GLI ANTENATI POMPEIANI DEL <i>CASATIELLO</i…

Le Taverne pompeiane come i caffè di oggi: teatro prediletto degli attori della politica. Dove e come è nato il Casatiello. Di Carmine CimminoLe taverne, le locande, le mescite di vino (thermopolia, tabernae, cauponae), gli osti e le ostesse di Pompei corrisposero, in ogni dettaglio, ai modelli, eterni e universali, definiti dalla felice congiunzione della vita e della letteratura. I brani di vita vissuta nei thermopolia e negli hospitia, che erano le locande vere e proprie, ispirarono, con felice immediatezza, dipinti e graffiti.

In una locanda nei pressi del mercato di Pompei un cliente, Vibo Restituto, incise sul muro i sensi della sua pena d’amore: dormiva solo, e pensava, con desiderio e nostalgia, a Urbana, la sua donna. Che doveva esser fiera della fedeltà rigorosa di Restituto, perché non era facile resistere, in una locanda pompeiana, al ricco assortimento di amori mercenari proposti dalla casa. In un altro graffito alcuni clienti che si coprono il capo con la cuculla, il cappuccio dei viandanti, mangiano e bevono seduti intorno a un tavolo: un ragazzo distribuisce piatti e bicchieri; formaggi e salumi pendono da una rastrelliera.

Dopo duemila anni, un vecchio soldato continua a rimproverare il giovanotto che gli porge una coppa di vino: a me vendi l’acqua e tu ti bevi il vino, e un’ostessa, il cui nome, Vinaria Hedoné, è un programma di voluttà vinicola, dice a un robusto soldato che una bevuta di Falerno costa 4 assi. I clienti dell’oste Ermete decantano nei loro graffiti le qualità delle ragazze che la casa offriva: Palmira, l’orientale, era “sitifera“, prosciugava tutti gli umori del corpo; un’altra era culibonia, e si capisce immediatamente quali fossero le sue doti. In un’altra “caupona“ Euplia si vantava di andare solo con uomini di bell’aspetto Nel termopolio di Asellina c’erano segni chiarissimi del servizio più importante offerto dalla ditta: sullo stipite destro dell’ingresso era disegnato un Mercurio dotato di un enorme fallo e una lucerna fallica oscillava dall’architrave della sala.

Le ragazze, la greca Egle, l’orientale Smirna, l’ebrea Maria si facevano chiamare aselline, in onore alla maitresse, e con manifesto riferimento erotico all’asino, simbolo di ardore sessuale. Queste ostesse, portatrici e promotrici di costumi liberi, sono consapevoli del fatto che l’eccessiva sbrigliatezza dei loro modi ricava una sua solida dignità dalla forza misteriosa del vino: la taverna è un luogo a sé, ha una sua propria scala di valori, e se Dioniso è un dio, bere è un rito. Il vino illumina la festa del convito, ma è anche il compagno di meditazioni solitarie. C’era, nelle ostesse della realtà e della letteratura, l’istintiva persuasione d’essere investite di una dignità sacerdotale consacrata, nello stesso tempo, a Dioniso e ad Afrodite, e dunque al culto di un vitalismo ora straripante, ora malinconico, sempre desideroso di esprimersi nel segno della verità e della naturalezza.

Era fatale che anche le taverne pompeiane fossero, come i caffé di oggi, il teatro prediletto degli attori della politica e che le ostesse recitassero un ruolo di primo piano: Ascula, moglie di L. Vetuzio Placido, fa votare per Calvenzio Sittio Magno, mentre Ferusa, africana dai capelli crespi e dalla carnagione scura, raccomanda L. Popidio Secundo. L’oste Euxinus sostenne, per la carica di edile, la candidatura di Q. Postumio e di M. Cerrinio, e fece scrivere da Hinnulus il manifesto elettorale all’ingresso della sua caupona, che inalberava come insegna un’araba fenice e due pavoni “affrontati“, ed era colma di anfore segnate col nome dell’oste: “Pompeiis, ad amphiteatrum, Euxino coponi“.

Terminati i ludi circensi, Eussino mesceva agli accaldati spettatori che sciamavano nel suo locale anche il vino fornito da una piccola vigna impiantata dietro la taverna. Nei thermopolia pompeiani si vendevano cibi caldi, olive del Vesuvio, legumi secchi, prodotti e lavorati nella valle del Sarno e nell’agro nocerino, e vini, ovviamente, serviti in bicchieri e boccali di argilla nera, che erano riposti su gradini scavati nel banco, o nel muro alle spalle: un’ usanza, e uno splendore di ceramiche, e una fantasia di oggetti, comuni e nobili, allo stesso tempo, che, sopravvivendo immutati nei secoli, avrebbero ispirato Velazquez e Zurbaran, La Tour e Crespi. Notò Pierre Grimal che i Pompeiani, come tutti i Campani, amavano il dolce, ma non pare che fossero grandi pasticcieri.

I cardini della loro pasticceria furono il miele – i vesuviani erano i migliori allevatori di api -, la ricotta, che veniva dall’agro sarnese, e il formaggio grasso di pecora. Tutti i pasticcieri di scuola romana usavano per i dolci l’impasto del pane, ammorbidito con uova e olio: dopo le guerre puniche incominciarono a servirsi di una pasta sfoglia ottenuta con la simila, il fior di farina, e a usare, come dolcificante, non solo il miele, ma anche i fichi, i cedri e i datteri, e forse le mele cotogne. Ma proprio in questo periodo accadde un fatto nuovo: la passione per il dolce si modificò sensibilmente in una inclinazione per l’agrodolce.

Si crede che la variazione di gusto sia stata dettata dalle scuole di cucina della Grecia e dell’ Asia minore che tra il 190 e il 150 a.C. entrarono a far parte dei domini di Roma. È probabile, invece, che i Romani, proprio mentre unificavano l’Italia cancellando le istituzioni e i codici linguistici di Etruschi Osci Sanniti Lucani Apuli e Siculi, si siano appropriati le loro tradizioni culturali: e la cultura dell’agro dolce faceva certamente parte della “sensibilità“ di Osci e di Sanniti, in senso sia letterale che metaforico.

