Il grande Gianni Brera oggi scriverebbe che la città deve andare a lezione dalla squadra di Mazzarri, per imparare a combattere fino all”ultimo minuto dell”ultimo recupero. Di Carmine CimminoUno dei padri del mito della Padania fu Gianni Brera, ma i padani di oggi fanno bene a non ricordarsene. Oggi, non sarebbe uno di loro, perché Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo della seconda metà del ‘900, era figlio di un’ “altra“ Lombardia: quella nobile e schietta di Manzoni, di Porta, di Dossi, di Gadda. Brera fu fabbro e orafo di immagini: sarebbe difficile trovare nei suoi scritti e nei suoi discorsi una parola spenta o vuota.
Egli scrisse pagine di maschia malinconia sul Po, padre ubriaco – lo ubriacano i vigneti preziosi delle colline che attraversa già al suo nascere -, e sulle nebbie della Bassa, in cui immaginava che fieri e forti contadini conservassero ancora, nelle membra e nelle passioni da guerriero, il sangue puro dei Liguri, dei Galli, dei Longobardi, e degli Unni. Fieri e forti, ma pochi: alcuni in Lombardia, anzi in Lomellina, altri in Piemonte, altri ancora tra l’Emilia e il Veneto. Brera rispettava i Toscani, quelli delle colline, perché li vedeva eredi degli Etruschi, a rappresentare, con i Liguri, l’Italia arcana, prima che i Romani, i Greci, gli Arabi e gli Spagnoli, contaminandola nel corpo e nello spirito, la riducessero a una terra di gobbi, “simili a Leopardi e a Ciccillo Cacace”.
Troppi conquistatori si sono alternati in Italia, e troppo rapidamente: è venuta fuori una confusione di “sangue e di geni“, e da qui, e dalla tavola povera, la nostra eterna fiacchezza, “l’abbioscia storica“. Era fatale che Gigi Riva e Roberto Boninsegna infiammassero la sua ispirazione e la sua penna e lo portassero a sentirsi, veramente, l’Omero del giornalismo sportivo, quando forgiava per i suoi eroi i nomi rimasti nel nostro patrimonio linguistico, “Rombo di Tuono“ e “Bonimba“, mentre Coppi e Bartali erano i “principi della zolla“. Brera pensava che Facchetti, il mitico terzino dell’ Inter di Herrera, “fosse un grandissimo centravanti in potenza”: “però bisogna fargli un gioco adatto, mica chiamarlo ai triangolini masturbati e impossibili”.
E poiché Herrera continuava a schierarlo a terzino e a frenarne l’ impeto ciclopico, nel giugno del ’69, commentando una Inter-Juve, il giornalista sbottò: ”Vedo corricchiare con ineffabile eleganza Facchetti e penso a Ribot attaccato alle stanghe di un menalatte“: Ribot, il cavallo che ha scritto la leggenda del galoppo, attaccato alle stanghe del carrettino del latte. Brera schedò Rivera come “abatino“, e così dichiarò guerra ai giornalisti “riveriani“: fu una guerra aspra e lunga, sebbene egli riconoscesse che Rivera aveva del genio: ma era un “abatino“, non un guerriero, non un atleta: era, nel calcio, il rappresentante di quegli italianucci gobbi e rachitici, allevati alla malizia sacrestana, che i romanzi inglesi, “gotici“, “gialli“ e “noir“, usano spesso come assassini armati di veleno e di pugnali traditori.
Brera combatté sanguinose battaglie anche con i giornalisti della “scuola napoletana“, guidati da Gino Palumbo, i quali si entusiasmavano per il gioco d’attacco e per le partite dai molti gol. Sconsiderata ignoranza: perché si fanno molti gol solo sui campi dove si affrontano brocchi e scartine, e perché un popolo di gobbi deve aggrapparsi al catenaccio e al contropiede. Andassero a rileggersi Cesare, che allenando i suoi romanucci al catenaccio e al contropiede, era riuscito a fare macelli di Galli e di Germani. Dicessero la verità ai napoletani, Palumbo e i suoi:
“Nessuno ha mai detto ad alta voce che il sentimento di Napoli è scarso logorio di casseruole e snervante vento africano…Il Napoli, gloriosamente privo di napoletani, era ai miei occhi il simbolo fallace di una città in cui neppure i circensi sono adeguati ai bisogni della gente. Vinceva strabilianti partite fuori casa, lontano dallo scirocco, e ne perdeva di straordinarie all’umido e afrodisiaco tepore del suo golfo. Nulla mi sorprendeva, conoscendo Jean Bodin, Botero e un po’ tutti quanti hanno scritto di rapporti tra etnica e ambiente”.
