Il paradiso degli orchi

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Nicolas Bary porta al cinema il primo romanzo della fortunata saga di Daniel Pennac su Benjamin Malaussène, professione capro espiatorio.

 Per i film tratti da libri di successo i problemi sono sempre gli stessi. Il paragone con il testo sarà a portata di mano (e di critica). I fan del libro saranno i più difficili da accontentare: o ci si discosta troppo dall’opera originale, se ne perdono spirito, significato, personaggi, oppure troppo poco, facendo un calco ovviamente meno efficace.

Quelli che non hanno letto il libro portano problemi non meno complicati; al regista può succedere di dare per scontati alcuni passaggi nella trasposizione, così lo spettatore si trova davanti un film monco. Oltre ai fan spietati, che difficilmente perdonano qualcosa, il regista deve confrontarsi con problemi oggettivi come l’assenza di un narratore (la voce fuori campo fa spesso danni) e l’impossibilità di tirare fuori “a parole” i pensieri dei suoi personaggi. Insomma, l’impresa è sempre complicata. Non impossibile però; un genio come Kubrick ha costruito quasi per intero la sua filmografia su opere narrative, Altman ha riletto con successo Carver, Tarkovskij con Solaris e Scott con Blade Runner hanno sfidato dei classici della fantascienza e così via, la lista è lunghissima.

L’idea di trarre un film dalla saga di Malaussène dello scrittore francese Daniel Pennac non è nuova. La componente grottesca, l’importanza dell’ambientazione e la stramberia dei protagonisti, con uno stile di scrittura semplice e serrato, suggerivano il passaggio al cinema. La carrellata tra il malinconico e il divertito su personaggi e situazioni bizzarre, in una Parigi quasi onirica, ricorda subito l’esperimento de Il favoloso mondo di Amelie. E Jeunet, probabilmente, sarebbe stato un regista perfetto per un altro personaggio naif e sognatore come Malaussène e per tutta la sua cricca.
Invece a “tradurre” Il paradiso degli orchi – primo capitolo della saga – è stato il semisconosciuto Nicolas Bary, al secondo lungometraggio.

L’impresa non era impossibile, come si diceva. Lo stile, il ritmo e la storia del libro di Pennac strizzano l’occhio al linguaggio del cinema (soprattutto di un certo cinema francese). Fattibile, ma difficile: come mettere d’accordo gli adoratori di una delle saghe cult degli ultimi 30 anni e lo spettatore neutrale? Bary ci prova e, pur tra molti limiti, fa un film che riesce a guadagnarsi un’onesta sufficienza.

Benjamin Malaussène fa di mestiere il capro espiatorio ai Grandi Magazzini. Il capo lo chiama quando ci sono clienti imbufaliti per guasti nei prodotti, gli fa una partaccia, lo umilia, lo minaccia di licenziamento, spingendo così i clienti a ritirare le denunce. Un mestiere infame, ma necessario per sfamare la sua “tribù”: 4 fratelli strampalati (una veggente, un aspirante bombarolo, un ragazzino sordo, la sorella incinta), figli della stessa madre – brava solo a sfornare bambini e a girare per il mondo – e di padri ignoti. La vita del mite Banjamin verrà stravolta da una serie di attentati ai Grandi Magazzini, che lo metteranno al centro delle vicende come principale sospettato.
Togliamoci il dente.

Dove il film perde rispetto al romanzo? La domanda è noiosa, ma inevitabile. Al film di Bary manca uno dei protagonisti del libro di Pennac: Belleville. Il quartiere parigino, quello che rappresenta, è un motore fondamentale del romanzo, con le sue strade, i personaggi, l’atmosfera di frontiera di un quartiere periferico nel quale confluisce il mondo intero. Tutto questo nel film si vede poco, fino ad arrivare quasi ad un’indifferenza nell’ambientazione che diventa un limite. Non solo nei confronti del libro, ma in assoluto.

Per il resto il film marcia bene, con ritmo e leggerezza. Bary mette in secondo piano la parte più oscura del romanzo ed esalta la componente naif. I personaggi sono abbozzati, la profondità del romanzo è lontana, ma riesce a farci sorridere e affezionare. La trama vola a mille all’ora, forse è un altro limite, ma la compressione del romanzo nella forma-film richiede questa intensità e il regista se la cava discretamente. Un paio di personaggi chiave per la storia degli attentati avrebbero richiesto un approfondimento maggiore per rendere più coerente il racconto, ma a voler far tutto in novanta minuti non si concluderebbe niente.

Alla fine Bary ottiene il risultato più importante. Il suo Paradiso degli orchi può stare in piedi da solo, con tutti i difetti e i pregi che un film può avere, ma senza la continua ossessione del romanzo.
È un’opera autonoma, con alcuni limiti ma godibile. Il fan di Pennac può guardarla (se mette da parte il testo), gli altri si divertiranno, tutti potranno godere di gag e personaggi spassosi e una regia con tante buone intuizioni. Missione compiuta.

Regia di Nicolas Bary, con Bérénice Bejo, Emir Kusturica, Raphaël Personnaz, Ludovic Berthillot, Leila Anaïs Schaus, Régis Romele, Guillaume De Tonquedec
Durata: 90 minuti
Genere: commedia nera
Uscita nelle sale: 14 novembre 2013
Voto 6,5/10

(Fonte foto: Rete Internet)

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