Ottajano, agosto 1891, bruciano le selve del Somma-Vesuvio: è una “mmasciata” di camorristi ottajanesi?

0
6888
F. Porcasi, Il Vesuvio

Il ruolo del patrimonio delle selve nell’economia di Ottajano: abusi e irregolarità. Il gran numero e le storie equivoche di guardie rurali e di guardaboschi al servizio del Comune e dei privati. Il prefetto sospende alcune guardie dalla fedina poco limpida. Il sospetto di un incendio appiccato per vendetta. Come venne spento l’incendio.

La ricca economia di Ottajano anche nel sec.XIX, come nei due secoli precedenti,si sviluppò intorno a tre “imprese”: l’industria enologica, che comprendeva la produzione del vino, la costruzione delle botti, il trasporto, il controllo del mercato; poi, il commercio e la lavorazione dei basoli, e lo sfruttamento delle cave; infine, il “taglio” dei boschi montani. Questo complicato sistema economico veniva gestito da un ristretto numero di famiglie, quasi tutte legate da relazioni di parentela, e tutte “alleate”, in varia misura, con i principi di Ottajano, il cui potere, politico, finanziario, istituzionale, restò solidissimo, ad ogni livello, fino al 1883, anno in cui morì Michele de’ Medici, il penultimo dei principi. Le famiglie dei proprietari e degli imprenditori e i loro fiduciari, pronti ad assumersi, in cambio di lauti “onori”, oneri e responsabilità, dirigevano questo sistema come richiedeva la necessità del momento: secondo legge quando era possibile, e quando non lo era, con i metodi sbrigativi della violenza. Le carte d’archivio parlano chiaro: nel Nolano e nel Vesuviano già nella prima metà dell’Ottocento funzionano organizzazioni delinquenziali, che le autorità stesse classificano come “camorra”, e che per potenza, per intelligenza strategica, e per l’ampiezza dei progetti superano, e non di poco, i livelli della camorra napoletana.
Oggi, sollecitato dall’attualità, parlo delle selve “ottajanesi” del Somma – Vesuvio che nell’agosto del 1891 vennero devastate da un incendio quasi certamente doloso. Per dare l’idea esatta delle dimensioni del patrimonio silvano di Ottajano ricordo che nel novembre del 1909 il Regio Commissario Gustavo Durelli, che ancora amministrava la città quasi del tutto distrutta dall’eruzione di tre anni prima, bandì l’asta per il “bosco Comunale demaniale”: erano sei sezioni, Piano del Fico, Vallone del Piano del Fico e Piscinale, Vallone della Giumenta, Paliata e Finelli, Cerri e Piscinale, Muroli e Guastaferro: quasi 230 ettari di querce, cerri e castagni. La base d’asta era in media di lire 11.000 per ogni sezione: solo quella per Paliata e Finelli si aggirava intorno alle 4000 lire. Che fine abbia fatto questo patrimonio, non so: temo che il “munaciello” che imperversa da secoli negli uffici del Municipio e le eruzioni – i disastri sono sempre utili a qualcuno – abbiano distrutto registri, atti e documenti.
Credo che Luigi Iroso, che ha studiato e descritto analiticamente la storia “ottajanese” dei secc.XVIII e XIX, possa confermare che nessun affittuario delle selve di Ottajano pagò per intero il canone d’affitto fissato dalla gara d’appalto: nessuno, mai: interveniva sempre qualche alluvione, o qualche frana, o qualche “pioggia acida “del Vesuvio, a far sì che gli affittuari in lacrime per i danni chiedessero alle autorità concrete riduzioni della somma dovuta: e le autorità, commosse, non dicevano mai di no. Nel libro” La città liberale” Luigi Iroso racconta la vicenda di Antonio Iovino, affittuario della selva demaniale Campitelli, che avendo tagliato degli alberi che per contratto dovevano essere risparmiati, i così detti “alberi di speranza”, nel 1829 venne condannato dal giudice regio di Ottajano a tre anni di carcere, e a versare al Comune, tra multa e risarcimento dei danni, 1300 ducati: un’enormità. Lo Jovino si appellò alla Gran Corte Criminale, ma prima che i giudici aprissero il fascicolo, arrivò l’indulto, che cancellava la condanna penale. Posso aggiungere che l’avv. Pasquale Bifulco, che rappresentava il Comune, accettò, per la questione pecuniaria, la proposta dell’avv. Felice De Rosa, difensore dello Iovino: il mio cliente versa subito alla Tesoreria 300 ducati e togliamo tutto da mezzo. Non si sa se i 300 ducati siano stati realmente incassati dal Comune.
Sappiamo però che un Antonio Iovino era stato tre anni prima guardia campestre di Luigi de’ Medici, destinato al controllo della Masseria del Mauro, e che in quel fatale 1829 un Giovanni Iovino era guardia campestre dei Bifulco di Terzigno, amministratori fidatissimi dei principi di Ottajano. E un Giovanni Iovino, di anni 40, lo troviamo nell’elenco dei camorristi ottajanesi che nel 1874 i carabinieri di Torre Annunziata trasmisero al prefetto Mordini.
Tra il 1870 e il 1890 almeno 35 tra guardie campestri e guardaboschi lavoravano al servizio dei proprietari ottajanesi: c’erano poi le guardie rurali comunali, che nel 1881 erano quattordici. Nel 1889, dovendosi procedere alla conferma dei permessi del porto d’armi “nell’esercizio pubblico”, il prefetto di Napoli Giovanni Codronchi sollecitò le autorità di polizia a dare un’occhiata alle fedine di guardaboschi e guardie campestri e rurali ottajanesi.Venne fuori di tutto: due guardiani comunali erano stati, in gioventù, accusati di brigantaggio, un guardaboschi dei Crispo e uno degli Ammirati erano sospettati di far parte di un gruppo di camorristi che controllava il mercato delle carni, una guardia rurale dei Ranieri aveva certamente partecipato all’oscura vicenda di un conflitto a fuoco con due fratelli pastai di Torre Annunziata, e un Antonio Giugliano, un Francesco Avino e un Fiore Carbone, guardie rurali presso privati, e, all’occorrenza, “periti” comunali addetti al controllo del taglio dei boschi, erano affittuari, da almeno otto anni, di vaste quote delle “masserie comunali” Cafurchio, Piano di Borde e Muscettoli, e non avevano mai pagato il canone. Mi piace ricordare che tutti gli atti per la concessione delle circa 30 “quote” delle tre masserie erano stati preparati, nel 1881, da un solo notaio: un Bifulco di Terzigno.
Nel gennaio del 1891 il nuovo prefetto, Achille Basile, ritirò il permesso di porto d’armi a nove guardie rurali e le sospese “assolutamente” da qualsiasi attività connessa a quel tipo di lavoro. Nell’agosto un furioso incendio devastò per tre giorni le selve pubbliche e quelle private lungo il Vallone di Nicolò, che faceva parte del Vallone della Giumenta, e nella sezione Campitello ai Muroli. La voce pubblica, i sospetti di alcuni proprietari e le spie di polizia accusarono del misfatto le nove guardie, irritate e deluse dal comportamento dei colleghi e dei datori di lavoro che non si erano schierati a loro difesa. Ma nessuno venne accusato ufficialmente di incendio doloso. Le fiamme vennero bloccate da squadre di contadini che seppellirono le lingue di fuoco sotto palate di sabbia e di terriccio e opposero alla linea del fuoco ampi spazi di terra “nuda”, da cui era stato portato via tutto ciò che poteva alimentare l’incendio. Così diceva il regolamento comunale del 1863, così suggeriva l’esperienza secolare.