ricettive” e di “permanenza temporanea” (gli alberghi e le caserme). In tutto, 36.693 persone in attesa. Quasi un’altra città.

Il Presidente Napolitano, in visita all’Aquila ha lanciato un messaggio di speranza e di un impegno per il futuro, affermando che “gli aquilani non devono avere la paura di essere dimenticati perché, per fortuna, la coscienza civica del nostro paese e degli italiani non è al di sotto del dovere del ricordo e della vicinanza”. Un giorno gli aquilani torneranno nella loro “città promessa”, che, anche se molto lentamente, sta risorgendo. L’Aquila tornerà a volare, secondo la bellissima immagine di Papa Benedetto. Con l’aiuto di tutti. Soprattutto del governo, che dopo gli spot mediatici della prima ora, deve, adesso, dimostrare, concretamente, di stare vicino alla gente aquilana. Basta con i “miracoli” delle parole. Servono i fatti, quelli veri.
(Fonte foto: Rete Internet)

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AFFETTI E CARCERE: IL PROBLEMA DELLA SESSUALITÁ

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L”argomento è spinoso e poco trattato. Ogni tanto il tema riappare e si discute circa la necessità di riconoscere quello all”affettività come un vero e proprio diritto, inviolabile. Di Simona Carandente

Quello della sessualità in carcere, e più in generale della mancanza di soddisfacimento, in senso lato, delle esigenze affettive dei detenuti è argomento non semplice, spinoso, affrontato poco e da limitate sfere di intellettuali.
Chi ha vissuto un’esperienza carceraria sa che, anche in caso di brevi periodi di detenzione, si ha un vero e proprio stravolgimento del sé: se l’attività affettiva viene seriamente limitata, quella sessuale scompare del tutto, ininterrottamente.

Dal punto di vista formale, la questione connessa al binomio sesso-carcere, di stampo marcatamente penitenziario, attiene alla fase dell’esecuzione della pena detentiva, in particolare a quella che concerne il trattamento della criminalità.
Fra i primi, Michele Coiro, direttore del D.A.P. scomparso di recente, aveva sollevato il problema dell’affettività in carcere, emanando circolari dove chiedeva ai direttori dei penitenziari di pronunciarsi sulla possibilità di umanizzare le case di reclusione.

Nel 2002 se ne discute ancora, nell’ambito di un progetto di riforma del sistema penitenziario, già avanzato della precedente legislatura, partendo dall’assunto che quello all’affettività venga riconosciuto come vero e proprio diritto, inviolabile, riconducibile al ben più ampio diritto riconosciuto dall’art. 2 della Carta Costituzionale, di poter esprimere la propria personalità sotto ogni aspetto. Attualmente, la fonte normativa di riferimento del diritto penitenziario rimane la legge del 1975, che si occupa in più punti del problema dell’affettività in carcere.

Se l’art. 28 istituzionalizza il legame dei detenuti con le proprie famiglie di origine, l’art.30 ter riconosce ai condannati meritevoli, e non socialmente pericolosi, la possibilità di godere di permessi premio di durata non superiore ai 15 giorni, proprio allo scopo di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.

Tuttavia, stante soprattutto la difficoltà nell’ottenere permessi premio, è evidente come l’aspetto marcatamente sessuale della sfera affettiva, specie se avulso da componenti affettive interne, assuma nel tempo una valenza abnorme, esasperata e ingrandita da fantasie che, a lungo andare, si trasformano in rituali, cioè in forme coercitive ed ossessive se non addirittura maniacali.

Il panorama internazionale sul punto appare variegato ed interessante: se in Svezia alle consorti, o compagne dei ristretti, è concesso il diritto di visite non controllate, nei Paesi dell’America Latina tale diritto è addirittura codificato, giungendo in paesi come il Venezuela a permettere che, all’interno del carcere, i detenuti ricevano addirittura la visita di prostitute autorizzate. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

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A NAPOLI C’É IL TESORO PIU”PREZIOSO DEL MONDO

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I gioielli del Tesoro di San Gennaro, valutati più di quelli della Corona d”Inghilterra e quelli dello Zar di Russia, in esposizione dall”8 aprile nel centro storico di Napoli.

