I SEGRETI DI CAVOUR AD UN FRATE OSTINATO ED ONESTO

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L”artefice del Regno d”Italia, fiero oppositore dei privilegi dello Stato Pontificio, temeva di non ricevere i sacramenti in punto di morte. Così non fu, e neanche il papa ha mai saputo di cosa si pentì. Di Carmine Cimmino

La mia prima visita alla basilica fiorentina di Santa Croce la consumai tutta davanti al sepolcro di Niccolò Machiavelli. Avrei dovuto riflettere, in quei momenti, sulla smisurata carità della Chiesa, che accoglie tra le sue braccia anche i suoi peggiori nemici: pensai, invece, a tutt’altro, alla terrena sapienza che le religioni costruiscono sulla conoscenza delle cose del mondo, e sulla certezza che davanti alla paura della morte anche i cuori dei leoni scadono a ventricoli di pulce.

È il terribile monopolio del trapasso, che né Epicuro, né Lucrezio, né Voltaire sono riusciti a demolire. La Chiesa può aspettare: aspettò che Machiavelli morisse, e lo fece proprio. Grazie a quel sepolcro, prova, a futura memoria, di pentimento, e prova di perdono, i giudizi amari e irriguardosi che uno dei figli più grandi dell’Italia aveva espresso sul potere temporale dei preti si trasformarono, per la Chiesa, in un luminoso vanto. Narra il conte Ruggero Gabaleone di Salmour che una mattina del 1856, avendo notato che Cavour era sereno, anzi allegro – e non cupo, e non irritato, come era di solito -, gli domandò le ragioni dell’ euforia.

E Cavour gli rispose che proprio quella mattina il suo curato, fra Giacomo da Poirino, gli aveva promesso che quando lui, Cavour, l’avesse chiamato al suo letto di morte, egli gli avrebbe amministrato i sacramenti, “senza esigere nulla che io non possa consentire con onore“. Cavour era stato sconvolto da ciò che era successo dopo l’approvazione delle leggi che dissolvevano il patrimonio della Chiesa piemontese e molti privilegi di monaci, frati e preti: tutti i ministri del Gabinetto D’Azeglio erano stati colpiti dalle censure ecclesiastiche, al ministro Santa Rosa erano stati negati i sacramenti religiosi, Vittorio Emanuele II aveva perso, in rapida successione, la moglie, la madre e il fratello, e il Papa gli aveva fatto sapere che non si poteva escludere che quelle morti fossero un avvertimento, direbbe anche oggi qualcuno, della “bontà di Dio”.

E dunque quando nel marzo 1861 Pio IX fulminò con la scomunica maggiore tutti “gli autori, i promotori, i consiglieri e i complici dell’attentato commesso contro la Santa Sede“, insomma tutti coloro che avevano “sottratto“ le Marche, l’Umbria e le legazioni romagnole, e non soddisfatti ancora da tanta empietà, macchinavano di sottrarre al Papa anche Roma, per farne, intollerabile bestemmia, la capitale del Regno d’ Italia, Camillo Cavour, pur essendo il capo degli “attentatori“, rimase calmo. Sapeva che fra Giacomo da Poirino era, absit iniuria verbo, un uomo d’onore. E non si ingannava. Il 5 giugno 1861, quando fu chiaro che il Grande Tessitore dell’unità d’Italia, sfinito dalla febbre malarica e dai salassi, non sarebbe sfuggito alla Parca che inflessibile taglia il filo della vita, Giuseppina Alfieri di Sostegno, nipote prediletta del moribondo, mandò a chiamare fra Giacomo.

Il frate e Cavour restarono soli per mezz’ora. Alla fine del colloquio fu annunciato che lo statista si era confessato ed era stato assolto: fra Giacomo era autorizzato da una dispensa del Pontefice a confessare e ad assolvere uno scomunicato, purché si trovasse “in punto di morte“. Cavour si spense all’alba del 6 giugno, dopo aver ricevuto l’estrema unzione. La Curia Romana esultò: esultò soprattutto il cardinale Antonelli, il cavour di Pio IX: se quel frate ha assolto Cavour, vuol dire che Cavour si è pentito. Di tutti i suoi peccati. Dei suoi peccati privati, non ci interessa un fico secco. Ci interessa sapere come ha confessato i suoi terribili delitti contro Santa Romana Chiesa, e come ha chiesto perdono.

