Un caffè con…Antonio Menna

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Antonio Menna

 

Antonio Menna
Antonio Menna

In una conversazione informale e leggera, le parole, l’ironia, i gusti di uno scrittore che, con il suo ultimo libro, sta mietendo successi anche Oltralpe. Il suo segno zodiacale è il Sagittario e come sempre accade per questa rubrica, troverete il suo tema natale allegato alla fine dell’intervista.

Lui è nato nell’anno delle rivolte, dei movimenti studenteschi, delle ribellioni. E l’aria da ribelle, un ribelle insofferente e un po’ misantropo, in particolare quando si lascia crescere la barba, ce l’ha tutta. Antonio Menna, giornalista professionista, scrittore, nasce a Potenza «per caso» ma è napoletano fino al midollo, ancor di più quando va via per un po’ e poi ritorna. Una laurea in Scienze Politiche, un master in progettazione sociale, sceglie la sua strada – il giornalismo – già a 13 anni. Ha diretto piccoli giornali locali, firmato molte inchieste, collaborato con decine di testate: Il Mattino, Liberazione, Il Manifesto, La Voce della Campania, tra le altre. Si occupa di uffici stampa e comunicazione, da qualche anno per più parlamentari, e divide il suo tempo tra Napoli e Roma. Non si è fatto mancare nulla: consigliere comunale a Marano per tre mandati consecutivi, assessore alle Politiche sociali e alla Cultura. Autore di numerosi racconti pubblicati in varie raccolte, ha ottenuto premi e riconoscimenti, ha scritto romanzi: «Cocaina & Cioccolato» (2007), «Baciami Molto» (2009), «Se Steve Jobs fosse nato a Napoli» (2012), «Tre terroni a zonzo» (2013). Il successo di pubblico, e di vendite, arriva per caso, con il libro pubblicato dopo la morte di Steve Jobs, fondatore della Apple. Già, per caso: scrive un post su facebook, lo condividono in centinaia di migliaia, e la Sperling e Kupfer gli chiede di farne un romanzo. A febbraio 2015 è uscito invece, con la casa editrice Guanda, il suo ultimo lavoro, un noir gustosissimo e scorrevole, tradotto e pubblicato anche in Francia: «Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli».

 

Antonio, hai natali potentini ma da quand’è che sei napoletano?

«Mi sono trasferito definitivamente a nove anni. Ma i miei genitori sono napoletani e ho sempre trascorso qui lunghi periodi. Diciamo che quando mio padre ha avuto l’agognato trasferimento nella sua città, ci siamo ricongiunti a Napoli».

Non hai mai pensato di seguire le orme di tuo padre e fare il poliziotto?

«Per carità. Ho un padre poliziotto e un fratello carabiniere. E io ho fatto l’obiettore di coscienza. Sono allergico ai battaglioni, alle divise, alle gerarchie».

Ho letto da qualche parte che hai deciso di fare il giornalista a 13 anni. Perché? C’è un motivo, una molla, che ti ha fatto scattare il desiderio irrefrenabile di scrivere per mestiere?

«Diciamo che nei miei sogni da bambino c’erano le redazioni. Il lavoro giornalistico vero. Penso che sia nato dal fatto che mio padre ogni giorno, da quando ne ho memoria, ha letto uno o due quotidiani, settimanali, mensili. In casa mia sono entrati sempre giornali a decine. Mi è venuto naturale entrarci dentro con i sogni e poi con i piedi».

Mi racconti di quegli anni?  Come hai cominciato?