Sarà inaugurata in questi giorni la mostra “Le Meraviglie del Tesoro di San Gennaro, i gioielli”, con l’esposizione di oltre 150 delle 21.610 opere che compongono il Tesoro. Un’occasione unica per ammirare i capolavori d’arte e artigianato donati al santo patrono in sette secoli di storia. La mostra, che si protrarrà fino al 12 giugno, è dislocata in sei strutture differenti, sparse in tutto il centro storico di Napoli. Si potranno così ammirare i pezzi più importanti della collezione, dal celebre Busto del Santo alla sua Collana, dalle pissidi e dai calici donati da papi e re alla Mitra di San Gennaro.

Un viaggio lungo sette secoli, cominciato nel XIV secolo, in concomitanza con le prime testimonianze del miracolo della liquefazione del sangue, e che continua ancora oggi. Nel 2010, infatti, un’equipe di gemmologi e storici dell’arte, dopo tre anni di studi e ricerche, ha decretato l’inestimabilità del Tesoro del Santo. Una collezione unica, dunque, i cui “pezzi forti”, da soli, superano di gran lunga il valore dei gioielli della Corona britannica e dello Zar di Russia, i più preziosi del mondo, messi insieme.

Tra “le Meraviglie del Tesoro” spicca il Busto-Reliquario, voluto da Carlo II d’Angiò e realizzato, per contenere i resti del martire, nel 1304-05, dai maestri orafi francesi di corte: Etienne Godefroy, Guillame de Verdelay e Milet d’Auxerre. Un capolavoro di scultura ed oreficeria gotica, straordinario nella resa fisionomica del volto e nella raffinatezza della decorazione della stola, in cui si ripete lo stemma araldico dei gigli angioini. Il Busto, in argento dorato, ha anche ispirato l’epiteto “faccia gialla”, assegnato al Santo dai suoi fedeli napoletani.

Altro capolavoro è la Collana di San Gennaro, molto probabilmente il gioiello in assoluto più prezioso al mondo. Commissionata all’orafo Michele Dato nel 1679 dalla Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro per il Busto del Santo, la Collana è composta da 13 maglie di oro massiccio, 700 diamanti, 276 rubini e 92 smeraldi. Colpiscono, al centro, le croci, tempestate di pietre preziose, aggiunte, nei secoli, da Carlo di Borbone, Maria Carolina d’Austria, Giuseppe Bonaparte e Vittorio Emanuele II.

Magnifica la Mitra di San Gennaro, un copricapo vescovile in oro e argento, con oltre 3700 rubini, smeraldi e brillanti, realizzata, nel 1713, dall’orafo Matteo Treglia sempre per il Busto del Santo e per volere della Deputazione. Fu spesata anche dalla popolazione ed è uno dei pezzi più preziosi della collezione.

Preziosissima è anche la Pisside donata al Santo, nel 1831, da Ferdinando II di Borbone, come pure il Calice, in oro zecchino, donato da Papa Pio IX nel 1849, quando, a causa dei moti mazziniani prima e della instaurazione della Repubblica Romana poi, il pontefice si rifugiò, in asilo politico, a Napoli.

Il Tesoro di San Gennaro, il più ricco al mondo, è un Tesoro da non perdere, che si conserva intatto da secoli per volere del Santo, è vero, ma anche grazie all’instancabile lavoro della Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro, un’organizzazione attiva dal 1527 e nata ufficialmente nel 1601 “allo scopo di sovrintendere la costruzione della nuova Cappella del Tesoro (un gioiello del Barocco napoletano), amministrare i beni derivati da doni, lasciti e offerte, proteggere le sacre reliquie e mantenere vivo il culto del Santo”.

In ogni caso, in occasione della mostra, saranno adottate straordinarie misure di sicurezza, mezzi blindati, guardie armate e sistemi d’allarme sofisticati, mentre il centro di Napoli sarà protetto da elicotteri dei carabinieri. Uno spreco di forze dell’ordine, forse, visti i precedenti storici. Persino Napoleone, infatti, incline al saccheggio di opere d’arte, non osò profanare il Tesoro di San Gennaro, anzi, suggerì, nel 1808, al laicissimo cognato Gioacchino Murat, allora Re di Napoli, di donare al Santo un ostensorio, ancora oggi tra i più finemente decorati di tutta la collezione. Anche il Vaticano aveva, per alcuni anni, temporeggiato la restituzione del Tesoro quando, a causa della seconda guerra mondiale, era stato trasferito a Roma.

