La “serata” con il Rotary e la promozione della cultura del “ricordare”

0
437

“L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove non si sappia nulla del presente”. Lo sentenziò Marc Bloch. E con queste parole di Bloch decisi di aprire l’Introduzione del  libro che scrissi, trenta anni fa, sul “clero, sui notabili e sui braccianti” di alcuni quartieri di Ottajano dal sec. XVII al sec.XX.

 

Ringrazio Giuseppe Saetta, Presidente del Rotary Club Ottaviano, i soci del Club, Peppe Casillo, presidente del Circolo “Scudieri” e la moglie Donna Nadia, e tutti gli amici che hanno sopportato di sentirmi parlare, sabato scorso, dei mestieri “particolari” degli Ottajanesi nei secc. XVIII e XIX. Tabacchine, sarte, “vammane”, “setaiole”, “funari”, “vatecari”, cocchieri, “bardari”, “basolari”, sono stati “evocati” dalle immagini proiettate e dalle mie parole, e mi pare che sia riuscito il mio tentativo di spiegare che quei mestieri dettavano a chi li praticava comportamenti, modi di vita e capacità distintivi, destinati a “segnare” tutta la comunità sociale, a corroborare l’idea diffusa che ogni comunità abbia un suo carattere disegnato dalla sua storia. “Filtrando i vini e i liquori, modellando il vetro e tessendo fibre, gli Ottajanesi hanno compiuto per secoli la prodigiosa fatica di liberare dalla materia informe, che le imprigionava, sostanze pure e perfette. Creando forme, hanno dato forma a sé stessi. Gli artefici di tessuti, di camicie, di cravatte, di bottiglie e di vini hanno imparato a ragionare per modelli e per misure, e dunque, nel segno dell’eleganza e della simmetria. Ma Penelope tesse per distessere. Il Vesuvio ci ha educati a percepire l’ineluttabile fragilità delle forme e a cedere spesso al piacere di disfarle: con la forza, con l’ironia, con il disinteresse, con la malignità. Chi libera forme dalla materia, viene il momento che è costretto a misurarsi con le scorie. Nessuno di noi significa alcunché se viene staccato dai luoghi in cui vive e dalle loro memorie. Ognuno di noi è una parola che vive e significa solo dentro una frase”. Questo lo scrissi in un libro pubblicato venti anni fa. L’incontro con il Rotary Club mi ha costretto a rifare i conti con alcune mie idee e a convincermi che ora, e non solo a Ottaviano, è il momento in cui le memorie storiche si tende ad accatastarle e a nasconderle nei depositi tenebrosi dell’oblio e a molti, in alto e in basso, conviene che duri per sempre la stagione del “distessere”. Non a caso ho chiesto al Rotary di dedicare una serata a due grandi Ottajanesi, Michele Arpaia – nelle sale del Circolo ci sono splendide testimonianze della sua pittura – e Francesco D’Ascoli, e di sviluppare il racconto del loro ruolo e della loro importanza, un racconto che venne già avviato dalla prof.ssa Marilina Perna, quando era responsabile dell’assessorato alla Cultura. E ricordavo che Michele Arpaia mi raccontò di aver conservato nel suo corpo un frammento del proiettile che lo aveva ferito a El Alamein, e Francesco D’Ascoli, una sera, mi esortò a riflettere sul fatto che Ottajano era nell’Ottocento la città delle “capere”, delle pettinatrici che giravano per le case delle donne del popolo, e le distraevano, durante il complicato servizio, raccontando i pettegolezzi che scorrevano in città: e dunque dire “capera” significava anche dire “pettegola”. Ma a Ottajano i principi e le principesse della famiglia Medici – in particolare Donna Maria Vincenza dei Caracciolo d’Avellino e Maria Isabella degli Albertini di Cimitile – si servivano di parrucchiere e di parrucchieri raffinati, capaci di dettare la moda alle signore della nobiltà locale. I loro aiutanti erano autorizzati, in alcuni giorni della settimana, a prestare i loro servigi anche alle dame e ai loro cavalieri che venivano dai paesi vicini: e questa fama dei parrucchieri ottajanesi e questo traffico di clienti durò a lungo, e ancora dura, grazie, per esempio, a quell’artista del “taglio” femminile e maschile che è il Maestro Sabatino Pajosa. Insomma, è stata una magnifica “serata”: perché in ognuno di noi si è mossa la luce della memoria, e si è consolidata la convinzione che quella luce non bisogna spegnerla.