«A sedici anni scrissi una lettera al capo della redazione di Pozzuoli del Mattino. Gli dissi che volevo fare il giornalista e volevo scrivere per Il Mattino. Lui mi telefonò e mi disse “vienimi a trovare”. Ci andai. Emozionatissimo. Era la prima redazione che vedevo. Mi disse che ero troppo giovane, dovevo completare gli studi e cominciare con qualche giornale locale. Mi incoraggiò, però. Tornai a casa gasatissimo. Mi presentai ad un mensile locale, a Marano, e cominciai a scrivere lì. Dopo un anno tornai alla carica col Mattino. Scrissi di nuovo al caporedattore di Pozzuoli e gli dissi che avevo fatto esperienza ed ero pronto per il Mattino. Lui disse “ok, proviamo”. Cominciai così a scrivere da Marano, come corrispondente. Dopo due anni mi diedero altre zone e poi cominciai a frequentare la redazione. Ebbi un contratto, l’articolo 12. Ma lavoravo di più. All’epoca ci chiamavano abusivi perché era vietato ai collaboratori stare in redazione. Ma quella era la sola porta di ingresso per i meno “protetti”. Ero il più giovane e l’ultimo arrivato. Il meno assiduo, c’erano altri due davanti a me. Ma ero certo che, in quel modo, prima o poi sarebbe arrivata l’assunzione. Invece, dopo un anno ci fu la prima crisi del Mattino. Chiusero le redazioni e si chiuse anche quella prospettiva. Non solo per me. Sono rimasto collaboratore. Non solo del Mattino».

Cosa è cambiato nel giornalismo da quell’epoca? Meglio, peggio?

«É cambiato tutto. Era più netta la distinzione tra professionisti e pubblicisti, tra redattori e collaboratori. Era chiaro il percorso: facevi una gavetta lunga, da pubblicista, sottopagato, vessato, sfruttato. Ma poi avevi la chance vera, definitiva. E se non arrivava, cambiavi mestiere. Facevi altro e restavi collaboratore. Insegnante, impiegato, avvocato. Se ti chiedevano che lavoro fai, ed eri pubblicista, non dicevi giornalista. Oggi é un limbo eterno. Una melassa indistinta. Non si capisce più chi fa il giornalista per mestiere, cioè ricavandoci il reddito per mantenersi (questo é il lavoro), e chi per hobby. Nella confusione, crescono gli improvvisati e diminuisce la professionalità».

Qual è il giornalista che ammiri di più?

«Riccardo Iacona».

Se potessi tornare indietro riproveresti la stessa strada?

«Senza dubbio. Ma con più determinazione e disciplina. Sono stato molto irrequieto, disordinato, disobbediente. Forse ero troppo giovane. Se in quegli anni mi fossi comportato in modo più maturo, meno discontinuo, forse ce l’avrei fatta. Non é un caso che io abbia avuto più fortuna coi libri che coi giornali. Ci sono arrivato con un’altra determinazione».

Se un giorno dovessi avere un figlio gli consiglieresti, se avesse questa aspirazione, di fare il giornalista?

«Gli consiglierei di coltivare passioni e aspirazioni con tutto se stesso. Ma di darsi un tempo. Oltre i 30 anni, insistere su una strada che non dà risultati, non é passione, é ottusità. Bisogna anche essere pratici e guadagnarsi da vivere. Essere autonomi».

Quando hai scritto il primo racconto?

«Ho scritto direttamente un romanzo,avevo circa sedici anni. Lo mandai a un concorso bandito da Panorama. Presidente, Enzo Biagi. Vinse Lara Cardella, con “Volevo i pantaloni”. Del mio romanzo si persero le tracce. Lo scrissi a macchina, in copia unica, e lo mandai. Chissà che fine ha fatto».

Scegli sempre, per i tuoi personaggi, caratteristiche che ti appartengono? Qualcuno di loro ti assomiglia molto, penso tu ne sia consapevole.

«Non c’é mai un personaggio che corrisponde del tutto a me. Ma ci sono io in tutti i personaggi».

Quando parli con le persone ti capita di notare e “rubare” qualche caratteristica utilizzandola poi per dar vita a un personaggio?

«Sicuramente si raccolgono suggestioni dalla vita reale e poi si rielaborano. Ma non è una trasposizione fedele. Ci si prende molte libertà».

Come nasce un romanzo? Sei disciplinato quando scrivi, ti imponi un certo modo di vivere?