Memorabile resta l’impresa del devotissimo boss Giuseppe Navarra, detto “ ’O Re di Poggioreale”, che, dopo il conflitto, nel 1947, si accollò i rischi del trasferimento del preziosissimo carico da Roma a Napoli. Anche nella finzione cinematografica risulta impossibile trafugare il Tesoro del Santo. È quel che accade nel celebre film di Dino Risi, “Operazione San Gennaro”, al povero Dudù, alias Nino Manfredi, che, nonostante i suoi ripetuti sforzi, non riuscirà a intascare i 30 miliardi di lire che avrebbe dovuto fruttare la vendita del preziosissimo bottino. Chissà cosa direbbe il vecchio Dudù sapendo che quel Tesoro ha, oggi, un valore inestimabile.
(Foto: Busto Reliquiario di San Gennaro, con Collana e Mitra. Fonte Internet)

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A.A.A. CERCASI POLITICI SERI

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Le elezioni sono dietro l”angolo e al netto delle (tante) parole, gli elettori vorrebbero politici seri, che dimostrino di conoscere i problemi quotidiani della gente normale. Di Amato Lamberti

Il 15 maggio si vota in tutta Italia per il rinnovo di Sindaci, Presidenti di provincia, Consigli comunali e provinciali. A Napoli si vota anche per rinnovare i Presidenti delle Municipalità. A leggere i giornali e a seguire le trasmissioni televisive dovremmo fare tutti grandi salti di gioia e cominciare ad organizzare festeggiamenti. Ci aspetta, infatti, dovunque, un generale rinnovamento, un salto di qualità nella pubblica amministrazione, una rivoluzione nella qualità dei servizi; insomma, una vera e propria palingenesi delle città e dei territori.

Le parole d’ordine, al nord come al sud, sono sviluppo, occupazione, riqualificazione. Naturalmente si tratta di programmi roboanti, ricchi di immagini suggestive, di scenari affascinanti, di dichiarazioni solenni di impegno, non accompagnati però, generalmente, da alcun progetto specifico con l’indicazione dei mezzi da usare e dei tempi di realizzazione. Ho l’impressione che nell’attuale situazione di crisi della politica, in termini di credibilità, di affidabilità, di capacità di realizzazione, non sia questo il modo migliore per attivare l’elettorato e vincere la tendenza montante dell’astensionismo.

La gente non ne può più della politica fatta di promesse poi regolarmente disattese, di slogan che copiano quelli della pubblicità dei detersivi, che lavano più bianco che non si può, grazie anche ad additivi magici. Gli elettori vorrebbero politici seri che dimostrino di conoscere i problemi che assillano i lavoratori, i giovani,le donne che lavorano e quelle che fanno le casalinghe, gli anziani, gli operatori scolastici e quelli sanitari, insomma, i problemi quotidiani della gente normale che va al lavoro e deve prendere l’automobile perché con i mezzi pubblici dovrebbe alzarsi due ore prima;

che deve accompagnare i figli a scuola perché il servizio di scuolabus è una chimera; che deve portare i bambini piccoli dalla nonna, dall’altra parte della città, perché non ci sono asili nido disponibili dove abita; che non ha un parco, o anche solo un angolo di verde, per far giocare e prendere aria pulita ai bambini; che quando cammina per la strada deve stare attenta a non finire nelle buche che fanno saltare i semiassi delle automobili; che deve bere l’acqua minerale perché quella del rubinetto è talmente piena di calcio e di cloro da essere imbevibile; che la sera non può uscire per paura dei delinquenti, magari minorenni.

Politici capaci di capire i problemi della gente ma anche di proporre soluzioni praticabili in tempi certi. Che non si limitino a indicare la disoccupazione giovanile come il peggiore dei mali, ma sappiano indicare strade concretamente perseguibili per superare situazioni che possono anche provocare scoraggiamento o reazioni rabbiose dei giovani.