In torte classiche della pasticceria romana, il placentum, la spaerita, la scriblita, la dolcezza del miele veniva abbinata col piccante del prosciutto salato spagnolo, del prosciutto di spalla, della salsiccia lucanica e di alcuni formaggi “forti“: l’affumicato, il Tremula, che si mangiava abbrustolito, il Luni, il Vestino. Diceva una zia sommese di mio padre, una donna più che vecchia, antica, che nel suo casatiello aveva diritto d’ingresso un solo formaggio: l’Auricchio piccante.
(Quadro di Domenico Morelli: "Bagno pompeiano")

L’OFFICINA DEI SENSI

LA FATICA DI ACCOGLIERE GLI IMMIGRATI

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La questione immigrati sta dividendo l”Italia, appena pochi giorni dopo aver festeggiato l”Unità. Le domande del Segretario della CEI, Monsignor Crociata. La violenza verbale della Lega. Di Don Aniello Tortora

Continua ad essere di sorprendente attualità, senza interruzione di sorta, il problema dell’immigrazione, che sta dividendo la politica nostrana e la stessa Unione Europea. Di fronte alla recrudescenza di questo dramma ultimamente c’è stato un intervento (7 aprile 2011) di mons. Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza episcopale Italiana. Credo valga la pena ripercorrere alcune linee-guida del suo discorso, illuminanti per la società civile, ma anche per i cattolici.

Dopo aver ricordato che “la Chiesa segue il fenomeno con viva apprensione, assicurando a vari livelli una forte ed effettiva vicinanza a tali persone” Mons. Crociata si “pone la domanda su che cosa come Chiesa dobbiamo pensare e fare di fronte alla immigrazione come essa si presenta in questo tempo”.

Oggi si tocca quasi con mano, ha detto Crociata, “la sensazione, non raramente anche dichiarata, di sorpresa e di disturbo, se non di paura, che l’arrivo e la presenza degli immigrati produce in tanti nostri connazionali, per parlare solo dell’Italia”. “A ciò si deve aggiungere che l’attuale contingenza storica ci mette di fronte ad una evoluzione che vede acuirsi il contrasto tra Paesi poveri e Paesi ricchi –basterebbe ricordare i dati delle 22 guerre in atto, del miliardo di persone alla fame,del miliardo e quattrocento milioni di persone che non accedono all’acqua potabile –, ma vede anche crescere la coscienza, l’attesa e la volontà di riscatto di quote crescenti delle popolazioni dei Paesi poveri che si dispongono ad affrontare tutti i possibili ostacoli, con la forza irriducibile della disperazione, per trovare una strada alla segreta incancellabile speranza di una vita migliore”.

A questo punto il Segretario della CEI pone un interrogativo: “Che cosa possiamo dire e fare come Chiesa?”. E dà anche una risposta, affermando: ”Guardando ai disperati che sbarcano sulle nostre coste, noi sentiamo, come cristiani, di essere chiamati a prenderci cura per quanto possibile di persone che hanno bisogno spesso di tutto per sopravvivere, ben comprendendo che le situazioni personali di chi arriva possono essere ben diverse tra loro: dai profughi ai richiedenti asilo a coloro che aspirano ad una vita migliore, fino a quelli che cercano l’avventura o anche ai malintenzionati. Il nostro compito è testimoniare il Vangelo della cura del bisognoso e del disperato, del malato e dell’affaticato. In realtà questo la Chiesa lo ha sempre fatto e continuerà a farlo attraverso la rete del mondo dell’associazionismo e del volontariato”.

Concludendo il suo intervento Mons. Crociata mette, poi, il dito nella piaga dicendo: “Anche su questo punto sappiamo che non possiamo dirci mai arrivati, perciò sentiamo l’appello ad una sempre maggiore generosità a fronte di una richiesta crescente. Accanto a questo impegno è richiesta un’opera educativa nei confronti di tanti nostri fratelli di fede che fanno fatica a condividere questo senso di accoglienza e di condivisione. Si tratta di capire che la generosità
possibile, cioè compatibile con le nostre risorse e disponibilità, fa parte dello stile del nostro essere Chiesa. Siamo chiamati a chiedere al nostro Paese tutto intero di far suo uno stile e un giudizio che sia sempre rispettoso della dignità di ogni persona che è in pericolo di vita o gravemente indigente”.

“Bisogna riconoscere che in questa direzione si è mostrato di voler andare, quanto meno nell’affrontare quella che costituisce una vera e propria emergenza umanitaria. E che si tratti di una tale emergenza stanno a dimostrarlo quelle tragedie del mare a cui ancora assistiamo impotenti. Ma ora il problema che si presenta è, quanto meno, duplice. Innanzitutto la resistenza di alcune parti dell’opinione pubblica e del Paese, di diverse regioni in pratica, soprattutto del centro e del nord, a condividere il carico di un così gran numero di sbarcati accogliendone una quota proporzionata. La prospettiva dell’ospitalità rischia di dividere l’Italia, pochi giorni dopo che abbiamo celebrato i 150 anni dell’unità d’Italia”.

“Tale resistenza chiede una riflessione attenta su quale tipo di società ci avviamo ad essere; essa manifesta infatti paura di fronte allo straniero che, essendo bisognoso, con le sue richieste mette in questione il nostro benessere economico (sia pure messo anch’esso in crisi); manifesta quindi anche chiusura al nuovo e al diverso; soprattutto denota incapacità a capire ciò che sta succedendo e a disporsi ad affrontarlo. Infatti il rischio maggiore a cui espone simile atteggiamento è quello di rimanere impreparati di fronte ad una situazione sociale che in un lasso breve di tempo potrebbe presentarsi irreversibilmente modificata”.

Siffatte parole, pronunciate da un alto esponente della Chiesa italiana, avranno fatto “sobbalzare sulla sedia” i nostri fratelli “diversi” leghisti e quanti, anche cattolici, la pensano in questo modo, avendo il leader della Lega, Bossi, in questi ultimi giorni, indicato addirittura l’uso delle pistole o dei mitra come “arma” per respingere indietro questi nostri fratelli.

