In una locanda nei pressi del mercato di Pompei un cliente, Vibo Restituto, incise sul muro i sensi della sua pena d’amore: dormiva solo, e pensava, con desiderio e nostalgia, a Urbana, la sua donna. Che doveva esser fiera della fedeltà rigorosa di Restituto, perché non era facile resistere, in una locanda pompeiana, al ricco assortimento di amori mercenari proposti dalla casa. In un altro graffito alcuni clienti che si coprono il capo con la cuculla, il cappuccio dei viandanti, mangiano e bevono seduti intorno a un tavolo: un ragazzo distribuisce piatti e bicchieri; formaggi e salumi pendono da una rastrelliera.
Dopo duemila anni, un vecchio soldato continua a rimproverare il giovanotto che gli porge una coppa di vino: a me vendi l’acqua e tu ti bevi il vino, e un’ostessa, il cui nome, Vinaria Hedoné, è un programma di voluttà vinicola, dice a un robusto soldato che una bevuta di Falerno costa 4 assi. I clienti dell’oste Ermete decantano nei loro graffiti le qualità delle ragazze che la casa offriva: Palmira, l’orientale, era “sitifera“, prosciugava tutti gli umori del corpo; un’altra era culibonia, e si capisce immediatamente quali fossero le sue doti. In un’altra “caupona“ Euplia si vantava di andare solo con uomini di bell’aspetto Nel termopolio di Asellina c’erano segni chiarissimi del servizio più importante offerto dalla ditta: sullo stipite destro dell’ingresso era disegnato un Mercurio dotato di un enorme fallo e una lucerna fallica oscillava dall’architrave della sala.
Le ragazze, la greca Egle, l’orientale Smirna, l’ebrea Maria si facevano chiamare aselline, in onore alla maitresse, e con manifesto riferimento erotico all’asino, simbolo di ardore sessuale. Queste ostesse, portatrici e promotrici di costumi liberi, sono consapevoli del fatto che l’eccessiva sbrigliatezza dei loro modi ricava una sua solida dignità dalla forza misteriosa del vino: la taverna è un luogo a sé, ha una sua propria scala di valori, e se Dioniso è un dio, bere è un rito. Il vino illumina la festa del convito, ma è anche il compagno di meditazioni solitarie. C’era, nelle ostesse della realtà e della letteratura, l’istintiva persuasione d’essere investite di una dignità sacerdotale consacrata, nello stesso tempo, a Dioniso e ad Afrodite, e dunque al culto di un vitalismo ora straripante, ora malinconico, sempre desideroso di esprimersi nel segno della verità e della naturalezza.
Era fatale che anche le taverne pompeiane fossero, come i caffé di oggi, il teatro prediletto degli attori della politica e che le ostesse recitassero un ruolo di primo piano: Ascula, moglie di L. Vetuzio Placido, fa votare per Calvenzio Sittio Magno, mentre Ferusa, africana dai capelli crespi e dalla carnagione scura, raccomanda L. Popidio Secundo. L’oste Euxinus sostenne, per la carica di edile, la candidatura di Q. Postumio e di M. Cerrinio, e fece scrivere da Hinnulus il manifesto elettorale all’ingresso della sua caupona, che inalberava come insegna un’araba fenice e due pavoni “affrontati“, ed era colma di anfore segnate col nome dell’oste: “Pompeiis, ad amphiteatrum, Euxino coponi“.
Terminati i ludi circensi, Eussino mesceva agli accaldati spettatori che sciamavano nel suo locale anche il vino fornito da una piccola vigna impiantata dietro la taverna. Nei thermopolia pompeiani si vendevano cibi caldi, olive del Vesuvio, legumi secchi, prodotti e lavorati nella valle del Sarno e nell’agro nocerino, e vini, ovviamente, serviti in bicchieri e boccali di argilla nera, che erano riposti su gradini scavati nel banco, o nel muro alle spalle: un’ usanza, e uno splendore di ceramiche, e una fantasia di oggetti, comuni e nobili, allo stesso tempo, che, sopravvivendo immutati nei secoli, avrebbero ispirato Velazquez e Zurbaran, La Tour e Crespi. Notò Pierre Grimal che i Pompeiani, come tutti i Campani, amavano il dolce, ma non pare che fossero grandi pasticcieri.
I cardini della loro pasticceria furono il miele – i vesuviani erano i migliori allevatori di api -, la ricotta, che veniva dall’agro sarnese, e il formaggio grasso di pecora. Tutti i pasticcieri di scuola romana usavano per i dolci l’impasto del pane, ammorbidito con uova e olio: dopo le guerre puniche incominciarono a servirsi di una pasta sfoglia ottenuta con la simila, il fior di farina, e a usare, come dolcificante, non solo il miele, ma anche i fichi, i cedri e i datteri, e forse le mele cotogne. Ma proprio in questo periodo accadde un fatto nuovo: la passione per il dolce si modificò sensibilmente in una inclinazione per l’agrodolce.
Si crede che la variazione di gusto sia stata dettata dalle scuole di cucina della Grecia e dell’ Asia minore che tra il 190 e il 150 a.C. entrarono a far parte dei domini di Roma. È probabile, invece, che i Romani, proprio mentre unificavano l’Italia cancellando le istituzioni e i codici linguistici di Etruschi Osci Sanniti Lucani Apuli e Siculi, si siano appropriati le loro tradizioni culturali: e la cultura dell’agro dolce faceva certamente parte della “sensibilità“ di Osci e di Sanniti, in senso sia letterale che metaforico.
In torte classiche della pasticceria romana, il placentum, la spaerita, la scriblita, la dolcezza del miele veniva abbinata col piccante del prosciutto salato spagnolo, del prosciutto di spalla, della salsiccia lucanica e di alcuni formaggi “forti“: l’affumicato, il Tremula, che si mangiava abbrustolito, il Luni, il Vestino. Diceva una zia sommese di mio padre, una donna più che vecchia, antica, che nel suo casatiello aveva diritto d’ingresso un solo formaggio: l’Auricchio piccante.
(Quadro di Domenico Morelli: "Bagno pompeiano")

