Centri commerciali e negozi di prossimità: problematiche e tendenze

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Botteghe storiche che si arrendono, città costrette a cambiare volto e centri commerciali ridenti e caotici.

Acquistare in centri commerciali o presso grandi distributori è una tendenza ormai consolidata da anni, e trasversale a tutta l’Italia. A rimetterci sono le piccole botteghe e i negozi di piccole dimensioni. Il rischio che si corre è la loro scomparsa, assieme allo svuotamento dei piccoli borghi.

I motivi per cui oggi un negozio “di prossimità” dovrebbe poter chiudere sono veramente tanti, troppi. Tasse alte, affitti esorbitanti, consumi compressi e concorrenza dei centri commerciali. A pagarne le conseguenze non sono solo i commercianti, ma gli abitanti delle città e dei paesi che necessariamente cambiano volto. Troppo spesso sono le vetrine storiche della città a spegnersi: basti pensare alla libreria Guida a Port’Alba che ha chiuso dopo 95 anni.

Ma quanto la crisi ha cambiato le nostre abitudini? Quanto questo trend è stato intaccato? Poco. Nel 2014 sono spariti 260 negozi al giorno, mentre i fatturati dei centri commerciali sono aumentati. I primi dati provengono dagli studi dell’Osservatorio Confcommercio, la cui ricerca è indirizzata alla registrazione del numerod’imprese iscritte e cancellate alle camere di commercio, con particolare riguardo ai settori del terziario di mercato e con informazioni più disaggregate su commercio al dettaglio, servizi di alloggio e ristorazione. Il saldo, tra chi ha sollevato e chi ha abbassato la saracinesca, è negativo: 77.874 imprese commerciali. Il confronto con l’anno precedente è altrettanto negativo; il che è attribuibile ad entrambi i fronti: si registra sia un aumento delle cessazioni che un ridimensionamento delle nuove iscrizioni.

Il settore food è quello che registra un saldo più pesante, in particolare macellerie, fruttivendoli e panifici. Nei negozi non food tagli pesanti si registrano per i tabacchi, le edicole, le ferramenta e le stazioni di carburanti. Per di più Confcommercio specifica che il saldo del Mezzogiorno è più pesante rispetto a quello del Nord, di circa 7.000 unità. Nei primi sei mesi del 2014, tra Napoli e provincia, hanno serrato le saracinesche 2.244 negozi e 591 tra bar e ristoranti.

Atmosfera completamente diversa quella che si respira nei retail center. Il settore dei centri commerciali italiani porta un sospiro di sollievo in un panorama complessivo altrimenti non roseo; bisogna però fare una differenza tra settore alimentare ed abbigliamento. In effetti gli ipermercati sono gli unici a mostrare ancora un segno negativo, mentre l’abbigliamento tocca un aumento del fatturato del 2,5% rispetto ad una media di settore del + 1,1%.

L’aspetto veramente importante però è l’affluenza: 1,8 miliardi annui. È il primo dato a cui guardare, poiché rappresenta il numero di persone che scelgono di impiegare almeno due ore in un centro commerciale, di spendere i soldi per la benzina per giungervie poi eventualmente comprare nei negozi. Anche se per una percentuale, relativamente alta, resta solo una eventualità il centro commerciale ha comunque una clientela sulla quale poi indirizzare gli sforzi per aumentare la redemption, vale a dire per aumentare la percentuale di risposte ottenute su messaggi inviati, in termini di operazioni promozionali e vendite.

Oltre alla grande distribuzione organizzata, la concorrenza ai negozi è amplificata dai retailers online. Le agenzie di viaggio, i negozi di musica, gli home video, le librerie o le edicole sono inevitabilmente colpite dallo sviluppo del commercio in rete: ogni due aperture quattro chiusure, per “obsolescenza”. L’ultima novità del commercio online, tra l’altro, è l’e-commerce di prossimità: tecniche e tecnologie per consolidare i rapporti con partner e clienti territoriali.

La preoccupazione consistente non è solo legata al lato economico della questione,ma anche al fatto che i centri abitati stanno lentamente cambiando la loro identità.