A me pare proprio che processi di integrazione e “convivialità delle differenze” (secondo la bella intuizione di don Tonino Bello) siano la strada maestra per accettare la sfida sociale dell’immigrazione. È indispensabile, nella cultura odierna, globalizzare non solo il mercato ma soprattutto la reciprocità e la solidarietà. Apparteniamo tutti all’unica famiglia umana.
(Foto: drammatico sbarco a Pantelleria, in balia della forza del mare. Fonte Internet)

LA RUBRICA

GENITORI E FIGLI: LA DECADENZA DALLA POTESTÁ GENITORIALE

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Decadere dalla potestà genitoriale è un provvedimento grave, conseguente a disinteresse e incapacità a prendersi cura dei figli minori. Di Simona Carandente

Nella variegata moltitudine di casi giudiziari, è spesso necessario che l’operatore del diritto si confronti con realtà scomode, oltremodo spiacevoli, specie per gli interessi delle parti in gioco, che diventano pregnanti quando coinvolgono uno o più minori.
Il riferimento, in particolare, è ai provvedimenti ablativi della potestà genitoriale, con la quale i genitori naturali del minore, laddove ricorrano determinate circostanze, coincidenti di norma con la perdita dell’ affectio connessa ai rapporti di filiazione, vengono privati di buona parte dei poteri decisionali afferenti all’esistenza del minore stesso.

Se la sospensione dalla potestà genitoriale è provvedimento di natura temporanea, adottato nell’interesse del minore, valido finché non intervengano fatti nuovi, idonei a modificare il quadro iniziale posto all’attenzione del tribunale, ben più incisivo è il provvedimento con cui quest’ultimo dichiara un genitore decaduto dalla medesima potestà a tempo indeterminato.

Un così grave ed importante provvedimento non può che essere adottato in casi gravi, tassativamente previsti dal legislatore, di norma coincidenti con un grave disinteresse nei confronti del minore stesso, sia di natura affettiva che economica, connessi ad una obiettiva incapacità del genitore, sia esso madre o padre, a prendersi cura della prole.
Nel caso di specie, si è rivolta al legale la madre di due bambine, afflitte da gravi handicap, che ella stessa, anni prima ed a seguito di una gravissima crisi familiare, aveva deciso di collocare in casa famiglia, essendo impossibilitata addirittura a soddisfare i bisogni primari delle figlie.

Alla luce di taluni fattori, tra i quali lo stato di tossicodipendenza del marito, sfociato nella commissione da parte di questi di gravi reati contro il patrimonio, non si profilava alcuna concreta possibilità, da parte della donna, di poter riprendere le proprie figlie con sé, tenuto peraltro conto della necessità che queste fossero seguite ed assistite da uno specialista.
Il tribunale per i minorenni di Napoli, alla luce di una presunta inadeguatezza dei genitori naturali delle minori a prendersene cura, dichiarava entrambi i coniugi decaduti dalla potestà genitoriale sulle figlie, disponendo addirittura che queste venissero affidate ad una famiglia esterna, disposta a prendersene cura a tempo indeterminato.

Attraverso un atto di opposizione, il difensore evidenziava la possibilità di poter ricorrere a forme alternative all’affido extrafamiliare, stante la disponibilità delle sorelle della donna a prendere in affido le due minori, evitando così gli effetti deleteri di un provvedimento che, allo stato, correrebbe il rischio di pregiudicare solamente le due bambine, già traumatizzate da un esistenza non proprio facile, e naturalmente restie ad inserirsi in un nucleo familiare totalmente nuovo ed estraneo. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

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CARAVAGGIO E LA TAPPA FONDAMENTALE DEL SUO SOGGIORNO NAPOLETANO

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L”artista lombardo, lasciata Roma per l”accusa di omicidio, si trasferisce a Napoli dove realizza alcune opere memorabili per il suo percorso artistico e per l”influenza che avranno sulla pittura locale.

“Domenica 28 maggio 1606 si cominciò la festa per la coronazione del papa la quale fu di 29 maggio dell’anno passato […]. In Campo Marzio l’istessa sera Michel Angelo Caravagio pittore ferette et ammazzò con una stoccata nella banda per dentro nella coscia Ranuccio da Terni, del che a mala pena confessato morì”.

Sono queste le brevi righe del verbale che attesta l’accusa di omicidio che venne rivolta al pittore più celebre del seicento, Michelangelo Merisi detto Caravaggio, temperamento geniale e protagonista incontrastato di una vita tormentata, spesa tra il lusso e la ricchezza dei nobili palazzi romani e la feccia della strada, tra lenoni e prostitute. Il drammatico episodio che gli sconvolse la vita lo costrinse ad allontanarsi dalla città in cui era stato condannato alla pena capitale e rappresentò, dunque, il motivo trainante del suo passaggio a Napoli, città ricca e cosmopolita in cui si spostò a partire dal 6 ottobre di quello stesso anno. Le ragioni di tale scelta furono da imputare, oltre alla sicura protezione dalla giustizia romana, soprattutto alla possibilità di poter contare sull’amicizia e l’ospitalità di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio.

E così il pittore accese il suo fuoco nella capitale del Viceregno spagnolo, esportando la sua prorompente visione artistica, non più improntata a puri concetti astratti o prevenute concezioni filosofiche, bensì costruita del più disarmante realismo, capace di enucleare gli oggetti attraverso un’improvvisa epifania di luce, decisa e rivelatrice. Il “vero naturale” da cui Caravaggio “si lasciava trascinare”- come sottolineò lo storico seicentesco Andrè Fèlibien – non fu certo rivolta plebea, né la proposta intellettualistica di un’arte popolare in opposizione a quella aulica ma, piuttosto, la rivoluzionaria proposta di un artista profondamente addentrato nelle vicende culturali e storiche del suo tempo: non plebeo, bensì di animo popolare.