Dobbiamo saperlo, perché tutto il mondo lo sappia e impari la lezione. Ma fra Giacomo da Poirino non aprì bocca. Venne convocato a Roma, redarguito, minacciato, sospeso, esiliato, ridotto alla miseria. Ma non aprì bocca. “Il povero frate francescano – scrisse Giovanni Spadolini – difese, su quell’atto di suprema misericordia cristiana, il vincolo del segreto, che poteva sciogliere solo davanti a Dio.”.

Un mese dopo la morte di Cavour, un articolista della Civiltà Cattolica (vol.XI della serie IV, 1861) scrisse su quella morte parole che non hanno bisogno di commento. Cavour ha costruito un’Italia “fittizia“ facendo violenza all’Italia “reale“.

“Diciamolo, dunque, senza gergo, perché chi parlasse altrimenti, non direbbe vero e non troverebbe fede. Ogni anima cristiana deve compiangere la morte di Cavour, ma l’effetto che essa avrà immancabilmente nelle pubbliche condizioni della nostra Penisola, ha dovuto essere riguardato come un insigne vantaggio dell’Italia cristiana e onesta“. Nella morte repentina di Cavour i cristiani hanno dovuto “riconoscere e ammirare la pietosa Provvidenza di Dio, che quando ne giudicò arrivato l’istante opportuno, ha con un soffio fatto sparire dalla scena il protagonista del dramma calamitoso, in ciò medesimo a lui facendo misericordia, in quanto con la vita gli troncava i passi a quell’estremo, già da lui decretato, che sarìa stato il più sacrilego e il più ruinoso“.

Una morte provvidenziale, dunque: per Cavour stesso, che, morendo, non poteva più compiere il sacrilegio più nefando, e cioè strappare Roma ai Papi, e per l’Italia “cristiana e onesta“, che, “liberata da un incubo e da un flagello“, avrebbe visto crollare, certamente, l’edificio “fittizio“ costruito dal Conte. Del resto, osservava l’autore dell’articolo – la sua, era una riflessione e, insieme, un augurio – il nuovo Stato, creato dall’intelligenza malefica di Cavour, solo da un’intelligenza altrettanto grande e malefica poteva esser retto e consolidato: ma per fortuna dell’Italia “cristiana e onesta“, non si vedevano in giro possibili eredi politici del Conte che fossero, per vastità e malizia d’ingegno, all’altezza del Conte.

E tuttavia il polemista della Civiltà Cattolica non riuscì a nascondere l’acuta sua sofferenza per una ferita che, invece che chiudersi, si ulcerava e sanguinava ogni giorno di più: era insopportabile, per lui e per i suoi, che gli interessi supremi di Santa Romana Chiesa fossero danneggiati dalla dignità e dall’amore per Cristo di un frate, che prima aveva assolto Cavour e poi si era rifiutato di svelare, anche all’ Antonelli, perfino al Pontefice, le ultime parole dello scomunicato. Vinto dall’ira, l’articolista raccontò, anche lui, che il Conte già delirava, quando il frate era entrato nella sua camera: e dunque la confessione non aveva senso, e l’assoluzione non era valida. Ma i testimoni avevano già dichiarato che questa era solo una calunniosa diceria.

Scrisse Spadolini che “col suo atto il silenzioso frate aveva impedito che la frattura fra coscienza cattolica e coscienza nazionale diventasse completa e insanabile.“. A me resta la riflessione che la Chiesa vive da venti secoli anche perché partorisce, per ogni don Abbondio, un fra Cristoforo, e per ogni “onesto cristiano“ simile all’articolista che abbiamo conosciuto, un fra Giacomo da Poirino.
(Foto: Melchiorre Delfico "Cavour fa ballare il valzer agli altri uomini politici")

LA STORIA MAGRA