«Un romanzo nasce da una intuizione. Una sola idea, secca. Poi ci lavori. La scrittura é metodo. Niente di particolarmente poetico. Ma lavoro. Si segue uno schema, un impegno, si procede lasciandosi anche qualche libertà. Lo schema si può anche violare. Io riscrivo la scaletta cento volte fino alla fine. Ma se non mi dessi un metodo non terminerei mai una storia».

Cosa leggi e come scegli cosa comprare in libreria, ti fai attrarre dalla copertina, vai dritto su un determinato autore?

«Molta narrativa, pochi saggi, poca poesia. Preferisco le storie. Vado spessissimo in libreria. Quasi tutti i giorni. Ce le ho vicino casa e vicino a dove lavoro e non manco mai di entrare. Sfoglio tantissimi libri, li leggo un po’. Alcuni li compro. Mi oriento su gusti personali, sui temi, sulla qualità dell’autore, sulla storia».

Chi è lo scrittore napoletano che ti piace di più è perché?

«Tra i contemporanei, Viola Ardone e Gianni Solla. La prima perché ha una scrittura solida e viva. Il secondo perché é bravissimo a raccontare il degrado con poesia. Tra i “classici” , sicuramente Raffaele La Capria».

Chi vorresti leggesse un tuo libro?

«Sophie Marceau».

Se potessi invitare a cena chiunque al mondo chi sceglieresti?

«Sophie Marceau».

Perché la Marceau?

«Perché sì».

Qual è il tuo libro, o il racconto, al quale sei più legato e perché?

«Forse “Baciami molto”. Un libro imperfetto e sbagliato ma in cui ho messo tantissimo di me, e di certe tensioni che in quel momento mi attraversavano».

Sarà anche imperfetto e sbagliato ma è il libro tuo che preferisco. Quale, invece, porteresti con te su un’isola deserta se potessi sceglierne uno solo?

«Una raccolta di poesie. Magari di Fernando Pessoa. Le poesie le puoi rileggere mille volte ed è sempre la prima volta».

Tu l’hai mai scritta una poesia?

«No, sono troppo indisciplinato»

E intanto, su questa benedetta isola, chi porteresti? Una persona e altri due oggetti.

«Porterei il mio peggior nemico, per non annoiarmi. Poi, un coltello e un accendino.

Cosa è l’amicizia per te?

«Non ho avuto buone esperienze. Anzi, pessime. All’amicizia, oggi, associo solo la parola diffidenza».

Esiste tra uomo e donna?

«Sì, credo che possa esistere».

Che rapporto hai con la natura e gli animali?

«Con la natura, ottimo. Con gli animali, pessimo. Amo solo i gatti, hanno la nobiltà della strafottenza».

Hai dedicato un bel po’ di tempo alla politica. Quando hai iniziato a interessartene?

«Anche qui molto presto. Sono stato uno di quei ragazzi che passavano le serate ad attaccare manifesti e a discutere nelle assemblee. Mi sono laureato in scienze politiche e ho sempre ragionato sulla politica. Mi è capitato, poi, di fare per 15 anni il consigliere comunale e l’assessore. Dico capitato perché é stato casuale. Avevo 27 anni, mi candidai senza ambizione, arrivai sesto nella mia lista ed entrai solo grazie al premio di maggioranza. Poi ho continuato per molti anni, con alterne vicende. Ad un certo punto più per tigna che per convinzione. Quando ho capito che non avevo più alcuna motivazione mi sono ritirato».

Pensi di candidarti ancora? Perché si o perché no?

«No. É stata una esperienza molto negativa, soprattutto dal punto di vista umano. Ne sono ancora profondamente deluso e amareggiato».

Lavori alla Camera dei deputati, mi racconti senza far nomi un aneddoto divertente, una cosa che ti è capitata e che ti ha fatto ridere?

«C’é un anziano deputato meridionale, con cui non ho mai avuto alcun rapporto, che da sei anni, ogni volta che mi incrocia, mi dice “ciao Gaetano, come stai? A casa tutto bene?”. Mi ha preso per qualcun altro. Non ho mai avuto il coraggio di dirgli che si sbaglia».