Quando Caravaggio giunse a Napoli, la sua fama lo precedeva. Inoltre, grazie anche alla cospicua presenza di imprenditori lombardi, comaschi, milanesi e bergamaschi operanti in città, l’artista ebbe immediatamente numerose commesse. Il clima fertile della capitale partenopea insieme con l’appagante riconoscimento alla maestria di Michelangelo rappresentarono l’humus prospero per la creazione di alcune opere memorabili. Come la Flagellazione per San Domenico, dove la scena si snoda intorno alla colonna alla quale è legato il Cristo, immerso dalla luce che ne evidenzia la torsione in un movimento fluttuante quasi di danza, circondato dalla ferina violenza degli aguzzini, drammaticamente impegnati nella turpe preparazione del supplizio.

Per l’altare maggiore di Pio Monte della Misericordia, la congregazione costituita da giovani aristocratici gli commissionarono una grande pala raffigurante le Sette opere di Misericordia (foto): le sei enunciate da Cristo nel Vangelo di Matteo e la sepoltura dei morti, problema importante per una città recentemente dilaniata dalla carestia. È il 1607. In breve tempo il maestro mette in scena una complessa macchina teatrale, originalissima interpretazione del tema iconografico, attraverso un’impaginazione inedita delle sette opere di misericordia corporali colte in una simultaneità di tempo, luogo e azione. Il pennello di Caravaggio rende con vivace realismo un caratteristico quadrivio dei vicoli napoletani, riprendendo “la verità nuda di Forcella e Pizzofalcone”, come ha scritto Roberto Longhi, che del Caravaggio è stato il più grande studioso ed interprete.

Unica fonte di luce artificiale, il bagliore di una torcia al centro della tela impegna il pittore in una vivace indagine che illustra gli effetti che l’elemento luministico produce sulle figure e sui corpi solidi che emergono con scatto repentino dalla penombra. Ulteriore testimonianza della sua capacità innovativa, il maestro lega la parte superiore del dipinto, costituita dal gruppo divino, a quella inferiore del mondo umano attraverso la decisiva figura dell’angelo di sinistra, dalla posa acrobatica, stretto in un nodo d’amore all’altra creatura celeste di destra, intermediazioni non solo figurative tra sfera celeste e sfera terrena. Come nella primitiva chiesa cristiana anche nell’opera di Caravaggio il dramma umano è vissuto con la massima verità e naturalezza senza il diretto intervento della divinità, che assiste alle vicende quasi da un’ideale balconata da cui si affaccia.

Alle grandiose imprese del primo periodo napoletano seguì un ritorno nella città nel 1609 (dopo un intenso peregrinare tra Malta e la Sicilia), da cui saranno partoriti altri capolavori come la Salomè, la Negazione di Pietro e il Martirio di sant’Orsola, dipinti con cui Caravaggio sperimenta una nuova fase, improntata ad un genere più essenziale, rapido e a una scala minore delle figure, emergenti da “fondi e ombre fierissime” con lunghi tocchi di luce, inquadrate entro ampi spazi architettonici. Alla sua morte nel 1610, avvenuta secondo le cronache per un improvviso attacco di febbre su una spiaggia di Porto Ercole “mentre da Napoli veniva a Roma per la gratia da Sua Santità fattali del bando capitale che haveva”, Caravaggio lasciava a Napoli una folta schiera di artisti conquistati dalla sua maniera.

Risultano evidenti le decisive conseguenze sul piano stilistico e qualitativo che l’opera dell’artista ebbe su questa nuova generazione che si avviava, così, a bandire la matrice tardo-manierista della tradizione locale per avviare la pittura partenopea al suo “secolo d’oro”; la straordinaria intensità visiva e la concentrata resa naturalistica, essenziali elementi sintattici della grammatica del maestro lombardo, preparano il campo al moderno linguaggio pittorico di dimensione internazionale della scuola napoletana.
(Fonte foto: Rete Internet)

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I RIFIUTI? SONO ORO COLATO

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I rifiuti che si accumulano per le strade di Napoli permettono di fare buoni affari al maggior numero possibile di persone e imprese. Di Amato Lamberti

Ancora una volta si è celebrato a Napoli il “monnezza day”.Sono più di dieci anni che con una cadenza ossessiva di cinque-sei mesi la città si riempie, nel giro di pochi giorni, di cumuli di rifiuti. Un flusso inarrestabile che invade strade, piazze, vicoli, scalinate monumentali, aiuole e giardini e che nessuno riesce a fermare. Basta che si arresti anche solo per un giorno la raccolta dei rifiuti che le strade e i marciapiedi finiscono sommersi da sacchetti, cartoni, scatolame vario, scarpe, abiti, pezze di ogni colore.

Viene il dubbio che non si aspetta altro per sversare nelle strade tutto quello che si accumulava in casa e che non si vedeva l’ora di buttare per la strada, quasi come in un rito liberatorio e orgiastico. Cumuli di mobili rotti, elettrodomestici scrostati, televisori grandi come armadi, ma anche computer e impianti stereo si formano come per incanto e nella notte prendono fuoco con i bambini che danzano intorno incuranti del fumo e dei miasmi. Ma come è possibile che non si riesca a porre rimedio a questa accumulazione periodica di rifiuti che fa gridare allo scandalo e all’incapacità l’intera nazione e fa sorridere di compassione i corrispondenti stranieri?

Non è un mistero. La ragione sta nel fatto che invece di scegliere la strada più semplice, più razionale, più ecologica, si sceglie quella che permette di fare affari al maggior numero possibile di persone e di imprese. Basta guardare agli impianti utilizzati. Innanzitutto le discariche. Dove c’è un buco, un fosso, una cava, si realizza una discarica, non importa se si tratta di un’area ambientale protetta, come il Parco Nazionale del Vesuvio, o il Parco dei Camaldoli. Non importa nemmeno che si tratta di un’area, come quella giuglianese, massacrata da anni da discariche abusive, da montagne di stoccaggi di eco balle, da sversamenti ventennali mai bonificati. La fame di discariche è tanta che non si va tanto per il sottile e si realizzano invasi che perdono percolato da ogni parte, tanto al massimo inquinano le falde acquifere.