È facile promettere miracoli, disegnare scenari mirabolanti, tanto si sa bene che non si è neppure tenuti a realizzarli: più difficile è parlare delle piccole cose che, anche con poco sforzo, si potrebbero fare: piantare degli alberi, ripavimentare una strada, sistemare i marciapiedi sconnessi, realizzare qualche campetto per far giocare i bambini, aprire qualche asilo nido, qualche centro di aggregazione per i giovani, per gli anziani, per gli extracomunitari.

Sembrano cose piccole ma rendono migliore la vita dei cittadini. Veramente non si capisce perché e come ai politici possano sfuggire verità così elementari.

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“LE ERUZIONI DEL VESUVIO MONITO PER I PECCATORI”

Le dichiarazioni del vicepresidente del CNR (“i terremoti sono la voce della bontà di Dio”), ridanno lustro alla teologia della catastrofe, praticata in particolare dal Cristianesimo. Di Carmine Cimmino

Il Vicepresidente del CNR, Roberto De Mattei, intervistato da Radio Maria, ha detto che i terremoti “sono una voce terribile, ma paterna della bontà di Dio”. Si è scatenato un pandemonio. Proteste, richieste di dimissioni (dimissioni? che vuol dire questa parola?), proposte di scambi, come da ragazzi facevamo con le figurine dei giocatori. Al Vaticano diamo il De Mattei, e noi ci prendiamo monsignor Ravasi. Ma non credo che il Vaticano abboccherà: non c’è conguaglio che possa indurli, i monsignori della Curia, a cedere monsignor Ravasi.

Monsignor Ravasi sa perfettamente che il De Mattei ha detto cose che fino a poche decine di anni fa venivano dette dai pulpiti, e non solo da quelli delle chiese di campagna. Tutte le religioni hanno cercato di giocare con la paura della gente, ma solo il Cristianesimo ha costruito, sulla base di Mosè e delle piaghe d’Egitto, una vera e propria teologia della catastrofe:

terremoti, alluvioni, pesti e carestie erano (lo sono ancora?) i severi moniti dispensati dalla bontà di Dio agli uomini invischiati nel fango del peccato. I teologi napoletani e nolani così lessero, dal 1631, le eruzioni del Vesuvio, che, tra l’altro, si prestavano, più di ogni altra catastrofe naturale, a questo commento teologico, perché duravano abbastanza per attribuirne l’inizio alla bontà severa di Dio, e la fine alla Sua misericordia, invocata da processioni, dalle repentine e pubbliche conversioni di noti peccatori, dalla intercessione dei Santi Patroni.

Durante l’eruzione del 1766 i Gesuiti, a cui Bernardo Tanucci, l’onnipotente ministro di Carlo III, aveva ordinato di andar via dal Regno di Napoli, spiegarono al popolo che ceneri, lave e lapilli erano la punizione di Dio per l’empio provvedimento di espulsione. Ma il famoso predicatore domenicano padre Rocco guidò fino al ponte della Maddalena una folla immensa di penitenti che portavano in processione la statua di San Gennaro. Egli fece il miracolo: fermò il fiume di fuoco che minacciava la capitale.

I Domenicani e San Gennaro si schierarono con Tanucci, mentre Maria Maddalena Sterlich, considerata santa già in vita, prima prese le parti dei Gesuiti, poi confessò d’essere stata costretta a dire che la furia del Vesuvio era il segno della collera di Dio contro Tanucci. Tra il 5 e il 7 aprile 1906 sul lato meridionale del vulcano si aprirono delle bocche, e ne sgorgarono fiumi di lava. Tra il 7 e l’8, che era la domenica delle Palme, incominciò il dramma di Ottajano: il cratere crolla, si innescano terribili esplosioni, una nube smisurata, a forma ora di pino, ora di cavolfiore, si dilata nel cielo, fino a 5 km. di altezza. Michele Cola, parroco di San Michele, Chiesa Madre di Ottajano, scrive nel Libro dei Morti, sotto la data del 7 aprile, due sole parole: Dies irae. Il giorno dell’ira di Dio.