Cambieresti qualcosa, e che cosa, nel sistema elettorale italiano a prescindere dalle proposte già in itinere?

«Per me le preferenze sono il male assoluto. Le ho sperimentate nelle elezioni comunali, premiano soprattutto gli imbroglioni, i clientelismi. Vanno cancellate. Storicamente il voto di opinione è sempre stato solo voto al simbolo, anche nella Prima Repubblica».

C’è una legge che consideri ingiusta e che, potendo, cambieresti domani?

«Io cambierei le norme sulla custodia cautelare in carcere. Trovo pazzesco che una persona debba stare in cella prima ancora che sia stato dichiarato colpevole di qualcosa. La riserverei a casi veramente eccezionali».

Qual é il politico italiano che ti fa più deprimere quando lo ascolti?

«Beppe Grillo».

Non sei il solo. Quello in cui hai fiducia?

«Tendenzialmente, nessuno. Alcuni mi sembrano più seri di altri. Ma la fiducia è una cosa rara».

Mai avuto problemi con la legge?

«Una citazione civile per diffamazione per due inchieste per il mensile la Voce della Campania sull’allora Gestline, ora Equitalia. Titoli: “Gestcrime” e “Indigest line”. Raccontavo di vessazioni e scandali. Cose note. Fui citato per danni. Chiesero due milioni di euro. In primo grado hanno pure vinto. Ma sono stato condannato “solo” a 5mila euro di multa. Siamo in appello».

Come ti vedi tra vent’anni e cosa pensi che scriverai?

«Mi vedo sottoterra».

Non avrai nemmeno settant’anni, sei la quintessenza dell’ottimismo dunque non ti chiedo nemmeno perché. Qual é il libro che vorresti aver scritto?

«Seminario sulla gioventù, di Aldo Busi».

Ti sei mai emozionato davanti ad un’opera d’arte? Quale?

«La prima emozione, da ragazzo, davanti al Cristo velato alla Cappella di San Severo, a Napoli».

Sai cucinare, fare il bucato, stirare una camicia?

«Non so cucinare ma so cuocere. Faccio il bucato e posso stirare una camicia. Con risultati non eccezionali».

Cosa é che detesti nelle persone?

«L’arroganza e la falsità».

Le religioni: invenzioni dell’uomo?

«Ho una educazione cattolica e sono felice di questo. Credo che buona parte dei miei valori nascano lì. Altra cosa è la fede. Credo che l’uomo, a contatto col suo limite, cerchi di superarlo chiamando Dio. Questo significa che non esiste? Non lo so. Non riesco a dirlo».

“Giove infuse nell’uomo molta più passione che ragione: pressappoco nella proporzione di ventiquattro a uno. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni”. Lo diceva Erasmo da Rotterdam. Tu sei più ragione o passione?

«Sono un passionale che combatte per razionalizzare quanto possibile. Ma perdo».

Matrimonio, convivenza o ciascuno a casa propria?

«Due persone che si amano vogliono vivere insieme. Matrimonio o convivenza, poco cambia».

Cosa guardi subito in una donna e perché?

«Il sorriso. Perché ne ho bisogno».

Certi sorrisi fanno male, lo dici nel tuo ultimo libro

«Ma senza non si può stare».

Vizi e virtù di Antonio Menna?

«I miei vizi sono di sicuro la gola e l’ira. Quanto alle virtù, l’onestà e la generosità».

Qual è il primo proverbio che ti viene in mente?

«Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».

C’è qualcosa che non faresti mai, per nulla al mondo?

«Sì, prendermela con chi è più debole».

Nel tuo ultimo libro racconti la condizione dei giornalisti precari. Secondo te perché si decide di lavorare per pochi spiccioli, sottostando a regole, spesso a vessazioni e il più delle volte in silenzio?

«Se lo si fa vuol dire che ce lo si può permettere. Se lavori per pochi spiccioli, qualcuno ti mantiene. Se devi mantenerti da solo, non puoi. Poi oggi trovare un lavoro degnamente retribuito é un’impresa e allora si tende a farsi bastare le cose, a vivere di poco, a mettere insieme più tasselli. Nello sfruttamento si decide sempre in due: chi sfrutta e chi si fa sfruttare».