E poi, oltre alle discariche, impianti che dovrebbero produrre CDR, ma che al massimo riescono ad imballare rifiuti impossibili da smaltire e che finiscono accatastati a formare piramidi che sono la gioia dei gabbiani e la disperazione dei residenti. Ad essi si aggiungono trituratori, trito vagliatori, impianti di compostaggio delle frazioni indifferenziate che servono solo a mascherare nuove discariche realizzate senza alcuna impermeabilizzazione del terreno. A giganteggiare su tutti questi impianti la soluzione finale, l’inceneritore, che trasforma in fumi e polveri le migliaia di tonnellate di rifiuti tal quale che però, anche se nessuno sembra accorgersene, inquinano l’aria, il terreno, le piante, gli animali, gli ortaggi, la frutta, insomma, ogni cosa.

Siccome gli inceneritori sono efficienti, perché riescono a bruciare ogni cosa, compresi rifiuti ospedalieri radioattivi, si pensa bene di moltiplicarli, senza neppure verificare se si tratti di una operazione necessaria visto che molti Comuni hanno avviato, bene o male, una raccolta differenziata dei rifiuti urbani.
Una follia collettiva, visto che coinvolge il Governo, la Regione, la Provincia, il Comune di Napoli e quelli di Salerno e di Caserta. Ormai tutti vogliono l’inceneritore. Non gli interessa niente della salute dei cittadini e del territorio. Vogliono solo le compensazioni, i soldi, previsti dal Governo.

Eppure sarebbe così semplice smaltire correttamente i rifiuti facendo a meno delle discariche e degli inceneritori, come degli altri impianti installati solo per far fare affari a persone ed imprese amiche, non importa se camorriste. Basterebbe fare bene la raccolta differenziata, avviare subito al riutilizzo le frazioni differenziate, carta, cartone, plastica, alluminio, banda stagnata, vetro, legno, scarti di legumi, ortaggi e frutta, che sono quelle economicamente vantaggiose, e provvedere con biodigestori anaerobici allo smaltimento della frazione indifferenziata, producendo energia elettrica senza emissioni in atmosfera. Troppo semplice. Lo Stato non dovrebbe nemmeno metterci soldi: gli impianti per il riutilizzo delle frazioni differenziate e quelli per lo smaltimento della frazione indifferenziata sarebbero realizzati dai privati, magari anche in regime di concessione.

Non va bene, perché troppa gente non farebbe più affari; perché se non inquini come fai a fare poi le operazioni di bonifica; perché se non hai bisogno di investimenti pubblici che cosa vai poi a dividere a livello politico e amministrativo; perché non hai più bisogno dell’esercito di tecnici, consulenti, progettisti, direttori dei lavori, responsabili della sicurezza, e via dicendo. Il rasoio di Occam – forse lo ricorda chi ha studiato filosofia- quello che serviva a tagliare le cose e i passaggi inutili, non si può applicare in questo come in molti altri casi.

La regola aurea della politica è quella di moltiplicare enti, addetti, passaggi, controlli, al solo fine di aumentare a dismisura il denaro necessario al raggiungimento dell’obbiettivo, ma nel tempo più lungo possibile, per evitare di svuotare troppo rapidamente il pozzo di S.Patrizio, che oggi sono i rifiuti e domani, magari le bonifiche.
(Fonte foto: Rete Internet)

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I SEGRETI DI CAVOUR AD UN FRATE OSTINATO ED ONESTO

L”artefice del Regno d”Italia, fiero oppositore dei privilegi dello Stato Pontificio, temeva di non ricevere i sacramenti in punto di morte. Così non fu, e neanche il papa ha mai saputo di cosa si pentì. Di Carmine Cimmino

La mia prima visita alla basilica fiorentina di Santa Croce la consumai tutta davanti al sepolcro di Niccolò Machiavelli. Avrei dovuto riflettere, in quei momenti, sulla smisurata carità della Chiesa, che accoglie tra le sue braccia anche i suoi peggiori nemici: pensai, invece, a tutt’altro, alla terrena sapienza che le religioni costruiscono sulla conoscenza delle cose del mondo, e sulla certezza che davanti alla paura della morte anche i cuori dei leoni scadono a ventricoli di pulce.

È il terribile monopolio del trapasso, che né Epicuro, né Lucrezio, né Voltaire sono riusciti a demolire. La Chiesa può aspettare: aspettò che Machiavelli morisse, e lo fece proprio. Grazie a quel sepolcro, prova, a futura memoria, di pentimento, e prova di perdono, i giudizi amari e irriguardosi che uno dei figli più grandi dell’Italia aveva espresso sul potere temporale dei preti si trasformarono, per la Chiesa, in un luminoso vanto. Narra il conte Ruggero Gabaleone di Salmour che una mattina del 1856, avendo notato che Cavour era sereno, anzi allegro – e non cupo, e non irritato, come era di solito -, gli domandò le ragioni dell’ euforia.

E Cavour gli rispose che proprio quella mattina il suo curato, fra Giacomo da Poirino, gli aveva promesso che quando lui, Cavour, l’avesse chiamato al suo letto di morte, egli gli avrebbe amministrato i sacramenti, “senza esigere nulla che io non possa consentire con onore“. Cavour era stato sconvolto da ciò che era successo dopo l’approvazione delle leggi che dissolvevano il patrimonio della Chiesa piemontese e molti privilegi di monaci, frati e preti: tutti i ministri del Gabinetto D’Azeglio erano stati colpiti dalle censure ecclesiastiche, al ministro Santa Rosa erano stati negati i sacramenti religiosi, Vittorio Emanuele II aveva perso, in rapida successione, la moglie, la madre e il fratello, e il Papa gli aveva fatto sapere che non si poteva escludere che quelle morti fossero un avvertimento, direbbe anche oggi qualcuno, della “bontà di Dio”.