San Gennaro protesse Napoli in tutte le eruzioni, eccetto che in quella del 1872. O almeno nel 1872 parve alla “plebe napoletana“ che il Suo intervento fosse tardo e non risoluto, tanto che sul Ponte della Maddalena andò in scena una chiassosa protesta contro il Patrono. L’inglese “The Graphic” ne diede notizia nel numero del 1° giugno e pubblicò, a corredo, un disegno di Durand, la cui matita era vigorosa, ma spesso eccessivamente incline all’enfasi. Un mese prima a Nola anche San Felice si era levato a difesa della Sua città contro il Vesuvio. Del miracolo dà una dettagliata descrizione il canonico Raffaele Longo in una lunga lettera, scritta su carta intestata della Curia Vescovile di Nola, e indirizzata a Girolamo Milone, direttore del periodico La libertà cattolica:

“…Nell’ultima eruzione vesuviana, circa le due del pomeriggio del 26 aprile 1872, mentre la incendiosa lava del cratere terribile, che vomitava fumo, lapillo, cenere soffocante, gettava nella costernazione tante famiglie e quasi rendeva desolate le circostanti campagne, qui in Noia accadde un fatto straordinario sul quale ho serbato un prudente silenzio finché non fosse pronunziata la sentenza della competente autorità ecclesiastica. Una fanciulla di umili condizioni, e che da pochi mesi era uscita dal sessennio, mentre soletta si trastullava dentro il cancello che circonda la statua in marmo di S. Felice Vescovo e Martire, sita nell’ emiciclo orientale, nel largo della stazione ferroviaria di Nola, vide muoversi la Statua suddetta, e temendo le fosse caduta addosso fortemente sbigottita gridò chiamando sua Madre che poco lungi da lei attendeva al lavoro delle funi”.

“A quelle grida corse molta gente, che nulla vide del muoversi della Statua suddetta, tutti però l’osservarono col volto diretto non più come prima, verso l’occidente della città, sebbene con la faccia verso il mezzogiorno direttamente alla bocca principale del Vesuvio. Quando accadde il fatto, il cielo era bello e sereno, né vi erano nubi per l’aria, eccetto un pino di cenere e fumo, che sollevato dal monte terribile pendeva in aria quasi sulla città…”

Il Vescovo di Nola, Giuseppe Formisano, aprì, sul miracolo, un regolare processo canonico, che durò circa sei mesi. Vennero discusse le perizie di artisti statuari, di architetti e di periti muratori, e vennero esaminate le dichiarazioni di un grandissimo numero di testimoni, “sotto ogni riguardo autorevoli: avvocati, artisti, pittori, impiegati e proprietari e conoscitori del luogo e della statua“. Si giunse, infine, al felice risultato: il contorcimento della statua constava dalle ginocchia in su, restando fermi e immobili, e nella loro antica posizione, sia i piedi che lo zoccolo e la base sottoposta, in cui non si osserva né frattura, né smossa di terreno, né alcuna sgretolatura: il fatto poi è sensibile e permanente.

Il Direttore del “Pungolo“, raccontando la storia in un articolo del 27 novembre, intitolato Un miracolo a noi vicino, si divertì a fare da avvocato del diavolo sui punti oscuri della vicenda. Il portavoce della Curia nolana non gradì, ovviamente: riconobbe al giornalista miscredente il diritto di avere, in materia di religione, le idee e i sentimenti “che più gli piacevano“, ma gli ricordò che ne avrebbe dovuto dar conto a Dio. È lecito sperare che Dio abbia concesso il Suo perdono, e ancora lo conceda, a tutti quelli che meritavano e meritano di essere perdonati.
(Foto: G. Durand "La plebaglia di Napoli aggredisce San Gennaro". The Graphic, 1 giugno 1872)

LA STORIA MAGRA

DALLA SCUOLA MODALITÁ DI VITA LEGALI

Prosegue il percorso degli studenti del “Mazzini” di Napoli per diventare porta voce di modalità di vita legali. Prossima tappa, il Centro Prevenzione Abusi sull”Infanzia. Di Annamaria Franzoni

E procede alla grande l’impegno dei giovani del Liceo delle Scienze Umane “G. Mazzini” di Napoli “dentro e fuori” la scuola, per riflettere sulle modalità di vita legali e divenirne porta voci nella scuola, nella famiglia e nella società: la prima fase si è conclusa con le risposte che gli studenti stessi si sono dati, dopo aver vissuto l’esperienza diretta nei luoghi di lavoro e con le persone direttamente coinvolte, sul ruolo, sulle competenze e sul funzionamento della Municipalità e soprattutto su come quest’ultima si ponga al servizio del cittadino.