Accade perché fare il giornalista ha ancora quell’aura di fascino che ti frega?

«Vale un po’ per tutte le libere attività. Conosco avvocati che fanno la fame. Ti metti la medaglia e dici che fai quello. In realtà, non lo fai. Ma di questi tempi, pare che mentire, innanzitutto a se stessi, sia indispensabile».

La noia è il male assoluto?

«La noia, almeno per me, é una compagna di viaggio. Mi annoio spessissimo».

Il film più bello che hai visto?

«Difficile sceglierne uno. Forse “C’era una volta in America”. Un’epopea di uomini e sentimenti».

La musica che ascolti più spesso?

«Dipende dai periodi. Due autori tornano sempre, Pino Daniele e Ivano Fossati».

Hai letto il Kamasutra?

«No».

Caspita, che lacuna. E «50 sfumature di grigio»?

«No».

Non ti sei perso nulla. Anche il sesso dopo un po’diventa noioso?

«Sì».

I tuoi ci credevano quando dicevi che volevi fare lo scrittore o il giornalista? Ti hanno sostenuto, incoraggiato, appoggiato?

«All’inizio, sì. Poi hanno cominciato a preoccuparsi. Poi si sono rassegnati».

Fai un rapido calcolo, quante donne hai baciato?

«Gesù».

Chiarissimo. Credi di essere affascinante?

«No, non lo credo affatto. Non sono bello e sono impacciato. Quindi, zero fascino».

Se vuoi il mio parere, lo dici per renderti affascinante. Cos’è che ti fa paura?

«La povertà».

Ti lanceresti da un aereo con il paracadute?

«Non ci penso proprio».

Cosa guardi in tv?

«Notizie, talk show giornalistici, un po’ di sport».

Se fossi a un colloquio di lavoro e dovessi convincere chi ti sta di fronte ad assumerti come ti “venderesti”?

«Sono un ingenuo ma mi “venderei” con la sincerità. So che non sempre paga e che oggi vince chi fa meglio il teatro di sé. Ma io non so recitare».

Quale luogo del mondo vorresti assolutamente visitare e perché?

«Il Giappone, perché mi affascina la miscela di cultura orientale e sistema industriale».

Una verità che fa male è peggio o meglio di una bugia innocente?

«Meglio una bugia innocente».

Hai amici gay?

«Non credo».

Ti trovi bene con le donne?

«Con le donne mi trovo meglio che con chiunque altro».

Che giochi facevi da piccolo?

«Pallone, pallone, pallone».

Hai mai ucciso un animale?

«Sì. Lucertole, rane. Una volta un passerotto. Ma fu delitto colposo».

Assassino. Giocavi con le bambole?

«No».

Mai fatto volare un aquilone?

«No».

Il libro più brutto che tu abbia mai letto.

«Di sicuro non l’ho finito e l’ho rimosso».

Se potessi cambiare vita ed avere a disposizione una somma di denaro spropositata dove andresti, che faresti e con chi?

«Pantelleria, dammuso con giardino e vista mare. Chi mi ama mi segue».

La tua notorietà come scrittore è arrivata con un post di Facebook. Talento a parte, oggi per sfondare ci vuole un colpo di fortuna? Al posto giusto nel momento giusto?

«La fortuna aiuta. Ma bisogna farsi trovare pronti».

Quando hai pianto l’ultima volta?

«Piango molto raramente».

I soldi sono importanti per te?

«Sì, mi fanno sentire tranquillo».

Il tuo numero?

«Il tre».

Quello della creatività, della perfezione.

«Se lo dici tu…»

Il tuo portafortuna?

«Non ce l’ho».

Hai un tatuaggio con degli ideogrammi, che vuol dire?

«Scemo chi chiede».

Ti odio tanto quando fai così.

«Ma è vero. Ti voglio bene anch’io».

 

 

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