E dunque quando nel marzo 1861 Pio IX fulminò con la scomunica maggiore tutti “gli autori, i promotori, i consiglieri e i complici dell’attentato commesso contro la Santa Sede“, insomma tutti coloro che avevano “sottratto“ le Marche, l’Umbria e le legazioni romagnole, e non soddisfatti ancora da tanta empietà, macchinavano di sottrarre al Papa anche Roma, per farne, intollerabile bestemmia, la capitale del Regno d’ Italia, Camillo Cavour, pur essendo il capo degli “attentatori“, rimase calmo. Sapeva che fra Giacomo da Poirino era, absit iniuria verbo, un uomo d’onore. E non si ingannava. Il 5 giugno 1861, quando fu chiaro che il Grande Tessitore dell’unità d’Italia, sfinito dalla febbre malarica e dai salassi, non sarebbe sfuggito alla Parca che inflessibile taglia il filo della vita, Giuseppina Alfieri di Sostegno, nipote prediletta del moribondo, mandò a chiamare fra Giacomo.

Il frate e Cavour restarono soli per mezz’ora. Alla fine del colloquio fu annunciato che lo statista si era confessato ed era stato assolto: fra Giacomo era autorizzato da una dispensa del Pontefice a confessare e ad assolvere uno scomunicato, purché si trovasse “in punto di morte“. Cavour si spense all’alba del 6 giugno, dopo aver ricevuto l’estrema unzione. La Curia Romana esultò: esultò soprattutto il cardinale Antonelli, il cavour di Pio IX: se quel frate ha assolto Cavour, vuol dire che Cavour si è pentito. Di tutti i suoi peccati. Dei suoi peccati privati, non ci interessa un fico secco. Ci interessa sapere come ha confessato i suoi terribili delitti contro Santa Romana Chiesa, e come ha chiesto perdono.

Dobbiamo saperlo, perché tutto il mondo lo sappia e impari la lezione. Ma fra Giacomo da Poirino non aprì bocca. Venne convocato a Roma, redarguito, minacciato, sospeso, esiliato, ridotto alla miseria. Ma non aprì bocca. “Il povero frate francescano – scrisse Giovanni Spadolini – difese, su quell’atto di suprema misericordia cristiana, il vincolo del segreto, che poteva sciogliere solo davanti a Dio.”.

Un mese dopo la morte di Cavour, un articolista della Civiltà Cattolica (vol.XI della serie IV, 1861) scrisse su quella morte parole che non hanno bisogno di commento. Cavour ha costruito un’Italia “fittizia“ facendo violenza all’Italia “reale“.

“Diciamolo, dunque, senza gergo, perché chi parlasse altrimenti, non direbbe vero e non troverebbe fede. Ogni anima cristiana deve compiangere la morte di Cavour, ma l’effetto che essa avrà immancabilmente nelle pubbliche condizioni della nostra Penisola, ha dovuto essere riguardato come un insigne vantaggio dell’Italia cristiana e onesta“. Nella morte repentina di Cavour i cristiani hanno dovuto “riconoscere e ammirare la pietosa Provvidenza di Dio, che quando ne giudicò arrivato l’istante opportuno, ha con un soffio fatto sparire dalla scena il protagonista del dramma calamitoso, in ciò medesimo a lui facendo misericordia, in quanto con la vita gli troncava i passi a quell’estremo, già da lui decretato, che sarìa stato il più sacrilego e il più ruinoso“.

Una morte provvidenziale, dunque: per Cavour stesso, che, morendo, non poteva più compiere il sacrilegio più nefando, e cioè strappare Roma ai Papi, e per l’Italia “cristiana e onesta“, che, “liberata da un incubo e da un flagello“, avrebbe visto crollare, certamente, l’edificio “fittizio“ costruito dal Conte. Del resto, osservava l’autore dell’articolo – la sua, era una riflessione e, insieme, un augurio – il nuovo Stato, creato dall’intelligenza malefica di Cavour, solo da un’intelligenza altrettanto grande e malefica poteva esser retto e consolidato: ma per fortuna dell’Italia “cristiana e onesta“, non si vedevano in giro possibili eredi politici del Conte che fossero, per vastità e malizia d’ingegno, all’altezza del Conte.

E tuttavia il polemista della Civiltà Cattolica non riuscì a nascondere l’acuta sua sofferenza per una ferita che, invece che chiudersi, si ulcerava e sanguinava ogni giorno di più: era insopportabile, per lui e per i suoi, che gli interessi supremi di Santa Romana Chiesa fossero danneggiati dalla dignità e dall’amore per Cristo di un frate, che prima aveva assolto Cavour e poi si era rifiutato di svelare, anche all’ Antonelli, perfino al Pontefice, le ultime parole dello scomunicato. Vinto dall’ira, l’articolista raccontò, anche lui, che il Conte già delirava, quando il frate era entrato nella sua camera: e dunque la confessione non aveva senso, e l’assoluzione non era valida. Ma i testimoni avevano già dichiarato che questa era solo una calunniosa diceria.

Scrisse Spadolini che “col suo atto il silenzioso frate aveva impedito che la frattura fra coscienza cattolica e coscienza nazionale diventasse completa e insanabile.“. A me resta la riflessione che la Chiesa vive da venti secoli anche perché partorisce, per ogni don Abbondio, un fra Cristoforo, e per ogni “onesto cristiano“ simile all’articolista che abbiamo conosciuto, un fra Giacomo da Poirino.
(Foto: Melchiorre Delfico "Cavour fa ballare il valzer agli altri uomini politici")

LA STORIA MAGRA

CERTAMEN NAZIONALE DI MATEMATICA “RENATO CACCIOPPOLI” AL “MERCALLI” DI NAPOLI

Alla prova si sono sottoposti 52 allievi provenienti dai licei di Napoli e della provincia. L”elaborato è stato stilato dai docenti dell”Università Federico II, che hanno provveduto anche alla correzione e alla valutazione. Di Annamaria Franzoni

Giovedì scorso si è conclusa, a tarda sera, in un clima festoso e partecipato la I Edizione del Certamen Nazionale di Matematica “Renato Caccioppoli” istituito presso il Liceo Scientifico “Giuseppe Mercalli” di Napoli e realizzato con il Patrocinio del Comune e della Provincia di Napoli, del Dipartimento di Matematica e Applicazioni dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, della Sezione di Napoli della Mathesis e dell’URS Campania.