In particolare l’interesse dei giovani si è indirizzato alla Municipalità Junior che è nata da 17 anni in ogni provincia e la cui elezione avviene ogni 2 anni; essa vede al suo vertice un Presidente Junior ed ha il ruolo di informare e far conoscere ai ragazzi com’è organizzato il Comune e la sua funzione.

La seconda fase ha visto i ragazzi impegnati presso la sede del FAI del C.so Umberto di Napoli per conoscere, discutere ed affrontare le complesse problematiche del racket e dell’usura, diffuse in modo particolare al sud e che consentono alla criminalità organizzata di penetrare nell’economia legale piegandola all’illegalità. Il “pizzo”, infatti, costituisce il più antico strumento economico di acquisizione dei capitali da reinvestire in attività di controllo del territorio da parte delle organizzazioni criminali.

Le riflessioni che sono nate a seguito del confronto con gli operatori del centro antiracket e antiusura, stimolate dai docenti che hanno ideato e che stanno realizzando il progetto, Gianfranco Tescione e Maria Luisa Nolli, sono state di grande spessore e hanno portato i giovani a vedere nel FAI una concreta possibilità di risoluzione del problema, pur rendendosi conto del fatto che la speranza che diventi realtà esula dalle risorse della Federazione.

I ragazzi, in particolare Sandra Marra, Alessia Tamburrini e Claudia Di Dio, che hanno poi relazionato sul lavoro svolto, sono entrati negli aspetti operativi e pratici facendo domande pertinenti alle modalità per accedere al fondo e alla tipologia di cittadini che possano farlo. Gli operatori hanno soddisfatto in modo semplice e chiaro a tutti i quesiti, raccontando casi ed episodi che hanno affascinato le giovani menti.

Il prossimo appuntamento è per il giorno 15 aprile presso il Centro Prevenzione Abusi sull’Infanzia della ASL, per affrontare un’altra spinosa problematica per affrontare la quale si è partiti dalla lettura e riflessione sull’articolo di Daniela Condorelli: “ 400mila bambini assistono a violenze in famiglia. I rischi: analoghi a quelli di abusi realmente subiti. Ansia, depressione, bassa autostima e il peggiore di tutti, diventare come chi prevarica. Come intervenire?”pubblicato su La Repubblica lo scorso 26 marzo e che ha dato il via alle prime emozioni su cui si baserà il lavoro delle prossime settimane.

LA RUBRICA
http://www.ilmediano.it/aspx/visCat.aspx?id=29

LIBIA, “TERRA INCANTATA”

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In Libia è guerra? Ma no! Si sta solo attuando la risoluzione dell”ONU 1973:Di Giovanni Ariola

Il prof. Carlo è stato assente tre giorni dall’Istituto perché ha partecipato ad un convegno organizzato dalla Biblioteca Nazionale di Torino su “Lingua e linguaggi dell’Italia Unita”, tenendo una relazione sul ruolo fondamentale svolto da Francesco De Sanctis, in qualità di ministro della Pubblica Istruzione nei gabinetti di Cavour e Ricasoli, nella creazione di un ordinamento scolastico nazionale, e, come letterato e intellettuale, nello sviluppo culturale (linguistico, letterario, storico e filosofico) negli anni difficili del periodo postunitario.

Stando a Torino, ha colto l’occasione per fare una visita al Palazzo Madama, che affaccia sulla stupenda Piazza Castello, con il Palazzo Reale in fondo, (più grande certo ma non più bella di Piazza del Plebiscito qui a Napoli); ha potuto sedersi così sui banchi del Parlamento Sabaudo, appositamente ricostruito per l’occasione del 150° anniversario della nostra nazione e ha assistito alla simulazione della storica seduta del 17 marzo 1861 in cui fu votata la legge che proclamava la costituzione del Regno d’Italia.

