Da un lato la globalizzazione, dall’altra la lingua.
L’esigenza di preservare l’integrità della lingua italiana sembra cozzare con la globalizzazione.
I social hanno aumentato, esponenzialmente, la velocità di comunicazione e la tecnologia ha ridotto, virtualmente, le distanze. L’accessibilità a contenuti, di tutti i tipi e provenienti da qualsiasi fonte, rende semplice la conoscenza; tale facilità non è però, necessariamente, una strada diretta all’apprendimento. Spesso accade il contrario: la continua, immediata, illimitata, disponibilità d’informazioni impigrisce e disabitua all’esercizio della memoria, tanto è sempre tutto lì, basta un click.
Si tratta di abitudine anche per il linguaggio. L’ingresso di parole straniere nel vocabolario italiano non è cosa nuova; si pensi a computer, test, ticket, budget: sono parole, ormai, di uso comune, tanto da essere state dissociate dalla matrice linguistica. Naturalmente, più tempo passa dall’ingresso di una parola, più se ne consolida l’uso. I social sembrano avere accelerato questo processo, sembrano aver eliminato, del tutto o in parte, le tempistiche “fisiologiche” acché una parola diventi di “uso comune”.
Se in passato l’italiano riceveva un’influenza particolare dal francese, ad oggi i “forestierismi” provengono, quasi unicamente, dall’inglese; ciò avviene in Italia, come nel resto del mondo, alla stessa maniera e quasi nella stessa misura. Similmente al processo di apprendimento, l’uso ricorrente di parole inglesi non è sinonimo di un miglioramento del livello di inglese degli italiani.
Selfie è probabilmente il simbolo di questa società, anche se Word lo segna ancora in rosso! Nelle nostre menti autoscatto non si avvicina nemmeno lontanamente al concetto che vogliamo esprimere, né ci passa per l’anticamera del cervello quando dobbiamo comunicarlo.
Un altro simbolo di un’era è manager, un modo elegante per definire colui che gestisce qualcosa, qualsiasi cosa. Sintomo di cambiamento è il fatto che, a volte, l’essere all’oscuro di determinate parole può precludere la comprensione. Provate a leggere un annuncio di lavoro, specialmente nel settore economico: potreste ritrovarvi a chiedervi in che lingua è scritto.
Di fatti, nel mondo del lavoro, dalle aziende alle scuole, questo processo di contaminazione linguistica è particolarmente spiccato. Un colloquio è un interview, una telefonata è una call, una riunione un meeting, un pranzo è un lunch, le capacità sono skills. Qualcuno starà ridendo, ma provate a googlare “aziendalese” oppure “linguaggio dei meeting”. Gli italiani, gioventù compresa, sembrano dividersi a metà. C’è chi trova ridicola questa nuova moda, ritenendo che di moda trattasi: una maniera di ostentare l’appartenenza ad un mondo. C’è chi, invece, fa proprie delle parole perché immediate e, paradossalmente, più comprensibili dell’italiano; è caratteristica dell’inglese la flessibilità e la sintesi. Un caso esemplare è briefing, in italiano una riunione di un team al completo per fare il punto della situazione, sintetizzare gli obiettivi e distribuire i compiti.
Probabilmente entrambi i versanti hanno le proprie ragioni. È innegabile, però, il ruolo che i media ed i social giocano nel generare, dal nulla, un modello e renderlo un’abitudine.