La finalità dell’evento è stata quella di diffondere ed incentivare negli allievi partecipanti l’interesse per la matematica e le sue applicazioni, oltre a potenziare le loro conoscenze, competenze ed abilità. La commissione organizzatrice è stata presieduta dal D.S., Prof. Luigi Romano ed era composta dalla prof.ssa Olimpia Mollo, referente del Progetto, la prof.ssa Angela Pierucci, che ha curato l’organizzazione e la sensibilizzazione alla partecipazione, la prof.ssa Mariateresa Longobardi, organizzazione spazi e tempi, e la prof.ssa Rosa Russo, responsabile della documentazione.

La prova, alla quale si sono sottoposti 52 allievi provenienti dai licei napoletani, T.L.Caro, E. Vittorini, Cacciopppoli, Labriola, Calamandrei, Mercalli, Alberti, Copernico,oltre che dal Fermi di Aversa, il Severi di Castellammare di Stabia, il Pascal di S. Antonio Abate, l’Amaldi di S.M. Capua Vetere, il Torricelli di Somma Vesuviana, il Cortese di Maddaloni, il Galilei di Mondragone, il G.Bruno di Arzano, il Pasteur di Roma, il Covelli di Caserta, il Segre di Marano, il Maffucci di Calitri, in provincia di Avellino, è consistita nella risoluzione di un elaborato stilato dai docenti dell’Università Federico II, che hanno provveduto anche alla correzione e alla valutazione degli elaborati.

Alla manifestazione conclusiva hanno partecipato la prof.ssa Gioconda Muscariello, Coordinatrice del dipartimento di Matematica intitolato a Renato Caccioppoli, il prof. Carlo Sbordone, Docente di analisi matematica presso la Federico II, il prof. Salvatore Rao, Presidente della Mathesis, il Prof. Diego Bouchè, Direttore scolastico dell’ URS di Napoli ed il Prof. Gennaro Ferrara Vicepresidente Affari generali e scuola – Provincia di Napoli, che hanno sottolineato la validità della manifestazione sottolineando anche i soddisfacenti risultati delle prove e citando il significativo processo di miglioramento registrato negli ultimi tempi nell’ambito della valutazione delle competenze matematiche nel sud del nostro paese.

A conclusione degli interventi, il Dirigente del liceo ospitante ha proclamato i vincitori:
Fatalò Simone e Guardascione Valentino, del Liceo Labriola di Napoli si sono aggiudicati il terzo e il secondo premio di 300 e 500 euro, mentre il primo premio, consistente in 800 euro è stato attribuito a Frasca Simone allievo del Prof. Antonio Fontana della VD, del liceo Mercalli.
La serata si è conclusa con un buffet presso la scuola ospitante al quale hanno partecipato gli studenti, i docenti e tutti gli ospiti della manifestazione.

È stata una bella occasione di incontro, dialogo e confronto tra docenti e allievi di diverse scuole che si è trasformata in un momento di approfondimento e arricchimento reciproco per valorizzare le tante competenze e risorse dei diversi territori.
L’appuntamento è al prossimo anno per la II Edizione.

LA RUBRICA

LE FONTI D”ENERGIA – IL SOLARE TERMODINAMICO

Gli specchi ustori di Archimede ci aiutano a scoprire un altro modo di ricavare energia elettrica dal sole. Nuovo approfondimento sulle Fonti di Energia.

Esiste un altro modo per ricavare energia elettrica dal sole, è il cosiddetto solare termodinamico o a concentrazione che si rifà agli antichi specchi ustori d’Archimede.
Enormi specchi concentrano l’energia solare su un fluido termovettore che viene riscaldato ad alta temperatura. Questo fluido, a sua volta, cede il calore ricevuto dal sole all’acqua che evapora e fornisce il vapore surriscaldato necessario ad azionare la turbina di una centrale elettrica.


IL SOLARE TERMODINAMICO
 

ARTICOLO CORRELATO

“ARTISTS FOR HUMAN RIGHTS” . ARTE SU INGIUSTIZIE SOCIALI, BURQA E PENA DI MORTE

Il tema dei diritti umani visto da 16 artisti dalle diverse sensibilità: dal diritto alla vita, alla pace, al sogno, ai diritti delle donne. In mostra alla Fondazione Forum delle Culture, a Napoli, fino al 22 aprile.

Una mostra sui diritti umani, ospitata dalla Fondazione Forum universale delle culture: l’evento rientra nella serie di iniziative con cui Napoli si prepara a fare gli onori di casa per l’atteso appuntamento del 2013, quando delegazioni da tutto il mondo arriveranno in città per il Forum. La mostra, organizzata da Galleria Monteoliveto e visitabile fino al 22 aprile nella Sala refettorio dell’ex Asilo Filangieri, nel centro storico del capoluogo, è stata inaugurata venerdì scorso. Le opere, incentrate appunto sul tema dei diritti umani, si differenziano per tecnica e tematica. Lunga la lista degli artisti esposti, italiani e stranieri.

Ci sono Loredana Alfieri, Fanny Balzamo, Marina Cavaniglia, Cherny, Cristina Cianci, Gianpaolo Cono, Denise Grisi, Miriam Maddalena, Hedy Maimann, Lieve Ophalvens, Lisa Perini, Vanessa Pignalosa, Silvia Rea, Manuela Vaccaro, Jean-Jacques Venturini, Lee Whojeong. Ogni autore è stato chiamato ad esprimersi attraverso l’arte, ma anche con parole che accompagnano le opere.

All’inaugurazione abbiamo incontrato due tra gli artisti in mostra, Silvia Rea e Gianpaolo Cono. L’artista Silvia Rea (Napoli) racconta così la sua opera. «Cosa può fare l’arte per i diritti umani?», si chiede. «Certo non garantirli, ma poiché l’arte può raccontare l’anima del mondo, può farsi strumento per denunciare la precarietà della condizione umana. E così, donne alle quali il burqa nega l’identità, donne dal volto rugoso il cui sguardo rivela una dignità calpestata possono diventare simbolo di diritti negati».