Con i colleghi poi si è concesso un giro rapido e una capatina nei caffè storici della città (“Fiorio”, “Baratti &Milano”, “Torino”, “Platti”, frequentati rispettivamente da Cavour, D’Azeglio, De Gasperi, Pavese), con la degustazione del tipico bicerin (= bicchierino – per modo di dire, in realtà un bicchierone o calice tondeggiante – sul cui interno è stato spalmato cioccolato fondente prima di versarvi il caffè, il tutto infiorato a richiesta da uno spruzzo di crema di latte dolcificata con uno sciroppo particolare, insomma tonico e corroborante).

Dall’euforia patriottica tricolore e calorosa della prima capitale d’Italia al grigiore del salone dell’Istituto, a malapena diradato e schiarito da un sole ballerino, tipico di marzo, che “mo’ trase e mo’ esce” (=appare e scompare, ora fuori dalle nuvole ora di nuovo coperto da esse), ma reso greve e opprimente dalle notizie che assalgono e quasi azzannano dai giornali, inoculando nel malcapitato lettore la loro dose di veleno depressivo quotidiano.

In verità i giornalisti stanno diventando sempre più creativi e ci deliziano il palato linguistico con una terminologia infiorata di metafore e figure retoriche varie, alcune non altro che immagini vizze rispolverate, stereotipi patetici e pietosi, altre più orignali: onda di morte sul Giappone, il Nordafrica in fiamme, effetto domino nel susseguirsi delle rivolte, vento di guerra,… Mubarak, l’ultimo faraone,… Odissea all’alba (chissà perché? Che vorrà dire questa espressione misteriosa partorita dalla mente di qualche cervellone del Pentagono? Del resto siamo abituati a simili fiori poetici, che giungono da oltreoceano, basti pensare a Desert Storm = Operazione di guerra per liberare il Kuwait nel 1991, o a Restore Hope = Riportare speranza, nome dato alla missione di soccorso in Somalia nel 1992).

Esilarante l’immagine degli immigrati spalmati sulle varie regioni. Che goduria poi a leggere le consolanti (!!!) espressioni metonimiche: i dubbi del Colle (= del Presidente della Repubblica – il luogo dove risiede per la persona residente), l’irritazione del Colle, le preoccupazioni del Colle e simili.! Ma la chicca è la perifrasi con cui viene sostituita la parola guerra: in Libia si sta bombardando, ma non si sta facendo la guerra, si sta semplicemente attuando la risoluzione dell’ONU 1973, quindi un’operazione legale, lecita, pulita, persino nobile…evviva!

La Libia, già solo con il suo nome, evoca nella mente del prof. Carlo ricordi e pensieri che per la loro eterogeneità stentano a trovare un qualche ordine. Si impone il ricordo di una persona, una sua collega, Antonietta L., insegnante di Inglese, che, cacciata con la sua famiglia da Gheddafi nell’ottobre del 1970 e costretta a rientrare in Italia senza ricevere nessun compenso per i beni che le erano stati confiscati, raccontava degli anni della sua fanciullezza e della sua prima giovinezza, lì in quella terra avara, per i due terzi desertica che i coloni italiani avevano tentato di bonificare e di far fruttare.

– Per fortuna – ne parla, il prof. Carlo, con il collega Eligio – il padre aveva provveduto con notevole anticipo a trasferire in Italia un congruo gruzzolo con il quale potè acquistare un piccolo podere a Cisterna di Latina che poi trasformò in una vigna rigogliosa, come d’altronde fecero in molti nelle sue condizioni. Ora appunto in quei poderi dove prima si vedevano distese di frumento e si udivano i muggiti delle mucche, ora sono coperti dal verde delle viti piantate e curate con enorme pazienza. Anche questi infelici bisogna ricordare, quando si parla di emigrazione e immigrazione. Ricordo che Antonietta parlava con nostalgia di quegli anni vissuti laggiù, in particolare rievocava non senza commozione, le fantastiche sere e notti lunari, le voci misteriose e inquietanti che giungevano col vento dalle lontananze desertiche…