Era il 1961, e la squadra del Napoli attraversava un momento buio della sua storia quasi sempre luminosa. Brera ammise, quasi trenta anni dopo, che lo scirocco può essere vinto dal genio di un Maradona, a patto, aggiunse, che quel genio venga sostenuto e protetto dai muscoli guerrieri del gallo sénone Salvatore Bagni, e si lasci guidare dal gallo insubro Ottavio Bianchi. Oggi, il clima non è più quello di una volta, e lo scirocco non abita più qui: ci viene a trovare di tanto in tanto, e solo per un caffé. Oggi Brera scriverebbe che la città deve andare a lezione dalla sua squadra di calcio: alzarsi in piedi bisogna, e sollevare la testa, e combattere, fino all’ultimo minuto dell’ultimo recupero. Perché, se la storia sociale del calcio ha un senso, il Napoli di Mazzarri è una eccezione, non corrisponde, in questo momento, allo spirito della città visibile: il Napoli ha voglia di imporsi e di vincere e ha forza e muscoli, e ha il genio uruguagio di Cavani, maturato al sole di Palermo.
È una squadra di fatti e di chiacchiere seguite da fatti. La città visibile, invece….Oggi Brera scriverebbe l’elogio di Mazzarri, ricorderebbe qualche sua mattana di quando vestiva la maglia della Fiorentina, e non trascurerebbe il fatto che è di San Vincenzo, là dove il vento del Tirreno e la luce dell’alta Maremma e i silenzi delle Colline Metallifere, riflessi nel lago dell’ Accesa, scolpiscono, in certi volti e in certi gesti di pescatori, di contadini e di cavallai, il ricordo del sangue etrusco: sangue di misteri, di incantamenti, di furba ironia e di teatro.
Gianni Brera mangiava spaghetti solo al ristorante milanese “A Santa Lucia”, dei fratelli Legnani, modenesi innamorati della cucina napoletana, e da don Antonio, patròn di un mitico ristorante di Napoli, il “Dante e Beatrice“. Leggendo certi articoli, ho sempre sospettato che Brera venisse a Napoli non tanto per seguire la partita della domenica, ma per passare la giornata nel ristorante: “Partecipo alle ansie dei camerieri e di Don Antonio, quando uno bussa a tressette in quattro, e il compagno lo lascia incopp e spine“. Come alcuni grandi giornalisti di sport, Brera fu un notevole scrittore di vini e di cibo: la storia di un popolo si legge nei piatti della sua tavola e nelle sue battaglie (di cui le vicende sportive sono la versione in tempo di pace).
Il padano Brera era persuaso che il dio del vino abitasse tra i vigneti dell’Oltrepò, e difese questo baluardo della sua dottrina enogastronomica strenuamente, senza cedere di un passo, anche a costo di rompere l’amicizia con il piemontese Mario Soldati.
Brera metteva sotto i vini prediletti minestre di riso, pesce persico e anche rane. Ma il rutilante corteo degli antipasti di don Antonio, lo sfolgorio dei peperoni acconciati in dieci diversi modi, il profumo acuto dei friarielli, i broccoli, le melanzane, e la nobiltà tutta dell’orto napoletano, l’arte squisita di camerieri che erano filosofi e attori magistrali, e le voci e i rumori di piazza Dante, che era stata mercato di cibi, e si sublimava all’improvviso, in certi pomeriggi, nella silente forma di una piazza metafisica pensata da Carrà e dipinta da De Chirico: tutto questo era un fascinum, una fattura, per gli occhi di Brera, che vedeva crollare, nella meditazione aperitiva e digestiva, tutte le certezze su Napoli, e si ritrovava, come il suo amico Soldati, nelle grinfie del dubbio:
Ma che città è mai questa? E poiché la risposta tardava, immagino che chiamasse l’amico cameriere e gli chiedesse un’altra porzione di frittata. Una qualsiasi, delle mitiche frittate di “Dante e Beatrice“.
(Fonte foto: Rete Internet)