L’artista presenta due opere, struggenti e di grande impatto emotivo. Gli occhi di una anziana donna, la bocca rugosa serrata in un espressione severa, avvolta in un burqa celeste come il cielo, mentre tende a noi un bicchiere di plastica, ambigua richiesta, forse acqua, tema di grande attualità, o elemosina, come le mille facce che ci chiedono aiuto ed elemosina quotidianamente confuse tra loro. «Questa donna l’ho incontrata davvero un giorno in Messico», ci racconta l’autrice. La seconda opera rappresenta un gruppo di donne nel deserto, tutte avvolte completamente in un burqa celeste. «L’immagine di queste donne è di forza», spiega l’artista. «È vero, indossano il burqa, ma combattono. Sono donne che avanzano».

«Populismo, propaganda, politica, mancanza di volontà, interessi economici fanno sfortunatamente dei diritti umani soltanto il titolo di questa collettiva. Il resto è il sogno di qualche ultimo romantico». Queste le parole usate dall’artista Gianpaolo Cono (Napoli) per definire le sue opere. È lui ad illustrarci come leggere una delle due opere da lui esposte, entrambe caratterizzate da un tratto grafico che lo contraddistingue. L’opera accosta diverse frasi che rendono evidenti alcune contraddizioni sul concetto della violenza, che rivelano quanto spesso la “violenza” viene percepita con il filtro di strumenti che sociali e culturali.

Così si contrappone “difendere un pesce rosso in un acquario” con “bollire viva un’aragosta”, sottolinea l’autore «per noi è una cosa reputata normale, e non ci accorgiamo più che sono azioni della stessa natura. “Schiacciare un millepiedi” ci sembra giusto ma a “è barbaro uccidere una farfalla”. Fino ad arrivare alla contrapposizione tra “Teresa Lewis” e “Sakineh”». «Volevo arrivare al confronto tra le due pene di morte e di come siano state sentite in modo diverso dall’opinione pubblica», racconta l’artista con un tono che rivela un forte attaccamento al tema. «Entrambe le donne sono state condannate ad essere uccise, una delle due in un posto del mondo definito ricco e avanzato».

Oltre al sostegno del Forum delle culture, la Mostra-Progetto di Arte Contemporanea ha ricevuto il patrocinio morale del Comune di Napoli, del Consulat Général d’Italie à Nice e del Club Artisti franco italien di Nizza. Rientra nelle iniziative a favore dell’Anno Internazionale dei Giovani 2010 – 2011 deciso dall’ONU allo scopo di promuovere i valori del rispetto dei diritti umani e della solidarietà tra le generazioni, le culture, le religioni e le civiltà, elementi decisivi per il rafforzamento delle fondamenta della pace. All’artista che avrà maggiormente espresso il tema della mostra, sarà assegnato il Premio “Artists for Human Rights” che sarà consegnato dal presidente della Fondazione Forum, Nicola Oddati, a chiusura dell’evento.
La mostra sarà successivamente presentata a Nizza l’8 giugno 2011 presso la Sala Michelangelo del Consulat Général d’Italie à Nice.

Galleria Monteoliveto: Info: 081 19569414 – 3387679286 www.galleriamonteoliveto.it
(Fonte foto: Rete Internet)

L’ABUSO E NON L’USO DEI MEZZI DI CORREZIONE DETERMINA IL REATO

Talvolta, esiste ancora la convinzione che l”uso delle maniere forti nei confronti degli alunni minori siano utili a correggere e ad educare. Il caso che trattiamo si configura come caso grave.

La nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione va interpretata in sintonia con l’evoluzione del concetto di "abuso sul minore", che si concretizza allorché si configuri un comportamento che umilia, svaluta, denigra e sottopone a sevizie psicologiche un minore, causandogli pericoli per la salute, anche se compiute con soggettiva intenzione correttiva o disciplinare.

Il caso
Il C., in qualità di maestro di scuola elementare presso l’Istituto “K.”, maltrattava i propri alunni; alcuni in particolare, erano percossi con calci e schiaffi.
Condannato in appello, ricorre per cassazione.
Correttamente, con adeguata ed esaustiva motivazione, i giudici del merito hanno assunto a base della ricostruzione dei fatti le dichiarazioni rese dai minori.

Da queste, è emerso abbastanza chiaramente come il C., indicato da tutti come il maestro "X.", usava quelle che si dicono "maniere forti" per mantenere la disciplina nella classe e cercare di insegnare qualcosa ai suoi alunni. “Il maestro X. … dava botte tutti i giorni a tutti i bambini, specialmente a quelli più monelli”, questo il leit motiv delle dichiarazioni.

Il fatto commesso dall’imputato, viene qualificato come abuso dei mezzi di correzione ed appare davvero al limite del più grave delitto di maltrattamenti, non potendosi, comunque, ignorare, con specifico riferimento alle espressioni linguistiche utilizzate nell’art. 571 c.p., che la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione va interpretata in sintonia con l’evoluzione del concetto di "abuso sul minore", che si concretizza – ex art. 571 c.p. (nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo) – allorché si configuri un comportamento doloso, attivo od omissivo, mantenuto per un tempo apprezzabile, che umilia, svaluta, denigra e sottopone a sevizie psicologiche un minore, causandogli pericoli per la salute, anche se compiute con soggettiva intenzione correttiva o disciplinare.
(Cassazione Sez. VI penale. Sentenza 24 aprile – 13 settembre 2007, n. 34674)

Il Collegio ritiene che gli atti compiuti dall’imputato hanno realizzato traumi psicologici per le piccole vittime e, perciò, fatti da cui deriva pericolo di una malattia nella mente delle parti offese; pericolo che, alla stregua delle più recenti acquisizioni scientifiche, sussiste ogniqualvolta ricorre il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo, essendo, ormai, opinione comune nella letteratura scientifico-psicologica che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino comportamenti punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati dall’imputato, siano non soltanto pericolosi, ma anche dannosi per la salute psichica, così da essere responsabili di una serie di disturbi variegati e complessi: dallo stato d’ansia all’insonnia e alla depressione, fino – quando il trauma si è verificato nei primi anni di vita – a veri e propri disturbi caratteriali e comportamentali nell’età adulta.
Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso e condanna l’insegnante.

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