– A me la Libia evoca altri ricordi – dice il prof. Eligio –, ricordi lontani dei banchi di scuola. Apprendemmo, traducendo Igino. di Libia come personaggio mitologico…. “Iuppiter Epaphum, quem ex Io procreaverat, Aegypto oppida communire ibique regnare iussit. Is…ex Cassiopea uxore procreavit filiam Libyen, a qua terra est appellata” (“Giove ordinò a Epafo, che aveva avuto da Io, di fortificare le città dell’Egitto e di regnare su quel paese…sua moglie Cassiopea gli partorì una figlia Libia, da cui prese nome la sua terra”) (Da "Caio Giulio Igino, Fabulae", traduzione di Giulio Guidorizzi, in “Igino, Miti, Adelphi Edizioni, 2000).
– …da Epafo a Fetonte – soggiunge il collega – al suo folle viaggio sul carro del padre Sole il suo avvicinarsi troppo alla terra fino a desertificarne gran parte: “tum facta est Libye raptis umoribus aestu,/ arida…” (“allora la Libia divenne deserto per l’essiccarsi dei suoi umori nel fuoco” come narra Ovidio ( “Metamorfosi”, II, 237-38, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondatori Editore, 2005)…

– ….ma ci sono ricordi più vicini e più scottanti – riprende il prof. Eligio – i racconti di mio padre che partecipò alle operazioni di guerra al comando del generale Rodolfo Graziani nel 1930/’31 per la “pacificazione” (si fa per dire) del Fezzan, nel sudest libico, fu ferito nella occupazione dell’Oasi di Cufra e quindi rimpatriato. A volte gli capitava di canticchiare “Tripoli bel suol d’amore,/ ti giunga dolce questa mia canzon!/ Sventoli il tricolore/ sulle tue torri al rombo del cannon….Tripoli, terra incantata,/ sarai italiana al rombo del cannon!….( Canzone di Giovanni Corvetto, con musica di Colombino Arona, che celebra quest’anno il suo centesimo compleanno come la Campagna di Libia nella guerra italo-turca). Canticchiava ma senza nessuna nostalgia per carità, piuttosto con brividi di dolore nel rievocare le fatiche, gli stenti, le paure e i morti tanti morti là nel deserto…

– Sì, c’è tanto sangue italiano in terra di Libia mescolato a quello, altrettanto abbondante, versato dagli indigeni a causa delle nostre armi…
Squilla un cellulare, quello del prof. Carlo che, verificato il numero e riconosciutolo per quello del collega Permario, inserisce il vivavoce

– Chiamo da Bengasi…sarò assente alcuni giorni…sono riuscito ad imbarcarmi su una nave che portava aiuti umanitari…non ho resistito, ho voluto constatare di persona e avere notizie di alcuni amici, italiani e libici che lavorano tra l’Università di Bengasi e la Grande libreria nazionale Daral Kutub.

Purtroppo questa l’ho trovata chiusa…all’Università ho trovato un vecchio docente che ho conosciuto a maggio dell’anno scorso a Tripoli, presso l’Istituto Italiano di Cultura, in occasione della conferenza di commemorazione, a quattro mesi dalla morte, di Khalifa Mohammed Tillisi, uno dei più grandi scrittori libici e illustre italianista che ha avuto il merito di far conoscere nel suo paese la nostra letteratura: Pirandello, Sciascia, Buzzati, Montale…l’amico Mohammed mi ha detto che, quando è cominciata la rivolta, molti sono andati via da Bengasi e se ne stanno nascosti per paura di rappresaglie, in attesa che la situazione si chiarisca…forse i più giovani si sono uniti agli insorti…

La comunicazione si interrompe e risulta vano ogni tentativo del prof. di chiamare a sua volta.
– Chissà se Tripoli potrà ritornare ad essere “bel suol d’amore”, “terra incantata” – sospira il prof.Eligio…
– Per i Libici soprattutto, liberi e uniti – soggiunge il collega – e un po’ anche per noi Italiani…ma per carità senza più “il rombo del cannon”!

LA RUBRICA

LE FONTI D”ENERGIA – LE CENTRALI FOTOVOLTAICHE

La società complessa, articolata, industriale e post-industriale ha bisogno di elettricità. Vediamo se le centrali fotovoltaiche possono rappresentare un”alternativa alle tradizionali fonti di energia.

Questo sesto articolo affronta un preciso quesito: grandi centrali fotovoltaiche possono fornire tutta l’elettricità di cui abbiamo bisogno e, quindi, rappresentare una valida alternativa alle centrali alimentate da combustibili fossili, uranio compreso?

LE CENTRALI FOTOVOLTAICHE
 

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